16 giugno 2022

La strada della danza parte dalla rivoluzione: intervista a Lucinda Childs

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In occasione della prima mondiale di “Pulcinella suites” al Parco della Musica di Roma, percorriamo con la grande coreografa Lucinda Childs le tappe rivoluzionarie della danza contemporanea

Roma, Auditorium Parco della Musica 15 06 2022 RELATIVE CALM CONFERENZA STAMPA Con Bob Wilson, Lucinda Childs, Daniele Pitteri e Franco Laera © Fondazione Musica Per Roma / foto Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Il minimalismo è diventato la sua cifra artistica, uno stile essenziale fatto anche di ripetizioni ossessive, di piccoli gesti e variazioni che attraversano la scena. Tra le figure più importanti della danza postmodern americana iniziata negli anni Sessanta accanto ai maestri dell’Avanguardia artistica newyorchese, Lucinda Childs non smette di creare. La ritroviamo ancora oggi insieme a Robert Wilson, a firmare una nuova coreografia, “Pulcinella suites” sulla musica di Stravinskij, che debutta in prima mondiale al Parco della Musica di Roma nella serata dal titolo “Relative calm”. Lo spettacolo prevede anche il riallestimento di due sue coreografie storiche rivisitate: “Rise – Part one” (1981) su musiche di John Gibson, e “Avilable light – Part three” (1983) su musiche di John Adams.

Nello spettacolo “Relative calm”, che debutta in prima assoluta all’Auditorium Parco della Musica di Roma, c’è una sua nuova creazione “Pulcinella”.

«Pulcinella ha rappresentato per me una grossa sfida proprio a livello musicale, considerando che la partitura di Stravinskij è molto complessa, e che non avevo mai affrontato la sua musica. Quello che mi ha interessato maggiormente è stato il pensare che cosa sarebbe potuta diventare lavorando con Bob e con una nuova compagnia: i danzatori di Michele Pogliani della MP3 Dance Company, giovani ben preparati e aperti a qualsiasi esperienza».

Tra gli incontri più importanti della sua vita d’artista c’è sicuramente Robert  Wilson. 

«Sono molto contenta di essere ritornata a lavorare insieme a lui quest’anno. Festeggiamo 50 anni di collaborazione, iniziata nel 1976 con “Einstein on the beach”. A pensarci sono veramente tanti anni. E non ci conosciamo ancora del tutto (ride, ndr). Di recente in Francia, al Festival d’Automne, abbiamo ripreso un lavoro (“I was sitting in my patio”, ndr) dove eravamo in scena noi due, e un altro pezzo scritto da Bob, con due attori tedeschi per una produzione americana. Gli altri incontri importanti sono stati quelli con Philip Glass, con John Adams, con Frank Gehry…».

Roma, Auditorium Parco della Musica 28 09 2021 BOB WILSON E LUCINDA CHILDS © Fondazione Musica Per Roma / foto Musacchio, Ianniello & Pasqualini

E poi Merce Cunningham… 

«Con lui è stato un vero e proprio colpo di fulmine. L’ho conosciuto al College Sarah Lawrence quando studiavo danza, teatro, pittura, scultura. Venne come tutor ospite a insegnare, e ascoltandolo, vedendo le sue lezioni capii che quella della danza era la mia strada».

Nel 1963 con altri artisti – tra cui Steve Paxton, Trisha Brown, Deborah Hay, David Gordon – entra a far parte del Judson Dance Theatre, luogo che riuniva tantissime menti creative, artefici e innovatori di un nuovo linguaggio di danza postmoderno. Che ricordi ha di quegli inizi? 

«Allo Judson fui invitata. Era interessante per me scoprire la collaborazione che si instaurava non solo con danzatori e coreografi, ma anche con pittori, musicisti, scrittori. Tutto si basava sul pensiero di John Cage, su come mettere in pratica la sua filosofia con le altre forme d’arte».

Vi sentivate dei rivoluzionari?

«Assolutamente sì, perché lavoravamo a rivalutare i concetti di movimento, cominciando da una forma più pedestre. Si voleva riportare la danza a una forma umana piuttosto che fantastica. Tanti artisti della danza contemporanea però non capivano il motivo per cui noi facevamo questo».

Teatro Stabile di Bolzano, Bob Wilson ©Luca Guadagnini

Si esaltava l’idea che qualsiasi cosa potesse essere motivo di danza… 

«Esatto. Potevamo trovarci a trasportare materassi in una via e subito dopo fare una lezione di danza classica. Continuavamo a tenerci in forma ma con l’idea di fondo che tutto era possibile. Un esempio era Trisha Brown che danzava sulle facciate dei palazzi».

Lei eseguì un assolo, Carnation, nel 1964, con uno scolapasta di metallo sulla testa… 

«C’era proprio la ricerca di oggetti quotidiani con i quali creare un movimento che potesse manipolarli, oggetti non usati normalmente nelle coreografie».

A un certo punto, per alcuni anni, ha smesso di dedicarsi alla danza. Come mai? Ha sentito l’esigenza di creare un proprio vocabolario, un suo linguaggio originale? 

«Nel ‘66 la collaborazione tra di noi era diventata molto complessa e complicata, e questo ha segnato la fine del Judson. Io, come donna, volevo mantenermi da sola, e ho iniziato a lavorare come insegnante per qualche anno. Non ho mai lasciato del tutto la danza, ma senza andare in scena».

È ritornata nel 1973 formando una sua compagnia. Aveva già l’idea di creare un proprio linguaggio, una propria idea di coreografa e di danzatrice? 

«Originariamente ho lavorato solo su me stessa. Avvertivo la necessità di vedere cosa stavo creando. Ho cominciato con un piccolo gruppo di danzatori ma sempre con l’idea che lo spazio e la combinazione di passi semplici, ordinari, potessero creare una visione. Per me era già chiaro. C’è, per esempio, Melody Excerpt del 1977, un pezzo costruito solo da passi camminati, in silenzio, e tutti in cerchio. Sono partita quindi dalla manipolazione di oggetti per arrivare al solo movimento, quello semplice di geometrie nello spazio».

Teatro Stabile di Bolzano, Bob Wilson ©Luca Guadagnini

Com’è stato accolto dal pubblico, dalla scena artistica dell’epoca, questo suo modo di coreografare? 

«Non molto bene. Non fu capito. A Parigi, per esempio, il fatto che i danzatori ballassero senza musica, il pubblico mormorava pensando che si fosse rotto l’impianto audio. Ad Avignone venne persino fischiato, con i danzatori che invece dicevano al pubblico di fare silenzio perché li deconcentravano».

Lei comunque è andata avanti…

«Se quello è il tuo credo, devi continuare a farlo, a perseguirlo. Anche se non ti capiranno, va bene lo stesso. Inizialmente i miei lavori non si svolgevano realmente in spazi teatrali, ma sempre su strada, o nei musei, o sui tetti dei palazzi. La svolta principale è avvenuta incontrando Wilson e Glass. Lavorando con loro sono entrata per la prima volta in un teatro dove c’era la musica, le luci, e tutti gli apparati tecnici».

Negli anni è cambiato il suo concetto di movimento? 

«Essendo anche musicista e leggendo la musica, cerco sempre il connubio col movimento. Il movimento è creato appositamente per la partitura musicale, e quindi cambia di volta in volta a secondo di essa. I miei lavori sono comunque tutti diversi. C’è stata un’epoca in cui ho lavorato quasi esclusivamente con musicisti ancora viventi, ma poi anche utilizzando la musica barocca e altre forme musicali, dal classico al contemporaneo».

Einstein on the beach, è stata una delle esperienze più importanti della sua carriera. Che ricordo ha oggi di quello spettacolo? 

«Innanzitutto ha segnato la cosa più bella: cioè l’incontro con Bob Wilson. L’aver dovuto scrivere i testi dello spettacolo mi ha permesso di tornare alla mia passione per il teatro, però in una forma non tradizionale e assolutamente contemporanea. La trasformazione che Bob fa dello spazio teatrale per elaborare il suo concetto è unica. Sa creare un mondo quasi parallelo. Quell’esperienza quindi ha segnato un’altra svolta nella mia concezione artistica».

Come lavorate insieme? Immagino che, dopo tanti anni di conoscenza, ci sia un’intesa perfetta dove ci vuole poco per capirsi… 

«Non proprio. Io sono molto cauta con lui, nel senso che chiedo cosa pensa di un’idea, se gli vada bene o no. Lui, dal canto suo, fa lo stesso con me, quindi è difficile arrivare a una sintesi. Per entrambi è proprio un regalo la possibilità e la necessità che abbiamo di continuare a creare insieme. Ogni cosa che ci viene proposta è stimolante e lo consideriamo un privilegio poter continuare ad andare avanti».

Se dovesse definire Bob Wilson con una sola parola? 

«Direi che non esiste nessuno come lui. Ha la capacità intuitiva di capire la persona, e di portare il performer ad un altro livello, ad un punto in cui non avrebbe mai pensato di poter arrivare. È la cosa più visionaria di Bob».

Lei ha lavorato molto anche con l’opera lirica. Com’è l’approccio? 

«È interessato a comprendere come relazionarmi con i cantanti lirici, i performer e agli attori. Cerco di instaurare una collaborazione da entrambi i lati. Ho sempre preferito il dialogo, cioè capire le motivazioni del muoversi in scena. Questo è molto diverso da come lavora Bob, che invece decide dove stare e cosa fare. Con lui non hai alternative (ride, ndr). Con Bob abbiamo in comune soprattutto la musica».

Le sue opere sono apprezzate più in Europa che nel suo paese. Come se lo spiega? 

«In realtà credo sia casuale in quanto ho avuto più inviti a lavorare ed essere prodotta nel Vecchio Continente che negli Usa. La maggior parte delle mie creazioni sono state realizzate proprio in Europa. Negli Usa ho lavorato soprattutto nella West Coast e nella East Coast, su commissione, per esempio, del museo di Los Angeles, o di Chicago».

Dal suo osservatorio, come vede oggi la danza in America? In che direzione va? 

«Nonostante le difficoltà dovute al governo che fa poco per la danza, c’è sempre un grande fermento e voglia di andare avanti. Con gli sponsor e i privati si trova sempre una via per continuare».

Da poco ha compiuto 81 anni. Come ci si sente con una vita tutta dedicata alla danza? Ha dei rimpianti se guarda al passato? 

«Non ho rimpianti. La cosa importante è che da ogni sbaglio posso imparare ancora e continuare a crescere. Ancora oggi gli errori mi portano a creare nuove cose, nuove visioni».

C’è qualcosa che vorrebbe ancora realizzare, il cosiddetto sogno nel cassetto? 

«Voglio continuare a cercare nuove ispirazioni, un nuovo musicista, un nuovo progetto. Ho sempre in mente Merce Cunningham che fino a 90 anni ha continuato a creare, a pensare a nuove soluzioni e tecnologie. Non voleva smettere e non ha smesso».

“Relative calm”, ideazione, luci, video, spazio scenico e regia Robert Wilson coreografia Lucinda Childs, musiche Jon Gibson, Igor Stravinskij, John Adams costumi Tiziana Barbaranelli Compagnia MP3 Dance Project diretto da Michele Pogliani Produzione Fondazione Musica per Roma, insieme a Teatro Comunale di BOlogna, ThéatreGaronne/scène européenne di Toulose, progetto e ideazione di Change Performing Arts A Roma, Auditorium Parco della Musica, dal 17 al 19 giugno 2022

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