10 luglio 2009

fiere_resoconti Art Basel: le fiere satellite

 
Siamo lontani dai record di Miami, ma per la città svizzera sono tante le cinque fiere satellite. Segno che neppure la crisi economica è riuscita a invertire la tendenza all’ipertrofia che colpisce i grandi eventi di mercato...

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Insieme, le fiere-figlie fanno un’altra Art Basel. 325 gallerie complessivamente, e ce n’è per tutti i gusti: l’evento tradizionale (Liste), la fiera itinerante (Scope), quella giovane e dinamica (Volta), quella degli operatori latini (Hot Art Fair) e quella dei solo show (The Solo Project). E i cinesi che fine hanno fatto? Niente paura, eccoli ricomparire con una fiera nella fiera, a Scope.
A questo punto sorge il legittimo dubbio che, tutto sommato, con quel che costano le fiere, la crisi non dev’essere così dura, se alla fine si continua a far la fila per stare a Basilea.
Non è così. Le fiere sono oggi appuntamenti irrinunciabili nell’economia di una galleria d’arte contemporanea giovane, il cui giro d’affari è spesso costruito sulle volatili ed effimere tasche del collezionista-turista. E, va da sé, sull’arte-souvenir: dall’arte esotica a tutti i costi a quella “grandi firme” in scala ridotta, da quella fatta “alla maniera” del un gusto estetico dominante a quella creata apposta per moderni cabinet de curiosités.
Così, in tempi di vacche magre, dalle fiere dipende la sopravvivenza, pena la chiusura. Ma chi è il responsabile di tutto ciò? Ormai l’abbiamo capito: la colpa è della speculazione operata da gruppi di potere con la complicità del sistema tutto, dai musei alla critica, dai media alle gallerie, che oggi stanno pagando prezzi salati.
Sophie Bueno-Boutellier - Iron sky opens - 2009 - installazione (Circus)
Il direttore di “Flash Art”, Giancarlo Politi, ha preso le difese delle gallerie invocando, provocatoriamente, la sospensione di un anno di tutte le fiere, per consentire loro di sottrarsi al giogo delle application e alle sentenze delle commissioni di selezione dei loro colleghi più introdotti.
Non servirebbe a nulla. Perché queste gallerie sono nate negli ultimi 10-15 anni, sono figlie del boom dell’arte, prodotto residuale proprio di quel sistema deviato. Le chiamiamo gallerie d’arte per convenzione, ma sono ben diverse dalle gallerie vere, quelle che coltivano e crescono un collezionismo proprio, che promuovono i loro artisti in modo adeguato, che cercano sinergie con i musei, che allevano la nuova critica militante e via dicendo. Sono invece succursali occulte di potenti dealer, vetrine aperte da piccoli azionisti di artisti di precaria fama, joint venture di gruppi di collezionisti, insomma moderni take away dell’arte, di cui conosci già il menu prima d’entrare e sai di poterlo trovare tale e quale ovunque.
La crisi ha semplicemente stabilito un bivio: per i galleristi veri ci sarà la riconversione, il ritorno al lavoro sul territorio e sullo spazio; per gli altri l’inesorabile ma naturale scomparsa.
Kara Uzelman - Fire Watcher - 2007-09 - installazione (Sommer & Kohl)
LISTE

Non sbanda la sorella minore di Art Basel. Buono il successo di pubblico e discreto l’interesse intorno alle proposte per una fiera che da tempo si è conquistata un’identità precisa, riuscendo nel non facile intento di trasformare certe sue evidenti debolezze in caratteristiche esclusive e distintive: la location claustrofobica e scarsamente flessibile, ma soprattutto la selezione ispirata a una sorta di ortodossia transnazionale, fatta di un’estetica irreggimentata nel canone dominante, sono il “marchio di fabbrica” (non per nulla ospitato nella ex sede della birra Wartech) di un evento tanto cool quanto rassicurante.
Liste è una fiera di indole spiccatamente curatoriale (come è diventata l’Artissima di Bellini), che rifiuta di essere “solo” un appuntamento di mercato, pretende di essere organo legittimante e garante della qualità. Ma in fondo è niente più che la campionaria globale di ciò che è conforme all’idea di contemporaneità che si sono dati i centri di potere del sistema dell’arte nel nostro tempo.
Quello che ne esce non può che essere una grande collettiva monotematica e monocorde, un rito condiviso, un pigiama party organizzato da una joint venture nordeuropea e statunitense in cui non è facile distinguere il grano dal loglio.
Un dato interessante: molti dei giovani artisti più interessanti provengono dalla Francia, nazione che tra gallerie private e spazi non profit ha decisamente invertito la rotta dopo un periodo di onesto anonimato e poche stelle. È probabile che l’arte contemporanea nei prossimi anni parlerà un po’ più francese.
Mark Powell - White Fang - 2009 - piezografia (Arròniz)
Da Laura Bartlett ecco il lavoro aesthetically correct di Lydia Gifford, assemblaggi di materiali diversi, in stato di provvisorietà e forme elementari. Interessante però, nella sua ricerca, è l’utilizzo della videoproiezione come elemento scultoreo.
L’idea della collettiva Zwischenwelten organizzata da Circus di Berlino non è affatto male e in qualche modo sembra mostrare un’altra faccia possibile della strategia di Making Worlds di Birnbaum, ovvero quella intramondana e interstiziale, che tien conto dei precedenti e non è ancora divenuto reale. Tra gli interpreti, Haris Epaminonda, ma a farsi notare sono le opere della transalpina Sophie Bueno-Boutellier: vena nostalgica, piglio modernista, atmosfere da fin de siècle per un’artista che promette davvero bene.
Il nippo-francese Masahide Otani, da Cortez Athletico, usa un escamotage non nuovo, quello di riprodurre oggetti reali con materiali diversi dagli originali, riuscendo però a non farsi ingabbiare dalla tecnica e suggerendo vie d’uscita alle tautologie quotidiane, riflettendo su Agamben.
È una riflessione su recenti incendi dolosi accaduti a Vancouver quello di Kara Uzelman per Sommer & Kohl. Gli incendi sono stati attribuiti a fenomeni di protesta sociale contro i processi di speculazione edilizia, un caso tipico di una delle piaghe che ha colpito l’economia reale di molti stati. Uzelman inventa una sorta di laboratorio-osservatorio, prodotto dell’autodeterminazione delle classi meno abbienti. Della stessa galleria, Jimmy Robert manipola stampe fotografiche vintage: strappandole, tagliandole e piegandole ne induce il collasso formale ma anche concettuale.
Fahamu Pecou (Lyons Wier)
È un solo show quello dell’iraniano David Nuur da Martin van Zomeren: fra scultura, pittura e installazioni, il suo immaginario attinge al linguaggio cinematografico, per scoprire lo straordinario nell’ordinario, con declinazioni surreali e talora velatamente ironiche. In Italia è stata interessante la sua recente personale da Klerkx, che qui invece porta Matt Calderwood.
A proposito di gallerie di casa nostra, Francesca Minini allestisce una collettiva degli artisti della sua scuderia, tra cui Picco e Chiasera, con il nuovo video Archivio Zarathustra; da Monitor invece merita un cenno il lavoro di Ursula Mayer (Le Déjeuner en Fourrure, 2008), ultimo capitolo della ricerca dell’artista sull’architettura (in questo caso un interno) tra rappresentazione ed evocazione, realtà e memoria.

SCOPE

Terza edizione per Scope Basel, la fiera itinerante che ingloba Art Asia, una selezione di gallerie asiatiche volta a valutare lo stato dell’arte in quell’area geografica, nel contesto di una congiuntura economica globale negativa che ha colpito più duramente proprio le nuove economie come quella cinese.
Allestita nel centro sportivo Sportzplatz Landholf, è questa forse la più fiera delle fiere di Basilea. Corsie strette, stand-scatola male illuminati in rigoroso ordine ortogonale, ammassati sotto un tendone: l’atmosfera sembra esattamente quella da Festa dell’Unità, birra e salsicce comprese.
Quanto alla selezione, siamo all’estremità opposta rispetto a Liste: un bazar indistinto, un minestrone talmente ricco d’ingredienti da risultare indigesto e insapore. E nel quale scovare cose interessanti è veramente un’impresa.
Lo stand di Steinle Contemporary
Per la serie “a volte ritornano”, ecco le foto dello spericolato Li Wei da Agency. Erano molto gettonate 2 o 3 anni fa, poi il giochino è venuto a noia.
C’è un fotografo anche per Arróniz di Rio de Janeiro, si chiama Mark Powell, è americano ma vive in Messico. Il suo obiettivo coglie in pieno le contraddizioni quotidiane di una terra di confine, sublimandole in un immaginario fantastico e onirico.
Ricordano certe cose del nostro Turcato le tempere informali di Christine Reifenberger esposte da Albrecht di Berlino: il suo lirismo è derivato dalla sintesi delle forme naturali, un ritorno alle radici dell’astrazione piacevole anche se anacronistico.
Più interessante concettualmente è il lavoro di Santiago Montoya da b-146 di Zurigo, che attraverso la riproduzione manuale delle tecniche meccaniche e digitali di stampa suggerisce elementi di riflessione sul linguaggio della comunicazione di massa, anche nei suoi aspetti politici ed economici.
Passando per gli ammirati trofei tribali di A. J. Fosik della Galerie L.J., si segnalano le copie in ceramica di stereo e tv di Ma Jun, decorati con temi della tradizione popolare cinese, e le sculture precarie del coreano Seon Ghi Bahk, entrambi presentati dalla galleria Krampf, mentre le foto della kazakha Almagul Menlibayeva, esposte dall’americana Priska C. Juschka, funzionano soprattutto quando fanno emergere chiari riferimenti alla storia e tradizioni della nazione d’origine.
I reliquiari di Harald Fernagu (Martinethibaultdelachâtre)
Folta (dodici presenze) ed eterogenea la pattuglia degli italiani. AMT presenta la new entry Michele Lombardelli, qui con alcuni sulfurei dipinti; Bonelli associa alla banda del Padiglione Italia alla Biennale, Nido e Verlato, i giovani Bergamasco e Monzo; Della Pina sfrutta la vocazione spettacolare di Stefano Bombardieri; Fabio Paris si gode la star dell’animazione Eddo Stern, molto appetita dai musei d’Oriente; Gagliardi Art System tiene stretto Fabio Viale, scultore di buon talento e indubbio abilità, che paga qualche caduta e la scarsa lungimiranza della critica italiana.
C’è il solo show di Matteo Basilé per Galleria Pack, le composizioni “timbriche” di Reena Saini Kallat per Marella (presente anche a Volta), le sinuose spatolate di Jason Martin per Mimmo Scognamiglio e il fotogiornalismo di Jamshid Bayarami per Project B.
Rubin, PaciArte e Poggiali e Forconi completano la spedizione italiana.

VOLTA

Volta 5 si svolge nella suggestiva arena Markthalle di Viaduktstrasse, sorta di ombrello che si diparte da un oculo ottagonale centrale che già aveva ospitato la Design Fair.
La location è abbastanza ampia e la disposizione degli stand sufficientemente aperta e flessibile, fatti salvi alcuni punti ciechi. L’illuminazione, in parte naturale, è discreta.
L’edizione nel suo complesso, pur non avendo avuto riscontri di pubblico e vendite sufficienti, qualitativamente non è stata male per una fiera che, nata a Basilea per iniziativa dei dealer Kavi Gupta, Friedrich Look e Ulrich Voges, ha varcato l’oceano per giungere a New York.
Notizia recente è l’acquisizione da parte di Armory Show, e dunque Volta è ormai destinata a diventare soprattutto un’importante sezione a progetto sull’arte emergente dentro alla maggior fiera della Grande Mela.
Humberto Valdéz - Myths and legend of masked heroes - 2007 - linoleo (Jinetes Sampleadores de Imàgenes)
Utilizzando il nastro magnetico, il lituano Zilvinas Kempinas costruisce strutture che interagiscono con gli spazi architettonici (da Spencer Brownstone).
L’afroamericano Fahamu Pecou firma autografi come una star da Lyons Wier. La sua ricerca sulle tecniche di comunicazione di massa e sulla propaganda recentemente si è concentrata a indagare criticamente lo stereotipo afro-americano, dal cantante rap all’obamismo.
Il padrone di casa Kavi Gupta continua a scommettere sulla Mission School e su Clare Rojas, che mette in evidenza tendenze più spiccatamente installative: Barry McGee ha costruito su questo la sua carriera nell’arte che conta.
I nuovi interni congelati di Chris Larson, da Magnus Miller, non sono tra i lavori migliori dell’artista-fotografo, mentre non deludono gli Artists Anonymous da Ronmandos.
Tra le curiosità si segnala lo stand vagamente gotico della danese David Risley: discreta pittura figurativa (Bjerger e Aldridge) e una bella installazione di specchi di Henry Krokatsis. Ma una delle partecipazioni più incisive è quella di Steinle Contemporary di Monaco, grazie soprattutto agli agili e provocatori interventi di Famed e a Tilo Schulz, che non si cura di sconfinare nel design per condurre un’indagine sul gusto estetico contemporaneo.
Cinque gli italiani: The Flat, Galica, Di Marino e Marella difendono la bandiera con una selezione degli artisti di galleria. La miglior sorpresa è Furini per l’ottimo William Cobbing, scultore e autore di una performance il giorno dell’inaugurazione, che non senza originalità costruisce protesi e strane condotte, infrastrutture misteriose che citano Ballard.
Humberto Diaz - Tsunami - 2009 - installazione site specific
HOT ART FAIR

Cambia il nome ma non la location o il format. Questa è di fatto la quarta edizione di Bâlelatina, la fiera delle gallerie latino-americane che non ha mai riscosso molto interesse in terra elvetica, se non per le festicciole notturne. Eppure quest’anno qualche miglioramento, sotto il profilo della qualità di alcune proposte, s’è visto. Così è forse a questa Hot Art Fair che andrebbe assegnato il premio per la tenacia e la dignità. Collegata benissimo da bus navetta, a differenza delle altre, ha proposto un buon programma a base di performance, dj set, party, incontri e persino uno show di lotta libera messicana.

Horrach Moya porta il cubano Jorge Mayet, le cui piccole installazioni sono suggestive e oniriche reinterpretazioni della natura; Pascaline Mulliez invece mette insieme gli ottimi fotoreportage del polacco Krystof Sroda, tra modernità decadente e cultura popolare, e i complessi ex voto del francese Coyotte.
A proposito di religiosità, ci sono anche i reliquiari di un altro francese, Harald Fernagu, che rielabora oggetti di culto popolari per Martinethibaultdelachâtre.
Jinetes Sampleadores de Imàgenes (Messico) è un vero e proprio centro di ricerca e promozione della mitologia della Lucha Libre messicana. In mostra opere che l’hanno celebrata, dal noto Dr. Lakra a Humberto Valdéz a molti altri. Oltre allo spasso garantito, anche un lavoro interessante di tutela di un aspetto della cultura messicana di tradizione centenaria.
Fra le Outdoors Installation convincente è il lavoro Tsunami del cubano Humberto Diaz: ispirato a un lavoro di Hokusai, si tratta di uno studio sull’interazione tra le forze dell’uomo e della natura. E non è l’unica sua opera interessante. Artista da rivedere.
Le opere di Jacobo Castellano (Galerie Fùcares)
THE SOLO PROJECT

Giunta alla seconda edizione, la fiera si prefigge di dar spazio a una serie di progetti monografici. Un’idea neppure peregrina, che consentirebbe di leggere con compiutezza il lavoro degli artisti: un’eccezione per un evento di mercato. Ma sarà l’aria decadente della St. Jakobshalle, saranno la scarsezza di visitatori o la scelta di gallerie non proprio di primo piano, di fatto i risultati sono molto scadenti.

Nel contesto generale scarsamente qualificante, finiscono penalizzati i rari lavori interessanti. È il caso della giovane tedesca Hannes Broecker (Galerie Baer), che preleva e classifica forme, individua codici linguistici nei contesti urbani e ne fa materia per la sua pittura, che disinvoltamente declina in forme scultoree e installative di notevole energia.
L’indole della riappropriazione ce l’ha pure lo spagnolo Jacobo Castellano, presentato da Galerie Fùcares, ma si concentra negli spazi domestici. Interessanti sono soprattutto le opere titolate Monumento, totem eretti al banale quotidiano.
Christian Eisenberger è scultore, pittore e performer. Artista austriaco irriverente con qualche reminescenza dell’Aktionismus, è presentato da Konzett e ha suscitato un discreto interesse.
Tra le curiosità si segnala la scultura di Patrick Haines di Mauger Modern Art; Haines altri non è che l’artigiano di quasi tutte le star inglesi (Chapman Brothers, Quinn, Gormley, McCarthy, Whiteread). Insomma, uno che vive nell’ombra, ma dalle cui mani dipende una buona fetta dell’arte contemporanea inglese. Qui prova a mostrarsi nelle veste di artista lui-même. Un virtuosismo vagamente gotico di cui possiamo fare a meno. Il buon Patrick può tornare nell’ombra; di lui, come del resto dei restanti solo show, non sentiremo certo la mancanza.

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Il resoconto di Art Basel 40

alfredo sigolo


www.liste.ch
www.scope-art.com
www.voltashow.com
www.hot-art-fair.com
www.the-solo-project.com

[exibart]

2 Commenti

  1. tra le gallerie presenti a Scope ho mancato di citare, tra gli italiani, Factory-Art di Trieste. Nella sezione Solo-projects presentava Andrea Contin, Beatrice Crastini e Saskia Van Dijk. A ottobre, la galleria aprirà una nuova sede a Berlino. In bocca al lupo.

  2. bello questo articolo… certo che la lista di artisti e gallerie è sempre e inevitabilmente da capogiro, cioè… l’effetto zapping non si può evitare, ma le note critiche a margine allegeriscono non poco.
    notevole la prima parte, che con poche righe sintetizza bene lo status quo, con relativa e secondo me giusta premonizione.
    e bravo andrea sigolo!

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