21 aprile 2012

Il Salone tira, l’Italia no. L’arte forse

 
Arte al Salone del Mobile? Non esageriamo. Eppure Milano, in questi giorni vivi di creatività, diventa la piattaforma ideale per raccontare come si vive il design e qual è il suo grado di parentela con l'arte contemporanea. Non tanto attraverso le opere, ma nella globalità di un evento che raccoglie in sé tutti gli stilemi degli universi creativi. Che qui non paiono sentire la crisi ma anzi, esagerano [di Matteo Bergamini]

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Milano e il Salone del Mobile. Un matrimonio perfetto che negli ultimi anni è letteralmente esploso anche tra i non addetti ai lavori che, in occasione della rassegna, si trasformano in esploratori di tendenze e affollano zone che sembravano improponibili come location espositive. A partire proprio da via Tortona, dietro la stazione di Porta Genova, destinata a diventare in futuro – anche in relazione all’apertura del museo delle culture firmato da Chipperfield, negli spazi dell’Ex Ansaldo – una sorta di nuova Brera, o Isola, due zone che a loro volta negli ultimi anni si sono trasformate in “Design District” di alto livello, con un’impronta meno underground, che invece continua a caratterizzare la superficie di Zona Tortona.
Questa forse è una delle facce più interessanti del Salone del Mobile, cambiato  negli anni da una fiera per addetti ai lavori a una delle pagine più frizzanti della movida milanese, dove anche gli spettacoli teatrali (vedi Physique du Rôle nella sezione speed-news) vengono riadattati per far posto ai complementi di arredo che hanno fatto dell’Italia, e di Milano soprattutto, la capitale indiscussa di uno stile che, questo sì, dall’estero ci invidiano.

Insomma, il design è forse davvero il pretesto per “uscire a giocare”, incontrarsi, discutere (ma nemmeno troppo animatamente), per fare rete sociale, per sentirsi parte di una comunità. Perché? Probabilmente perché non ha le implicazioni “pesanti” dell’arte e perché risulta più aderente alla vita quotidiana. D’altronde una poltrona è sempre una poltrona, in qualsiasi salsa la si metta, e un compito lo deve assolvere: una disciplina che dunque non si porta addosso il carico dell’ “a volte vacuità” del visivo contemporaneo, ma che  coinvolge le necessità primarie dell’uomo. Non si tratta di sminuire forme e contenuti, sia chiaro, ma di rimarcare una differente posizione di tono rispetto a quella che è l’arte tout court, anche se al Salone del Mobile con l’arte si gioca, eccome.
Si gioca con le installazioni, con il rapporto indiscusso che le discipline intrattengono tra loro, proprio perché spesso alcune opere assomigliano paurosamente a oggetti di design, mentre capita che al Salone si vedono installazioni che mai si vedranno a una fiera d’arte. Primo perché lo stupore gioca una carta fortissima e il tono pretestuoso, comune anche all’arte, qui forse è meno evidente. Secondo – ed è la vera differenza – perché è risaputo che la moda e il design hanno dalla loro un forte basement economico. E allora si esagera.

Si fa quello che non si è riusciti a fare a Miart e che non si riesce quasi mai a fare con una fiera d’arte. Troppo legata a una settorialità ristretta e con  disposizioni economiche differenti: nel caso del design e dell’architettura si parla sempre, oltre che di creatività, di impresa, dunque di vendite, di grandi numeri, che l’arte si sogna. E in ultimo perché il pubblico fatica ancora a coinvolgersi in ciò che si avvicina troppo all’arte. Troppo “specialistica”, e spesso poco divertente. Insomma, rispetto alla piccola Miart, alla fiera di Bologna in crisi e al mese di Photofestival – quest’anno davvero in sordina – questa settimana, nonostante un tempo inclemente, la crisi e la carenza di servizi che Milano deve affrontare durante queste manifestazioni, il Salone del Mobile alla nuova fiera di Fuksas per gli addetti ai lavori, e in giro per Milano per tutti i curiosi, tira. E non pare sentire crisi.

Vale la pena, quindi, riportare qualche esempio esagerato in bilico tra l’arte, il design, la teatralità delle azioni in una con-fusione di generi che però non tradisce le aspettative di un Salone del Mobile, anzi del Fuorisalone, che non può cominciare che in zona Tortona, proprio negli spazi dell’Ex Ansaldo. 
Mond Commun è una collettiva dei progetti delle scuole d’arte e design francesi, all’interno di quello che si potrebbe definire il Padiglione Francese del Fuorisalone. Esempi improbabili di un design che strizza l’occhio all’arte, che prende in esame le relazioni umane, che coinvolge una comunità intorno alle azioni comuni e propone dispositivi per la socialità. Dall’Istituto Superiore di Arte e Design di Saint-Etienne arriva, firmato da Charlotte Faucon, La Parade Amoureuse, un collare-segnale per attirare o meno l’attenzione dell’altro, ispirato alla seduzione nel mondo animale oppure, progettato da Chloé Petitjaean, i Bicchieri Comunicanti che riscrivono la socialità dell’atto di bere con gli amici: 12 differenti forme di bicchieri, caraffe e contenitori per acqua uniti da un sistema flessibile di cannucce che trasformano un atto individuale in collettivo.

Giovedì sera invece, sotto il diluvio universale, in Porta Venezia (da quest’anno l’ennesimo “district” del design), ha inaugurato Garage Milano, 1500 metri quadrati di galleria in un’ex rimessa ristrutturata. Uno spazio che definire incredibile è uno schiaffo morale, che ha messo in scena in occasione del Salone un evento intitolato “Revival”, dove vecchi e nuovi pezzi di design (firmati tra gli altri da Cesare Viel, Richard Woods e Roberta Colombo, si sono incontrati con un dj set curato da Rolling Stone, con le proiezioni di Gabriele Basilico e con una “food performance” dove il pubblico doveva staccare palloncini-coppe di cioccolato calati dal soffitto per farseli riempire di fragole e panna. Effimeri? Anche questo è salone, e anche questa “azione” la dice lunga sul perché il pubblico (anche di addetti ai lavori) preferisce l’arredamento.

Continuando nelle digressioni dell’arte anche la mostra “Ouverture”, allestita negli spazi di Emporio 31, show room milanese di tendenza per il design, completamente svuotato e riadattato per l’occasione a galleria, non ha nulla da invidiare alle mostre a tema che si sono viste negli anni in istituzioni come la Triennale: qui convivono, insieme a brandelli di video presi dalla cinematografia più classica, da Buster Keaton a La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, selezionati dall’artista Dimitris Kozaris, gli esempi lampanti di come il design abbia lavorato sul dualismo aperto/chiuso, in una carrellata che coinvolge dai prototipi delle sedie pieghevoli (Piana di David Chipperfield) ai “divani mutanti” Sosia di Emanuele Magini, fino ai Transformers, i celebri robot giocattolo “apribili” lanciati nel nel 1984 dalla Hasbro e il telefono Grillo.

Più istituzionalità alla Fabbrica del Vapore con l’esposzione “Misiad”, dove in 2 metri quadrati, capeggiati da Alessandro Mendini, oltre 200 designer hanno avuto la possibilità di mettersi in mostra in una collettiva corale sulle ultime tendenze del progetto. Al Museo del Novecento invece, curata da Cloe Piccoli, l’installazione dello studio tedesco Kuehn Malvezzi per la settima edizione di “Inside Art”, che ha occupato con nuove forme lo spazio della Sala dell’ “Arabesco al Neon” del 1951 di Lucio Fontana, cercando un nuovo dialogo con l’opera emblema dello Spazialismo.

Al Nhow hotel, invece, sezione dedicata ai prodotti di Gugliermetto e all’esperienza creativa della Torino degli anni Settanta, con protagoniste le creazioni in gommapiuma e i complementi d’arredo di Gianni Arnaudo, Ugo Nespolo, Piero Gilardi e Diego Maria Gugliermetto. Una sala dove arte/design, gioco e creatività si fondono insieme, sottolineati dalle parole dei diretti protagonisti che raccontano il magico periodo dell’innovazione italiana che andava a braccetto con le Avanguardie e che è riuscita a creare oggetti dissacranti e ironici nonostante la serialità che i prodotti dovevano mantenere.

Un Fuorisalone, per certi versi, ibrido e più legato all’arte e alle sue connessioni anche performative, dove tutti si mettono in mostra. Come a Lambrate, dove il giovane Omar Hassan, fresco di diploma a Brera, ha fatto una sorta di caccia al tesoro per visitatori curiosi. Seguendo una serie di pallini colorati sul marciapiede, che partono proprio dalla stazione ferroviaria e percorrono via Viotti, entrando nella metafisica piazza delle Rimembranze di Lambrate, conducono infine al piccolo parco di via Conte Rosso, dove si riuniscono nell’immensa decorazione di un muro di cinta trasformato in uno “spot painting” ambientale. Anche questo è Fuorisalone. Ufficiale o no, poco importa. 
          

Ma, tralasciando una mappatura geografica della città che si lascia invadere da studi aperti, party, opening e presentazioni più o meno ufficiali, visto che sono parecchi anche i partecipanti “off”, ovvero coloro che non hanno pagato profumatamente uno stand al Superstudio o in qualche show room cittadino, ma che espongono i loro prodotti open air (martedì sera davanti al Superstudio un  giovane designer siciliano con una bici molto particolare – struttura in legno e freno a contropedale – avvicinava i curiosi e raccontava del suo prototipo in mostra “abusivamente”), bisognerebbe tracciare, alla Pier Vittorio Tondelli, una classifica della fauna che affolla l’evento più mondano di Milano. E quello più apprezzato, proprio per il suo carattere di gratitudine e “democrazia”. A parte (pochi) party su invito nelle giornate inaugurali e durante il week end, appena prima della chiusura delle danze, è facile imbattersi in modelle che mangiano panini dagli ambulanti, universitari in cerca di un aperitivo aggratis al Superstudio, signore di mezza età che provano alternativamente divani, poltrone, pouf e osservano lampade, appendiabiti e cassettiere high tech senza tanta voglia di interessarsi, proprio perché tutto questo calderone fa davvero parte di un rito collettivo a cui nessuno che si occupi, anche marginalmente, di moda, arte, design, architettura o più semplicemente di “life style”, da protagonista o da fan, può mancare. E questa è la sua forza trainante, in barba ai grandi discorsi e alle cervellotiche superfetazioni legate ad un’arte sempre più in crisi, che spesso si riscopre grande quando riesce a toccare le corde di un’umanità che il Salone ha sempre avuto dalla sua parte.

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