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Alla fine della fiera, miart è la fotografia del mercato dell’arte italiano
Mercato
Alla fine della fiera, miart è stata una chiacchiera tra amici – che ormai si conoscono, non stupiscono, ma fidati, c’è sempre qualcosa da dire. Among friends, come l’ultima retrospettiva dedicata a Robert Rauschenberg, che nel 2025 festeggia i cento anni dalla nascita – e la fiera lo omaggia, fa suoi i princìpi del lavoro dell’artista, apertura al mondo, interdisciplinarità, dialogo, impegno alla collaborazione. E quindi: presenti all’appello 179 gallerie (da 31 nazioni e 5 continenti, specificano gli organizzatori), ci sono i grandi nomi di Established all’Allianz MiCo, i progetti curati di Portal, i nuovi talenti di Emergent. Hanno accolto anche rappresentanti museali, curatori, collezionisti ovviamente, una bella schiera di addetti ai lavori, ma l’affluenza «è andata sgonfiandosi radicalmente da venerdì a oggi», dicono all’unisono i galleristi – e qualcuno incolpa il bel tempo, qualcuno la maratona che si svolge lì fuori. E le vendite? Perché di questo si parla se l’oggetto è una fiera – al di là della reticenza delle gallerie italiane a parlare di affari.

«Le vendite sono state poche e in un price range contenuto – con qualche contatto da sviluppare per il post fiera – sintomo questo dell’insicurezza sull’acquisto immediato di un’opera». Lo rivela a exibart Alessandro Castellini di Giò Marconi, che in fiera ha portato, tra gli altri, alcuni lavori di Valerio Adami, come L’uovo rotto del 1964 (prezzo su richiesta), La trappola del 1974 (asking price: € 75.000) e Auto-suggestione del 1963 (asking price: € 80.000), in pendant con la mostra di scena in galleria, in via Tadino 15, fino a metà luglio. «Abbiamo avuto l’impressione che il clima generale della fiera abbia un po’ risentito delle incertezze degli ultimi giorni a livello politico-economico», fa eco la bolognese P420, che nello stand presentava Alessandro Pessoli, June Crespo, Francis Offman, tutti con quotazioni tra € 10.000 ed € 25.000. «Detto questo, noi siamo tutto sommato soddisfatti». Bene anche le ceramiche erotiche di Shafei Xia: «ll primo giorno sono state subito confermate le sue due opere in stand, con un range tra € 15.000 ed € 18.000», proseguono da P420. Perfettamente in linea, in generale, con il trend che dentro e fuori dall’Italia premia il medium della ceramica – senz’altro affordable, o comunque più affordable – e quindi ecco uno dopo l’altro i lavori di Chiara Camoni dalla newyorkese Andrew Kreps, ecco le ceramiche di Enzo Cucchi nel booth condiviso da Galeria Dawid Radziszewski e Galeria Madragoa. E i fiori di Danielle Hoogendoorn dall’olandese Lang, che a poche ore dalla chiusura erano quasi tutti marchiati con un bollino rosso, sold sold sold.

Alla fine della fiera, miart è un’occasione di ritrovo, per tirare le somme, ci sono tutti i protagonisti dell’arte moderna e contemporanea italiana. E c’è un punto che, più di tutti, sta a cuore adesso agli addetti ai lavori: l’aliquota IVA sulle opere d’arte, di fatto ferma al 22%; vale a dire la più elevata a livello continentale, in netto contrasto con il 5,5% della Francia, il 7% della Germania. Lo confermavano a fine marzo le proiezioni di Nomisma: «Se l’Italia decidesse di adeguare l’IVA sulle transazioni artistiche al 5%, armonizzandolo rispetto ai livelli francesi», dice il report, «in un solo triennio il fatturato complessivo generato da gallerie, antiquari e case d’asta crescerebbe sino a raggiungere circa € 1,5 miliardi, con un effetto potenziale sull’economia italiana fino a € 4,2 miliardi». Mentre «nell’ipotesi di IVA al 10%, la crescita del mercato sarebbe inferiore, pari a € 1,3 miliardi, con un effetto moltiplicativo complessivo pari a € 3,5 miliardi». Presto spiegati i manifesti sparpagliati come moniti tra i booth, dal primo all’ultimo giorno di fiera («LETTERA DEGLI ARTISTI AL GOVERNO», scritto così, a caratteri cubitali). E quindi, la domanda: a miart, in questo momento storico, si avverte davvero un respiro internazionale?

Parola ai protagonisti, tra i corridoi domenicali – insolitamente sgombri – di miart. «È una fiera con uno spirito molto italiano», dichiara a exibart la galleria MASSIMODECARLO che, reduce a fine marzo da Art Basel Hong Kong, all’Allianz MiCo ha esposto Giulia Cenci, Jamiu Agboke, Skyler Chen. «Attira nei suoi meandri un pubblico milanese e rispecchia la stabilità del mercato locale. Siamo stati felici di ritrovare i nostri collezionisti, gli amici e i colleghi galleristi». Le vendite? «Siamo soddisfatti». Un altro punto di vista, quello di Antonio Addamiano, fondatore e gallerista di Dep Art Gallery: «Come al solito, miart rimane l’unica fiera internazionale italiana, grazie alla qualità degli espositori sia di arte contemporanea che moderna e la presenza di prestigiosi dealer. Si apprezzano i progetti espositivi e il pubblico svizzero molto presente che ama questa fiera, anche più delle altre fiere sul nostro territorio». Ma non mancano i punti critici: «Quest’edizione», spiega, «è stata particolarmente difficile per noi espositori: ad un costante aumento del costo dello stand da parte di Fiera Milano (si sfiorano i € 30.000) si è aggiunta una settimana disastrosa dal punto di vista finanziario internazionale, che proprio in questa città ha influito maggiormente, essendo la capitale economica d’Italia». Alla resa dei conti: vendute tre opere di Wolfram Ullrich, trattativa in corso per Turi Simeti e Pino Pinelli, mentre «i rari capolavori Imi Knoebel e Giuseppe Uncini ci hanno messi in relazione con clienti di altissimo livello, che spero seguiranno la galleria in futuro». Anche dallo stand di ArtNoble, il responso è dolceamaro: «Trovo che la fiera sia stata un po’ sotto tono rispetto all’anno scorso», rivela a exibart il gallerista Matthew Noble, che nella sezione Emergent espone il lavoro di Aronne Pleuteri. «Ci sono state tante conversazioni interessanti, ma credo che lo stato geopolitico attuale non aiuti con il mercato e con le vendite».

Edizione 2025, among friends. E come un dialogo tra amici, si confrontano gli artisti transgenerazionali sparpagliati da giovedì a domenica tra i booth. Vedi lo stand di Mazzoleni, con sedi a Londra e a Torino, a Milano ha venduto un’opera di Carla Accardi (intorno a € 60.000), poi – salto nel tempo – i lavori di Marinella Senatore (range € 15.000-60.000), tra cui un’acquisizione da parte della Fondazione Fiera Milano, Andrea Francolino (range € 5000 -25.000), che proprio mercoledì terminava la sua residenza a Parigi presso l’IIC, e ancora Rebecca Moccia (range € 5000 -15.000), che inaugurava pochi giorni fa la mostra a Palazzo Borromeo. Discorso analogo per il booth elegante di Galleria Poggiali: «Come al solito Milano rispetta la sua essenza di grande polo accentratore sia di grandi collezionisti sia di tanti curiosi – e questo è normale. Come piazza, oggi ha un range di vendita inferiore ai € 50.000. Qui allo stand, abbiamo riscontrato un grande successo per il duo Goldschmied & Chiari e per Barbara De Vivi, in termini di artisti giovani e mid-career; per gli established, invece, si è distinto particolarmente Eliseo Mattiacci. Il nostro stand era articolato in modo tale da esaltare i vari periodi storici, e quindi le diverse anime delle nostre gallerie, tra Firenze e Milano».

A proposito di confronto tra generazioni: s’intravede qualche sprazzo di arte del primo Novecento, a zig zag tra i booth. Come Galleria Carlo Virgilio & C., con quel disegno di Schiele che veniva già esposto a metà marzo al Tefaf di Maastricht – bello rivederlo in Italia. O ancora l’antiquario Maurizio Nobile, che con exibart torna a parlare della questione fiscale: «L’introduzione dell’aliquota IVA ridotta al 5%», dichiara, «rappresenta per il mercato dell’un’opportunità per allinearsi agli standard europei. È però fondamentale adottare un approccio ben regolato, affinché la riduzione dell’aliquota non provochi distorsioni nel mercato». Nel suo stand, vendute opere di Minguzzi, Colacicchi e Morandi. Ultima parentesi in tema di dialoghi among friends: al booth C26, la galleria C+N Gallery CANEPANERI ha esposto la doppia personale di Arseny Zhilyaev e Roger Hiorns, vale a dire – le definisce così la gallery director Tatiana Martyanova – «due visioni artistiche potenti e profondamente complementari, con una risposta da parte dei collezionisti e dei curatori più affezionati che è stata presente e significativa». E specifica: «Un elemento che riteniamo importante segnalare riguarda la posizione fisica dello stand, che ha penalizzato in parte la visibilità del progetto. Considerando l’intento curatoriale ambizioso e la forza del contenuto proposto, una collocazione più centrale o strategica avrebbe potuto favorire l’acquisizione di nuovi contatti e collezionisti, anche stranieri, che nel nostro spazio hanno latitato».
Qualcuno si allontana con un’opera sottobraccio, poi gli ultimi saluti among friends.
È tutto – non sarà mai tutto – alla fine della fiera.
