17 marzo 2022

Ingresso per un pubblico da 1 a 6 anni: Alessandro Cicoria da Cosmo

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Ingresso riservato ad un pubblico di età compresa tra 1 e 6 anni: tra linguaggio, pensiero e percezione, Alessandro Cicoria ci parla della sua mostra da Cosmo, nuovo crocevia creativo a Roma

Con il coraggio più puro della poesia e nella libertà dell’infanzia dove l’invenzione e la scoperta coincidono, l’intuizione e l’interazione con la natura sono materia innata e gestualità afinalistica, Alessandro Cicoria incentra la visione e la riflessione della mostra su una percezione scevra da sovrastrutture e meccanismi preordinati, ricercando l’autenticità e l’originario attraverso gli occhi del bambino, privando lo sguardo adulto della possibilità di accedere e generando un mistero sospeso sulla soglia, nell’attesa di un racconto possibile e nella consapevolezza di quanto rimarrà ineffabile.

La mostra a cura di Miniera – duo curatoriale composto da Giuseppe Armogida e Marco Folco – negli spazi di Cosmo, nuovo luogo creativo di Trastevere con la direzione artistica di Zaelia Bishop, pone come statement l’interdizione del pubblico adulto, aprendo la visione ai fruitori più piccoli di età compresa tra 1 e 6 anni, perché come scrive Giuseppe Armogida nel testo critico «Solo i bambini sono liberi da ogni pre-datità, da ogni contenuto presupposto, da ogni pre-giudizio, da ogni pre-comprensione. Solo i bambini vedono il mondo nella sua verità». L’artista ci conduce in un piccolo privilegiato disvelamento attraverso un dialogo immateriale.

Il linguaggio, la definizione netta e un pensiero finalistico strutturano e spesso imbrigliano la percezione del sé e dell’altro, della realtà esterna e della propria identità, il mondo dell’infanzia, invece, tra gioco e fantasia, comprende, partecipa e vede la realtà attraverso un pensiero magico e una coscienza immaginativa libera da legami logici. Partendo da uno scollamento con una mediata finalità, la cui assenza libera lo sguardo e l’azione, come è nata questa riflessione tra percezione, atto poetico e natura? Che legame con l’ancestrale e il gioco senti nella tua opera?

«Ci sono due elementi casuali che sono venuti fuori simultaneamente nel processo di elaborazione della mostra: un brano che passava alla radio Man Gave Names to all The Animals di Bob Dylan nella versione evocativa di Michael & Tamara che descrive l’atto di denominazione degli animali da parte dell’uomo nel libro della Genesi; l’altra è un’immagine che avevamo sempre sui banchi dell’asilo, quella dei pastelli Giotto dove sono raffigurati Cimabue e Giotto in un ambiente arcadico. Giotto nell’età dell’adolescenza si distacca dall’esperienza con la Natura e riproduce una pecorella sulla pietra, metafora dell’imitazione e della rappresentazione. L’occhio attento di Cimabue controlla che la riproduzione sia fedele.

Questi due elementi sono gli unici accessibili dal pubblico adulto e non svelano molto della mostra ma aiutano a comprenderne l’interdizione.

L’ancestrale e il gioco credo siano elementi che inevitabilmente appartengano a tutti e fanno parte del quotidiano di ogni essere umano, a volte gli artisti ne amplificano i contenuti cadendo nella retorica della rappresentazione».

 

Come ti sei rapportato allo spazio? Quanto del luogo che ospita la tua mostra è entrato nell’ideazione, quali suggestioni e immagini ti ha restituito?

«Lo spazio è formato da due ambienti. Uno sul piano strada che ricorda la pianta di un’antica casa romana. In questo spazio verrà accolto il pubblico, anche gli adulti avranno accesso a questa stanza. Nel piano inferiore invece c’è un’altra stanza con una volta a cielo di carrozza, tutto in pietra come una grotta, accessibile solo ai bambini».

 

La mostra invita a riflettere su un allontanamento, separazione e perdita progressiva con l’immediatezza cosciente di una verità primigenia, che rimane limpida e non mediata nel bambino entro i sei anni di età. Che livelli percettivi e riflessivi si attivano, o come si modificano per l’osservatore adulto e per i bambini all’interno della tua mostra?

«La mostra ha inizio fuori dallo spazio, il giorno in cui ho chiarito a me stesso l’idea di realizzarla ed ero sorpreso. Il dialogo con Giuseppe Armogida ha stimolato altre riflessioni, così come altre idee credo siano nate e vivano nell’immaginazione di chi ha ricevuto l’invito. Questa mattina mi è arrivato un lungo messaggio di risposta all’invito dal mio amico Gaetano: “…risiede nella trascendenza emozionale che questi fortunati bambini avranno nel proseguo della loro vita. È come buttare una bottiglia con un messaggio nei ricordi reconditi dei futuri adulti, nell’arco della loro vita, e in molte occasioni, potranno incontrarla… respirare l’aria contenuta impregnata di quelle sensazioni, e potranno usufruirne pienamente; e per un istante saranno adulti con occhi di bimbi…”».

 

Nel Pensiero Visivo Rudolf Arnheim sostiene che la facoltà del pensiero si nutra di immagini e che le immagini stesse contengano pensiero, ci puoi svelare che rapporto hanno per te e che ruolo hanno l’immagine e la parola all’interno della tua ricerca e in particolare in questa mostra?

«In questa mostra la parola è parte dell’opera perché determina un’intenzione e allo stesso tempo genera delle immagini date dall’idea stessa di assenza di immagini. Questa visione personale che il pubblico non vedente è costretto a formulare, è un tentativo di ristabilire un contatto tra l’immaginazione, il desiderio e l’istinto creativo.  Il processo linguistico Inizia con lo statement che ho annunciato e si trasforma nel racconto mediato dai bambini che saranno gli unici messaggeri di una mostra senza documentazione per immagini».

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