03 agosto 2020

Il rapporto tra collezionismo e tasse attraverso alcuni casi giurisprudenziali (I PARTE)

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Il collezionista che vende le proprie opere d'arte deve pagare le tasse? E se sì, quando?

Rabbit, Jeff Koons

Il collezionista che decide di vendere le proprie opere deve pagare le tasse? Sempre o solo in talune ipotesi? La tematica è attuale e suscita interesse. La vendita di opere da parte di collezionisti, infatti, è un fenomeno comune in tutte le epoche storiche; oggi però la prassi è in grande espansione e molti sono i frequentatori del mondo dell’arte che comprano in asta o in galleria e poi, nel giro di un paio d’anni, rivendono le opere acquistate cercando di realizzare degli utili.

Passiamo ad esaminare alcuni casi giurisprudenziali in cui, per motivi di privacy, i nomi degli interessati non verranno riportati.

Il signor B colleziona opere d’arte da decenni. A due ore di auto dalla propria abitazione dispone di due depositi che contengono circa 850 opere, debitamente imballate, classificate e stimate nel loro valore. Nella gestione della collezione è coadiuvato da terzi che curano la movimentazione, la detenzione e la conservazione dei quadri. La locazione dei depositi è attribuita formalmente ad un collaboratore. Un addetto, inoltre, funge da custode e, su indicazioni del collezionista, consente l’accesso al deposito alle persone interessate a visionare ed eventualmente ad acquistare le opere. Tra il 2012 ed il 2017 il collezionista vende una parte delle opere ed in tal modo ricava la somma pari ad € 3.846.960. Nello stesso periodo d’imposta acquista nuove opere spendendo circa € 400.000. Il giro delle vendite e degli acquisti emerge a seguito di una verifica della Guardia di Finanza sui conti di depositi bancari. In data 30.6.2017 viene redatto un processo verbale di constatazione. Gli accertatori verificano che nessuna imposta era stata versata per la compravendita delle opere nonostante l’attività in questione – secondo la tesi dell’amministrazione finanziaria – rivesta il carattere dell’imprenditorialità. Nascono dunque due procedimenti: uno penale avanti il Tribunale per il reato di dichiarazione infedele e l’altro tributario per il mancato assoggettamento a reddito dei ricavi delle vendite. L’allora indagato impugna il provvedimento di sequestro sia avanti il Tribunale che avanti la Corte di Cassazione. Il sequestro viene però confermato in quanto i fatti sono ritenuti tali da integrare, almeno astrattamente, l’ipotesi di reato contestato. Il procedimento penale conosce ora la fase dibattimentale avanti al Tribunale.

Il procedimento tributario, invece, nasce dall’impugnazione proposta avanti la Commissione Tributaria provinciale competente dal signor B contro gli avvisi di accertamento sopra richiamati. Sostiene il ricorrente che egli è un collezionista appassionato d’arte e che le vendite dei quadri erano necessarie a causa delle difficoltà finanziarie in cui si sono imbattute le aziende di famiglia che erano oggetto anche di procedure concorsuali. La sua, quindi, non costituiva un’attività di natura imprenditoriale, speculativa, ma un semplice smobilizzo patrimoniale per ripianare i debiti. La Commissione Tributaria, con la sentenza del 2018, respinge il ricorso affermando invece che le operazioni di vendita del signor B rientrano in un’attività imprenditoriale in quanto hanno le seguenti caratteristiche: non sono occasionali, ma sistematiche e protratte nel tempo; sono effettuate per importi rilevanti e sono altresì accompagnate da acquisti per il valore di circa € 400.000; la gestione delle opere è inoltre organizzata e realizzata attraverso collaboratori che su richiesta mostrano le opere agli interessati.

Il signor B, tuttavia, ricorre contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale avanti alla Commissione Tributaria Regionale, la quale, però, respinge l’appello con la decisione n. 619 del 1.3.2019. Il Giudice dell’appello ritiene adeguata la pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale e che i fatti emersi depongano nel senso di un’attività imprenditoriale organizzata che non rientra nel semplice collezionismo, quanto piuttosto in una concreta e fiorente attività imprenditoriale, abituale e con importi molto rilevanti. A nulla è valsa la produzione nel giudizio di appello di un parere pro veritatereso da un tributarista circa la distinzione tra vendita delle opere d’arte quale attività di mero collezionismo e quale attività speculativa.

Diverse sono le sentenze di merito tributarie che si sono occupate della distinzione tra le vendite di opere effettuate dal semplice collezionista e quelle invece effettuate dal mercante d’arte o da chi in realtà, anche se non formalmente riveste tale figura. Un esempio è la pronuncia di una Commissione Tributaria Regionale del 22.2.2016. In questa vicenda il signor A. nel periodo d’imposta 2007-2008 vende opere d’arte che aveva prima collezionato rispettivamente per € 623.280 ed € 269.876,14. La competente Agenzia delle Entrate ridetermina il reddito imponibile e le maggiori imposte che si ritengono dovute dal collezionista a titolo di IRPEF, IRAP e IVA, oltre ad interessi e sanzioni, avendo considerato il venditore non un collezionista, bensì un imprenditore commerciale, ovvero, un mercante d’arte. Il signor A. impugna il verbale di constatazione affermando di essersi determinato alle vendite delle proprie opere d’arte in quanto aveva la necessità di reperire denaro per fare fronte alla grave crisi in cui si dibattevano le società con le quali esercitava attività d’impresa (più precisamente la sentenza parla di “denaro per fare fronte in tutta fretta alla grave crisi”). Il signor A., nel corso del processo, precisa che il corrispettivo delle vendite è inferiore a quello di mercato, che le stesse vendite non erano state programmate ed organizzate previe particolari iniziative quali mostre od esposizioni, pubblicazioni di cataloghi od altro; che egli non disponeva di una sede per effettuare le vendite, né di mezzi di trasporto. Alla Commissione Tributaria Provinciale le eccezioni formulate dal collezionista non bastano. Il primo giudice tributario, infatti, afferma che la molteplicità delle operazioni a debito ed a credito per somme ingenti integrano un’attività commerciale di opere d’arte. Il Giudice di primo grado inoltre afferma che la vendita a prezzi inferiori a quelli di mercato è irrilevante, in quanto, l’economicità e lo scopo di lucro vanno valutati in astratto, ovvero, sotto il profilo dell’idoneità dell’attività a produrre profitto, a prescindere dal suo effettivo conseguimento.

Propone dunque appello il collezionista e la Commissione Tributaria Regionale gli dà ragione. Sostiene il Giudice tributario di secondo grado che è pacifico che il signor A. è un collezionista d’arte, circostanza questa mai contestata né dall’Agenzia delle Entrate né dalla Commissione Tributaria di primo grado. Né risulta (e né l’ufficio l’ha dimostrato) che il ricorrente prima del 2007 e dopo il 2008 abbia venduto opere d’arte. Risulta dimostrato invece che in effetti è stata venduta solo una parte della collezione allo scopo di far fronte ad una crisi finanziaria delle sue società a seguito dell’intervenuto fallimento di tre suoi importanti clienti. Il collezionista, peraltro, si era personalmente costituito fideiussore per i finanziamenti bancari a suo tempo accordati alle sue società. Nel caso concreto non c’è quindi un’impresa commerciale, manca lo scopo di lucro, l’organizzazione, la continuità e la ripetibilità delle operazioni di vendita. Anche la vendita delle opere sotto la soglia dei valori di mercato vale quale indice dell’assenza dello scopo di lucro.

 

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