20 maggio 2021

The Father: un toccante esordio da Oscar, per il regista Florian Zeller

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Il drammaturgo Florian Zeller fa il suo esordio al cinema con "The Father", il toccante ritratto di una famiglia travolta dall'Alzheimer, con un Anthony Hopkins da Premio Oscar

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«L’Alzheimer è la malattia più diffusa la mondo, la vera malattia del secolo. Ogni tre secondi infatti, nel pianeta, viene diagnosticata questa patologia a una persona», sono le prime parole che compaiono digitando su Google “Alzheimer”. Effettivamente, i numeri anche in Italia sono altissimi: oltre 600mila mila persone sono malate di Alzheimer, colpendo fino al 5% degli oltre 60enni. D’altronde tutti hanno avuto almeno un contatto diretto con un malato, tutti sanno che cos’è, dalla perdita della memoria, al nascondiglio di forchette o altri oggetti domestici, dal fissarsi insistente su dettagli apparentemente superflui, a ricordare distintamente episodi d’infanzia. Sappiamo, o possiamo immaginare, la stanchezza di un parente che deve gestire, accudire, badare un malato, il nervosismo nel dover rispondere per la centesima volta alla stessa domanda, la difficoltà nell’organizzare il quotidiano, il senso di colpa nel dover prendere poi la decisione di ricorrere a una casa di cura. Ma il malato cosa vive? Cosa pensa in quei momenti di lucidità che gli riaccendono lo sguardo e la vita?

Il doppio binario di The Father

The Father, film con cui il regista e drammaturgo francese classe 1979 Florian Zeller fa il suo esordio al cinema, ci trascina in un turbinio di emozioni contrastanti, in cui ci si perde spaesati senza capire più da che lato stiamo guardando la storia ma non l’ansia e il timore che si possa ricadere in quella dannata statistica. La storia è semplicissima: una figlia, interpretata da Olivia Colman, reduce del successo di The Crown, deve capire come gestire nella quotidianità il padre malato, il Premio Oscar come miglior attore protagonista Anthony Hopkins. In questo doppio binario che è la vita dei due protagonisti, la gabbia in cui abbiamo vissuto l’ultimo anno sembra uno scherzo in confronto alla labirintica condizione cui questa malattia conduce, del malato perso nel suo limbo di ricordi annebbiati, e del caregiver annientato del suo io nella cura dell’altro.

Zeller è anche lo sceneggiatore del film – con cui ha vinto l’Oscar per la “Migliore sceneggiatura adattata” – e il drammaturgo che nel 2012 ha scritto il testo Le Père portato sempre da lui in scena al teatro Hébertot di Parigi e poi rappresentato tra Londra e New York, accolto dalla critica come «Il miglior nuovo spettacolo dell’ultimo decennio» e che ha vinto nel 2014 il prestigioso riconoscimento francese Molière Award, e già diventato il film Floride diretto da Philippe Le Guay, del 2015.

L’importanza del teatro agli Oscar

Il teatro, ancora una volta, è protagonista della notte dell’Accademy. Fin dalla prima edizione degli Oscar, nel 1929, la “Migliore sceneggiatura adattata” è vinta dalla sceneggiatura di Settimo cielo di Frank Borzage. Poi citarne alcuni, nel 1966, Un uomo per tutte le stagioni di Fred Zinnemann, tratto dall’opera teatrale di Robert Bol; Amadeus, film del 1984 diretto da Miloš Forman e tratto dall’opera teatrale di Peter Shaffer. O ancora, Moonlight, film del 2016 di Berry Jenkins adattato dal testo semi-autobiografico e mai pubblicato di Tarell Alvin McCraney Moonlight Black Boys Look Blue.

E se si prendesse in considerazione l’intera cinematografia l’elenco sarebbe lunghissimo – basti pensare a tutta l’opera shakespeariana – e non mancherebbero esempi italiani, come, tra gli ultimi, Il sindaco di Rione Sanità, del 2019, di Mario Martone. E lo stesso vale per i registi teatrali prestati al cinema in cui l’imprinting della scena rimane spesso presente, acuendo dettagli, mimiche, minimi gesti spesso non possibili o non percepibili su un palcoscenico. Insomma, la contaminazione delle arti c’è sempre stata e in questo anno di pandemia, in cui il teatro è sconfinato spesso sul piccolo schermo, la vicinanza è in alcuni casi diventata osmosi.

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