03 aprile 2020

Gallerie ai tempi del distanziamento sociale: Umberto Di Marino

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La nostra ricerca sul lavoro delle gallerie e sulla loro visione di futuro continua con Umberto Di Marino

gallerie Umberto di Marino
Ana Manso — Tomorrow’s weather, foto di Danilo Donzelli

In questi giorni di emergenza Covid-19 e di chiusure forzate, abbiamo raggiunto alcune tra le gallerie più attive in Italia, per raccogliere il loro punto di vista sulla situazione attuale e sul futuro: dopo Tiziana di Caro e Viasaterna, oggi sentiamo Umberto Di Marino.

La Galleria Umberto Di Marino ha iniziato la sua attività nel 1994 a Giugliano, in Campania, concentrandosi sull’analisi di problematiche legate alla coesistenza e sulla conflittualità del linguaggio artistico, a partire da alcune aree sociali, data anche la coraggiosa collocazione dello spazio espositivo in un contesto complesso come quello della periferia napoletana. Nel 2005 la galleria si è spostata a Napoli, diventando un punto di riferimento grazie al lavoro di ricerca di nuovi talenti e al consolidato rapporto con artisti mid-career.

Come avete riorganizzato il vostro lavoro?
«Nel nostro lavoro è cardinale la possibilità di organizzare mostre, ospitare artisti, produrre e partecipare al loro lavoro, sintetizzarlo e venderlo.
Senza questa possibilità non credo il lavoro possa essere riorganizzato o sviluppato, né su internet, né sui giornali; o vogliamo davvero convincerci che sfogliare un catalogo su instagram o commissionare una mappatura 3D della galleria sia fare il gallerista o l’artista? Ci si può certamente dedicare al lavoro di contorno con profitto, ma senza la pretesa che riorganizzare il magazzino o ordinare l’archivio, o partecipare a discussioni critiche sia effettivamente “lavorare”. Il nostro lavoro ha una struttura pluralistica, quindi per la nostra dimensione locale e per la nostra percezione istituzionale della galleria, risulta quasi impossibile valorizzarlo».

Quali misure metterete in atto per attutire le difficoltà previste per il 2020?
«Non devi chiederlo a me, potrei risultare un calderone di cattive idee.
Dovresti probabilmente chiedere a Mario Draghi, nuovo feticcio, prossimo idolo pop di giovani e vecchi (dis)connessi, ennesima conferma di un pericoloso pensiero unico e orientato, cui l’arte sembra soggiacere, l’uomo che sembra già avere l’assenso di tante fazioni politiche e sociali italiane».

Qual è il più grande ostacolo che sarete costretti a superare nei mesi a venire?
«Se questo momento critico non ci lascerà altro che cantare dai balconi e il fascino antropologico derivato da queste pratiche, mi pare chiaro che l’ostacolo principale sarà la catastrofe economica. Spero di essere smentito e che l’ostacolo sarà ancora convincere collezionisti, comitati di fiere, curatori, istituzioni e pubblico della validità del percorso intrapreso spalla a spalla con gli artisti in questi anni».

Quale credete sia la debolezza più evidente che il sistema dell’arte ha mostrato in queste settimane?
«La nostra ingenuità disarmante, il nostro distacco dalla realtà, insomma, il solito pulpito affollato di “impresari di idee”».

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