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A Milano BUILDING fa il bis con Hidetoshi Nagasawa e Opus liber
Mostre
Giapponese di origine benché nato in Manciuria, nella Repubblica Popolare Cinese, e italiano d’adozione, Hidetoshi Nagasawa è stato radicale, specificatamente scultoreo e sempre innovativo. La retrospettiva che BUILDING gli dedica – Hidetoshi Nagasawa 1969-2018, a cura di Giorgio Verzotti – ha il grande merito di dare il giusto risalto all’attenzione che l’artista ha sempre riservato ai rapporti fra l’opera e l’architettura e alla sua personale visione, quasi utopistica, di una scultura apparentemente priva di peso, al punto da stare sospesa nello spazio e sembrare leggera anche quando raggiunge dimensioni monumentali.
Come questi due lavori – significativi rispetto alla puntuale e continua ricerca, da parte dell’artista di raggiungere un’armonia tra il naturale e l’artificiale, tra l’oggetto e la sua immagine – tutte le opere esposte lungo il percorso affondano le loro radici formali e di pensiero in due differenti culture: quella orientale di provenienza, che l’artista non ha mai dimenticato e che anzi ha sempre conservato come personale patrimonio genetico, e quella occidentale di adozione, assimilata prima in Giappone, avvicinandosi al gruppo Gutai, e successivamente a Milano, più precisamente a Sesto, frequentando Fabro, Nigro, Castellani e Lo Savio, con cui condivideva una particolare sensibilità verso la matrice mentale che incontra la materia per accostamento, per contatto tra sé e l’altro-da-sé, tra simile e dissimile che favorisce uno scambio energetico.
Già al piano terra diverse opere, tra cui Oro di Ofir del 1971 che riproduce in oro lo spazio interno alle mani chiuse dell’artista, introducono al concetto portante della ricerca e della pratica di Nagasawa, ovvero quello del “Ma”. Questo “Ma”, che in Oriente è molto vicino al concetto di vuoto – ben diverso da quello occidentale – non è affatto inerme anzi, è pieno di energia creativa e può essere inteso come una durata temporale, una relazione, una distanza. È Colonna, del 1972, esposta al primo piano a fornirci un’evidenza visiva in tal senso: l’opera, in marmo, è sviluppata a pavimento e costituita da segmenti di colore diverso, provenienti da luoghi diversi, inframmezzati da minimi ma visibili spazi vuoti. «In quel piccolo spazio si chiude la distanza dei loro viaggi e la loro storia» ha lasciato scritto Nigasawa, che voleva toccare lo spazio che non esisteva e che non si vedeva perché credeva che il senso della scultura fosse proprio quello di toccare e creare dove non si vede.
Il progetto espositivo che restituisce la sostanza e l’immagine di quel contatto da cui la scultura ha sempre avuto origine parte da BUILDING e si estende nella Galleria Moshe Tabibnia (fino al 25 maggio) e alla Casa degli Artisti (dall’8 al 14 maggio) per omaggiare la figura di Nagasawa che quando raggiunse Milano con la sua bicicletta – dopo dopo un lungo viaggio dal Giappone verso la Thailandia e poi sempre più verso occidente – mai più se ne andò, perché volle il fato che quella bicicletta gli fosse rubata.
Al terzo piano fino al 18 maggio, Opus liber propone un focus sul libro-opera, o libro d’artista, con la curatela di Angela Madesani. Non cronologico ma sensibile e dialogante è l’ordine con cui sono disposti i libri – tutti pezzi unici – di Vincenzo Agnetti, Yuval Avital, Carlo Benvenuto, Alighiero Boetti, Michele Ciacciofera, Daniela Comani, Marilisa Cosello, Fabrizio Cotognini, Thomas De Falco, Lucio Fontana, Sabrina Mezzaqui, Elena Modorati, Maurizio Nannucci, Luca Pancrazzi, Giulio Paolini, Elisabeth Scherffig, Serena Vestrucci e Giorgio Vigna.
Dal Concetto Spaziale del 1966 che Lucio Fontana ha realizzato su leporello dorato, con cui Maurizio Nannucci dialoga – con un altro leporello dorato (NOMOREEXCUSES, del 2016) – il percorso espositivo si muove verso Fabrizio Cotognini che, anche lui su di un leporello e servendosi del disegno in chiave future-contemporanea, cala nel presente il cuore alchemico della nostra cultura (tra le pagine non passa, per esempio, inosservato, il rimando alla Danza della Morte di Holbein).
Se leporelli sono anche quelli di Yuval Avital, dai toni fiabeschi, e di Michele Ciacciofera, dal sapore naturalistico, completamente tagliato al suo interno è invece il libro di Vincenzo Agnetti “dimenticato a memoria” del 1969, mentre sono organismi testimoni di un particolare rapporto con la natura i libri che Thomas De Falco realizza nutrendosi delle proprie esperienza di vita. Nei due esemplari esposti si possono trovare per esempio foglie, raccolte dalla strada, cadute dagli alberi, che lui cuce con una tessitura – che sovente si fa wrapping – lasciandole però libere di compiere la loro trasformazione. Accanto a uno dei libri di De Falco è di grandi dimensioni Cosmografie di Giorgio Vigna, realizzato attraverso acquatipi, in cui la nascita di forme imprevedibili dà vita a mondi in cui chi guarda è chiamato a partecipare tramite viaggi dell’occhio e dell’anima.
La mostra comprende anche Il Dossier postale di Alighiero Boetti; Compleanno di Marilisa Cosello; Che tu sia per me il coltello di Sabrina Mezzaqui, che ha tagliato le righe del libro di David Grossmann, dal titolo omonimo; Die Antichristin da Friedrich Nietzsche, con cui Daniela Comani prosegue la sua ricerca sul tema dei generi trasformando al femminile l’originale titolo maschile; Sei illustrazioni per gli scritti sull’arte antica di Johann J. Winckelmann, che è uno dei libri più significativi di Giulio Paolini; e Si tu oblitus es che Elena Modorati ha realizzato scavando nella profondità della carta sino a dare vita a delle forme organiche che richiamano alle lacrime in una dimensione di natura mnemonica. Non mancano, a completare l’esposizione, i libri di Elisabeth Scherffig, Serena Vestrucci, Luca Pancrazzi e Carlo Benvenuto, che contribuiscono a rendere Opus liber un’esperienza unica: quella di potersi affacciare al mondo dei libri degli artisti, che spesso non varcano le porte dei loro studi.