24 maggio 2012

Tutte le strade portano a Roma?

 
Dal 25 maggio Roma Contemporary al via. Abbiamo sentito le aspettative di alcuni galleristi e della codirettrice Paola Rampini. Per scoprire che la capitale ha un milione di cartucce da sparare, ma è bloccata da parole che spesso rappresentano dei veri contraddittori: crisi, collezionismo, estero, rete, collaborazione. E poi c’è di mezzo il calendario, una data che cade tra New York, Hong Kong e Basilea. E che non l’aiuta [di Matteo Bergamini]

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Quinta edizione per Roma Contemporary, quest’anno sotto l’auspicio di un nuovo nome più veloce e più accattivante. Eppure alla fiera, secondo gli addetti ai lavori, restano diverse problematiche, prima tra tutte quella di essere una sorta di “cuscinetto” tra una serie di manifestazioni bomba come la neonata Frieze newyorkese, Art Hong Kong, che dal prossimo anno porterà il nome di Art Basel e Basilea stessa, che si apre tra poco meno di un mese.
In più si va a sommare un’altra caratteristica difficile: la fiera di Roma nasce nel 2008, anno che ha segnato l’inizio della profonda crisi dell’Occidente. Una kermesse che dunque, da subito, si è trovata a lottare nel terreno difficile della mancanza di fondi, sia pubblici che privati, e dei collezionisti. Già, perché sono loro, volenti o nolenti, a fare la fortuna di una fiera. Federica Schiavo, giovane direttrice romana dell’omonima galleria, tra gli stand alla Pelanda, è molto chiara: «Dalla fiera di Roma non ci si aspetta niente di più e niente di meno che quello che si chiede ad altre fiere, ovvero un buon numero di collezionisti negli ingressi con i quali costruire un rapporto, o continuarlo». Già, perché poco importa di riuscire a vendere un’opera in fiera se poi non v’è riscontro nelle attività di tutto l’anno. 
Il primo punto, perché questa edizione di Roma Contemporary possa andare bene, è insomma strettamente connesso a chi passeggerà tra gli stand del MACRO, da coloro che determinano un mercato che «non è scomparso, ma è semplicemente immobile, fermo, da qualche mese completamente, e non è facile fare una previsione di dove andrà a finire e quando», sottolineano il gallerista torinese Alberto Peola e Furini. 

La fiera, insomma, deve essere il luogo dove succede qualcosa, dove si incontrano i collezionisti e dove vi è un approdo più sicuro rispetto al mercato in galleria, disertato negli ultimi tempi. 
Ma com’è questo collezionismo romano? Secondo Peola è «ottimo, e ha sempre portato buoni risultati», la speranza ovviamente per lui è che questa attenzione continui sulla scia delle edizioni precedenti. Per Federica Schiavo la fiera è un termometro per il mercato della capitale, l’angolo giusto da dove osservare cosa è successo negli ultimi anni e per progettare il futuro, anche se sarebbe particolarmente importante che arrivassero a Roma più collezionisti stranieri, nonostante le condizioni siano abbastanza critiche «Roma Contemporary è ancora un po’ alla ricerca della sua identità: non è ancora ben definita come Torino, eccellenza per il contemporaneo, o Bologna, che seppur in declino resta una fiera di mercato sia dell’antico che del contemporaneo, ma sta facendo ottimi sforzi per trovare una sua dimensione, confermando in questi anni una buona qualità dell’offerta» afferma Federica Schiavo.
E anche questa conta. Francesca Meli Furini di Furini Arte Contemporanea di Roma parla non a caso di «aspettative positive. Abbiamo artisti internazionali molto forti con noi a Roma Contemporary e di cui siamo fieri: Marlon de Azambuja, Robert Barta e Nemanja Cvijanovic. Siamo certi che colpiranno il nostro pubblico, trattando il tema socio-politico con forza e determinazione».

Dal canto suo, Paola Rampini, direttrice e creatrice con Roberto Casiraghi di Roma Contemporary, sa benissimo che già l’anno scorso «quando si annunciò l’edizione newyorkese della fiera di Londra, era chiaro che Roma ne avrebbe risentito, anche se nessuno si sarebbe aspettato di entrare, dopo pochi mesi, nella crisi profondissima che stiamo vivendo oggi», altro punto che non fa partire avvantaggiati, come ricorda anche Furini: «Punto forte della fiera è la capacità e la forza di tenere alta la qualità anche quando l’atmosfera è incerta. Le debolezze sono tutte legate alla situazione politica nazionale, e internazionale, che ovviamente si riflette anche in quella economica».
Dello stesso avviso è anche Peola, che vede un mancato accesso al mercato italiano delle gallerie straniere, che tendono a puntare a fiere molto più mainstream e, soprattutto, non solo le gallerie estere non passano da Roma, ma sono addirittura i collezionisti ad espatriare: «Forse non tutti sono stati ad Hong Kong, ma certamente una buonissima parte è andata alla prima di Frieze Oltreoceano e tutti andranno a Basilea». Ecco spiegato un limite della crescita difficile della fiera di Roma.

Mancano gallerie straniere e dall’estero si vede. E qui entriamo nel capitolo dei rapporti interni al mercato. Sappiamo tutti quanto l’ambiente dell’arte sia circoscritto e sappiamo che se una galleria estera vuole fare una fiera in Italia le prime informazioni le raccoglie dai colleghi italiani. E se questi scelgono di partecipare a una fiera o meno, spesso la galleria straniera agirà di conseguenza. Da questo punto di vista si può innescare un meccanismo virtuoso di apertura o un’esclusione che non porta lontano. 
Se Peola sceglie Roma per il collezionismo, Federica Schiavo lo fa non solo perché Roma è la sua città, ma anche per promuovere la creazione di una rete, per portare avanti questo famoso “sistema” che nella capitale è molto forte tra colleghi che si occupano di contemporaneo, anche se poi per un motivo o per un altro alcuni scelgono di non partecipare alla fiera della propria città. Paola Capata, direttrice di Monitor, per esempio, dichiara che una serie di deadline relative all’attività della galleria non consentono la partecipazione ad un manifestazione programmata per la fine di maggio. Lo stesso vale per Marie-Laure Fleisch e Sara Zanin, che dichiara: «La nostra scelta, in parte dolorosa, è stata dovuta semplicemente ad un eccesso di appuntamenti che nell’anno ci ha coinvolti e prosciugato le nostre energie. Dopo l’apertura della nuova galleria con il corredo di ovvi problemi di avvio, gli eventi che ci hanno visti coinvolti con il MAXXI, la collaborazione con la fondazione Maramotti e un’altra serie di iniziative minori che ha visto presenti i nostri artisti, ci ha fatto decidere per quest’anno di partecipare ad una sola fiera e questa non poteva che essere Bologna. Sicuramente l’assenza in fiera non aiuta “una rete del contemporaneo” a Roma, ma è pur vero che questa fantomatica rete non può sempre e solo basarsi sulla buona volontà dei singoli e dei privati, altrimenti siamo sempre all’”armiamoci e partite”, i problemi del MAXXI e l’annullamento della Quadriennale non sono certo creati né si possono superare con una maggiore partecipazione alla fiera». 

Ma com’è davvero questa quinta versione di Roma Contemporary? Una fiera assolutamente eterogenea, anche nelle sue ristrettezze: Paola Rampini si dice «orgogliosa di questa nuova edizione così “lottata” perché, accanto alle gallerie più solide, c’è un parterre cospicuo di gallerie giovani, valide per costruire del nuovo, che hanno lo sguardo necessario per sopravvivere alla crisi e che spesso sono più interessanti delle vecchie glorie che non si rinnovano». Pazienza, dunque, se non ci sarà chi determina l’establishment del panorama italiano.
Ma il problema che resta intorno a Roma, e nelle fiere in generale, è che si tratta di un piccolo tassello di un mondo molto più ampio che, nel caso in cui fallisse, si ripercuoterebbe non solo sulle categorie, ma sui singoli lavoratori. «Parliamoci chiaro: il vecchio aforisma “l’unione fa la forza” è valido anche per queste dinamiche. Se le gallerie collaborassero di più con le istituzioni, le fondazioni, se avessero un dialogo più partecipato e più “collettivo”, allora forse anche il collezionismo, il sistema dell’arte e anche la fiera ne risentirebbero in positivo», continua Rampini. Invece, risulta diffuso un atteggiamento un po’ egoista che impoverisce un intero settore che si sgretola, rischiando di sparire e di portare con sé i diretti interessati. 
«Roma – sottolinea Federica Schiavo – sta facendo lo sforzo giusto per calibrare le scelte, sia a livello di curatela che di management, per far decollare la propria fiera». E l’esempio inverso cade ancora una volta su Torino. Dove Artissima, secondo Peola, è stato un miracolo in una città che, nonostante tutto, restava decentrata rispetto al giro del contemporaneo, ma dove tra i corridoi della fiera, nonostante le ottime curatele, non passano troppi collezionisti secondo Schiavo.

«Che invece nella capitale ci sono», afferma con decisione Rampini. «Roma è l’unica città italiana che, nonostante per certi versi sia rimasta indietro di vent’anni sulla tabella di marcia del contemporaneo, ha una spinta propulsiva nei confronti dell’arte di oggi. La città dove c’è più spazio per la sperimentazione. Prima di tutto perché tra le sue istituzioni vi sono due musei come il MACRO e il MAXXI che, nonostante tutte le storie che conosciamo bene, sono dedicate all’arte contemporanea. Poi perché Roma ha un collezionismo giovane, che in altre realtà come Torino o Milano non si è rinnovato, così come non si sono rinnovati il parco gallerie e le strutture museali. A Torino, nonostante le loro attività, si sentono distanti sia il Castello di Rivoli che la Galleria di Arte Moderna. Stessa sorte a Milano, che nonostante l’ottimo sviluppo di gallerie, non gode di un supporto istituzionale. A Roma invece c’è la volontà, anche da parte delle numerose fondazioni pubbliche e private e da parte dei giovani galleristi e collezionisti di allargare il campo del contemporaneo».
A proposito del rapporto tra istituzioni e gallerie, giusto per fare un esempio, Alberto Peola che porta a Roma una serie di artisti che in questo periodo sono in mostra in alcuni grandi musei o kermesse: Paola De Pietri, attualmente esposta al MAXXI e con una personale ai Chiostri di San Pietro a Fotografia Europea; Laura Pugno, che avrà una personale alla Sandretto Re Rebaudengo a partire dal 29 maggio; Eva Frapiccini prossimamente a Rivoli e Emily Jacir che sarà tra i protagonisti di Documenta 13. Così come Federica Schiavo avrà tra gli artisti in fiera Ishmael Randall Weeks, attualmente in studio residence al MACRO. Due esempi lampanti di come le gallerie private possano potenzialmente fare rete con le istituzioni, in un rapporto che farebbe bene a tutti.

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