15 luglio 2021

Archeologia del futuro: intervista a Hamzehian e Mortarotti

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Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti si raccontano in questa intervista in occasione de L'Isola, in mostra al Festival della Fotografia Europea di Reggio Emilia

Hamzehian Mortarotti, Untitled Yonaguni, 2019 © Hamzehian-Mortarotti

In questa intervista con Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti abbiamo parlato di creatività, de L’Isola, il progetto in mostra al Festival della Fotografia Europea di Reggio Emilia e della loro storia come duo al lavoro in giro per il mondo. L’archeologia del futuro proposta dai due artisti riesce a far riflettere sul futuro degli archivi, su come riusciremo a ricordare da qui in avanti.

Anush e Vittorio, in collaborazione con Patrick Heinrich – docente dell’Università di Ca’ Foscari – si sono dedicati a raccontare un luogo, Yonaguni, situato nel mezzo dell’Oceano Pacifico.
Non solo isola remota, Yonaguni è anche un luogo dove non è rimasto quasi nulla: non c’è lavoro, non ci sono scuole superiori ma nemmeno ospedali.
Nella cornice dei suggestivi Chiostri di San Pietro l’installazione audio-video dedicata a quello che rimane di Yonaguni è restituita al pubblico anche attraverso la lettura integrale di tutti i lemmi della lingua autoctona, il dunan, nei punti di ascolto sparsi per il centro di Reggio Emilia.

L’isola è quindi diventato un libro, un film e un’installazione al Festival di Reggio Emilia in grado di emozionare

Iniziamo da voi: come vi siete conosciuti? Come avete capito che vi sareste legati sia professionalmente che creativamente?

A.H.: Sono nato nel 1980 a Padova e non sono italo-iraniano come si dice spesso ma solo italiano, non avendo la doppia cittadinanza. Vivo in Francia dal 2006 e ho un percorso anomalo, proprio come Vittorio. Ho fatto Scienze della Comunicazione perché a 18 anni volevo fare il giornalista ma presto mi sono reso conto che il mio vero desiderio era quello di raccontare storie. Mi sono laureato con una tesi sulla Guerra Civile Spagnola sfruttando una mia grande passione – che tra l’altro condivido con Vittorio – ovvero quella per la storia contemporanea. Nel frattempo mi sono avvicinato al mondo del montaggio imparando a filmare e a montare finendo a girare documentari professionalmente una volta arrivato in Francia. Devo dire che una volta deciso di unire le forze creativamente e professionalmente la nostra vita è molto cambiata. 

V.M.: Classe ’82, nato in provincia di Cuneo ho studiato lingue sia al liceo che all’università. All’università ho continuato il percorso linguistico scegliendo di studiare lingue orientali a Torino nonostante avessi il sogno di andare a vivere a Venezia. Nel 2005, qualche mese prima di Anush, sono andato a vivere a Parigi per fare un Master in Fotografia.
Come Anush ha sempre saputo di voler raccontare storie io ho sempre saputo di amare le immagini, di cultura visuale. Lì, a Parigi, ci siamo incontrati.

“Essendo due amanti della solitudine, mi piace pensare che siamo due solitudini che si sono incontrate”

Courtesy Hamzehian e Mortarotti.

A.H.: Entrambi eravamo già spediti nei nostri percorsi, Vittorio faceva fotografia e io facevo film, e lo facevamo entrambi con molta gioia. Essendo due amanti della solitudine, mi piace pensare che siamo due solitudini che si sono incontrate. In questo senso il nostro è uno di quegli incontri più unici che rari nella vita. Uno più uno nel nostro caso fa senz’altro tre.

È dal 2013 però che abbiamo deciso di lavorare insieme, nonostante il nostro primo incontro fosse avvenuto nel 2006. Abbiamo aspettato che ci fosse qualcosa di indispensabile per iniziare a collaborare. Nel 2013 Vittorio stava partendo per il Giappone in direzione di un lavoro fotografico poi diventato The First Day of Good Weather e quando mi ha raccontato la storia dietro a questo progetto gli ho subito detto che sarebbe stato un film documentario perfetto. Una volta partiti insieme per il Giappone, da subito abbiamo capito che da quel momento in poi avremmo smesso di fare quello che stavamo facendo per diventare – anche se composto solo da due – un collettivo.

“Da subito abbiamo capito che da quel momento in poi avremmo smesso di fare quello che stavamo facendo per diventare – anche se composto solo da due – un collettivo”

Il vostro duo creativo è sorprendentemente insolito. Cosa significa per voi lavorare in coppia?

V.M.: Alla base c’è sicuramente moltissima fiducia. Lo scorso weekend durante un workshop a Reggio Emilia mi è stato chiesto com’è lavorare in due. L’importante è quello che ognuno dei due porta nel duo e quante idee ci si scambia. È sicuramente molto rassicurante quando nei momenti di sconforto uno è in grado di fare forza all’altro. Quando partiamo siamo ancora due ragazzini che lavorano da adulti scoprendo qualcosa di nuovo.

A.H.: Aggiungerei anche che – spesso ce lo chiedono – noi scriviamo e pianifichiamo tutti i dettagli dei nostri progetti lavorando insieme, affrontiamo insieme tutte le fasi del progetto come duo.

Dopo il vostro incontro e la decisione di partire insieme per il Giappone nel 2013, quali sono stati i vostri successivi progetti insieme?

A.H.: Partendo da The First Day of Good Weather – un progetto che partiva da un dettaglio autobiografico di Vittorio – ci siamo detti che bisognava riequilibrare la coppia. Siamo quindi partiti per l’Armenia dove al confine con l’Iran abbiamo girato Eden. Quest’ultimo, è stato un lavoro esclusivamente espositivo al quale però abbiamo contribuito in egual misura. Successivamente abbiamo girato Monsieur Kubota e in New Mexico siamo arrivati a Most Were Silent.

Passiamo a L’Isola. Com’è nata l’idea di questo progetto?

V.M.: Senza fare i critici di noi stessi, c’è stata una filiazione tra un lavoro e l’altro. Nel 2017 abbiamo finito il film Monsieur Kubota che effettivamente ha come tema principale quello della ricerca dell’immortalità. E nel 2018 abbiamo terminato una trilogia di progetti installativi ed editoriali composta da The First Day of Good Weather, Eden e Most Were Silent. Questo film chiude una trilogia che si è fatta – banalmente – facendola. La scomparsa, la fine dei mondi sono alcuni dei sotto-temi contenuti nei nostri progetti. È nato tutto da un momento che noi chiamiamo università d’estate. Visto che siamo a distanza ogni anno cerchiamo di trovare un appuntamento estivo, con regole annesse, dove ci impegniamo a parlare solo di cose nuove.

A.H.: Il bisogno in occasione della nostra università d’estate è quello di mettere in comune due spazi. Gran parte del lavoro che facciamo in comune è basato sul fatto che in fondo quello che ci spinge è che ci divertiamo a lavorare a ogni progetto insieme, dove la cosa più importante è cercare di inventare e raccontare sempre storie nuove.

V.M.: Il momento dell’università d’estate è quindi un momento importante per dare il via a nuovi progetti con nuove idee e nuovi stimoli.  È forse la parte più infantile – passami il termine – del nostro percorso di lavorazione, dove ancora tutte le storie sono possibili in una dimensione utopica. L’idea che rimase a galla durante una di queste università d’estate è stata quella – forse nata dalla conoscenza comune del fratello di un nostro amico tedesco che faceva il linguista ed era andato in Sud America a registrare le ultime tracce di una lingua in via di estinzione – di cercare una lingua che stava scomparendo. Banalmente, abbiamo consultato la mappatura delle lingue dell’UNESCO, diviso per gradi in base alla pericolosità di estinzione. Dopo aver trovato qualche storia interessante nel Sudamerica siamo naufragati sul dunan, la lingua parlata a Yonaguni. Avevamo già una certa propensione per il Giappone e a differenza degli altri accademici, il referente dell’UNESCO che si occupava di questa lingua – Patrick Heinrich – ci ha risposto un’ora dopo la nostra mail. Un mese dopo questa mail eravamo nel suo ufficio a Cà Foscari e un’ora dopo avevamo già deciso di partire tutti insieme in Primavera.

A.H.: Patrick è quindi diventato un amico e compagno di viaggio. Quello a Yonaguni è stato un lavoro che ci ha posto davanti al dilemma di come raccontare gli ultimi bagliori di questo mondo che scompare e lo abbiamo fatto con questo percorso installativo per mantenere un certo rigore scientifico. C’è l’importanza dell’ archivio cercando però il modo di metterci anche qualcosa di noi. Abbiamo quindi deciso di cartografare completamente l’isola con delle foto per quella che abbiamo descritto tante volte come archeologia del futuro. Yonaguni, verosimilmente, fra una ventina di anni, sarà quella di queste immagini: quei 1500 abitanti non ci saranno più lasciando l’isola ai militari e ai cavalli selvaggi. Quindi i bagliori di questo mondo che scompariva dovevano e debbono essere raccontati con un rigore scientifico. L’aspetto che abbiamo scelto è infatti molto legato all’archivio. Le storie dovevano essere comprensibili e godibili pensando allo spettatore dandogli l’occasione di ritrovarsi catapultato a Yonaguni. C’è stata però una scelta artistica: quella di togliere le immagini e lasciare solo i sottotitoli.

V.M.: Siamo a un centimetro dalla fine di un mondo antico che è esistito su quell’isola per secoli – fino agli anni ’80 c’erano tredici sacerdotesse. Ora ne è rimasta una e non vive più nell’isola. Le ragioni di questa scomparsa sono molte, economiche, sociali e militari – ognuno di questi aspetti porta con sé mille sfaccettature. Anche la vicinanza cinese ha la sua influenza.
La scuola dell’obbligo arriva fino ai 15 anni in Giappone, quindi dopo le medie non c’è
nulla per i giovani dell’isola che sono costretti a spostarsi per studiare e tornano – se tornano – solo anni dopo.
Tutto questo per dire che i nostri piani si sono moltiplicati una volta arrivati sull’isola, a differenza dei progetti precedenti. Abbiamo deciso di fare sia un’installazione, un libro e un film che racconta in maniera completamente diversa l’isola. Sono tutti studiati per avere una propria potenza. Nello specifico, il film porta con sé una certa poesia e misticismo legato all’isola ma racconta l’ultimo anno di terza media di un ragazzino che forse lascerà l’isola per sempre.

A.H.: Quello che è successo, in più, è che io e Vittorio ci siamo innamorati di Yonaguni. Un’altra delle cose che ci accomunano, infatti, è la fuga. E l’isola è il luogo perfetto per la fuga. Attraverso le storie che raccontiamo spero che si riesca a sentire il nostro amore per il luogo. Oggi ci sembra incredibile che Yonaguni, insieme alla sua cultura, debba sparire. Quasi ogni luogo del mondo di questo tipo, visto da vicino, è incomprensibile che debba sparire e viene da dire che la colpa delle sparizioni di luoghi come questo è del genere umano. Ma la colpa è del nostro tempo e nel caso di Yonaguni ricade su ragioni politiche, come diceva anche Vittorio.

Courtesy Hamzehian e Mortarotti.

“Siamo combattuti dall’ansia della sparizione di Yonaguni ma abbiamo cercato di fare un atto più poetico che politico, un ultimo tentativo di abbracciare l’inevitabilità della scomparsa di Yonaguni”

V.M.: Detto questo, la parte di questo progetto più socio-linguistica di questo progetto, quella della lettura del primo dizionario della lingua dunan, è molto importante per noi.
Abbiamo registrato uno degli ultimi madrelingua a Yonaguni che legge in circa 9 ore i 30.000 lemmi contenuti nel primo dizionario della lingua dunan. Questo dizionario porta con sé una storia davvero interessante: infatti, è stato scritto dalla prima donna istruita sull’isola. Oltretutto, un’opera del genere porta con sé anche tutte le particolarità di una scrittura non accademica essendo stata scritta per iniziativa personale.

A.H.: L’ultima prova di come questi siamo gli ultimi bagliori di questa cultura è l’insicurezza di alcuni degli abitanti dell’isola nel pronunciare il dunan, arrivando a temere di venir registrati. Da questo punto di vista è stata un’esperienza terribile. Entusiasmante ma terribile.

V.M.: L’emozione di sentire queste 30.000 parole è stata molto forte considerando che questi sono suoni che non serviranno più, suoni che scompariranno completamente. L’aspetto scientifico della questione, insieme all’aiuto di Heinrich, ha rimesso in moto una passione per questo luogo che ha portato alla lavorazione del primo dizionario in inglese della lingua dunan. L’Università Cà Foscari, infatti, acquisirà i lemmi che abbiamo usato per l’installazione in mostra a Reggio Emilia per lavorare a questo incredibile progetto. In questo modo sarà possibile avere un ulteriore supporto per il cosiddetto archivio del futuro. E perché no – chissà – fra seimila anni ci sarà qualcuno che saprà che Yonaguni è esistita.

Parlare del futuro in un momento di ripartenza come questo riesce a dare nuove prospettive. Avete dei progetti all’orizzonte? Cosa vi aspettate dal futuro?

A.H.: La mia speranza è quella di, fra 10 anni almeno, aver raccontato insieme a Vittorio altrettante storie insieme. Continueremo ogni volta a porci la questione essenziale del perché stiamo facendo una determinata cosa. È più facile porsela in due questa domanda. Qui siamo arrivati a un’altra delle regole alla base del nostro sodalizio artistico.
Il prossimo progetto non è ancora chiaro ma forse il Giappone è una delle piste che vorremmo seguire. Ma ancora niente è sicuro.

V.M.: Non avendo fatto l’Università d’estate è ancora troppo presto per dirlo.

Courtesy Hamzehian e Mortarotti.

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