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C’è qualcosa di radicalmente necessario – oggi forse più che mai – nel mettere in scena l’incontro tra Gianfranco Chiavacci e Fernando Melani, due figure marginali quanto centrali della scena artistica pistoiese (e non solo) del secondo Novecento. La mostra Chiavacci e Melani. Arte tra binarietà e particelle, curata da Bruno Corà e ospitata fino al 28 settembre al Museo del Novecento e del Contemporaneo di Palazzo Fabroni, non propone un semplice confronto tra poetiche individuali: restituisce, invece, il senso profondo di un dialogo trasversale durato decenni, tra due autori che hanno usato l’arte come strumento di indagine cognitiva e politica del reale.
Il punto di contatto non è né stilistico né formale. È metodologico. Da un lato Gianfranco Chiavacci (Cireglio, 1936 – Pistoia, 2011), formatosi inizialmente come pittore astratto, approda a una ricerca assolutamente originale dopo l’incontro con il pensiero computazionale: negli anni Sessanta frequenta i corsi IBM per programmatori, ma invece di servirsi del computer come mezzo, ne assorbe la logica binaria come principio compositivo. Nasce così una produzione in cui pittura, fotografia e codice dialogano in un alfabeto visivo matematico, privo di orpelli ma carico di tensione formale. Chiavacci non usa la macchina per generare immagini: la assume come architettura mentale. La sua opera è un corpus coeso e multidisciplinare che si muove tra rigore e invenzione, teoria e ossessione.
Dall’altro lato, Fernando Melani (San Piero Agliana, 1907 – Pistoia, 1985), figura profondamente indipendente e pionieristica, intreccia inscindibilmente vita quotidiana e gesto artistico, fino a renderli un’unica cosa. Dopo una giovinezza discontinua tra sport, lavori di vario genere e attivismo politico — fu legato al PCI per tutta la vita — decide nel dopoguerra di consacrarsi completamente all’arte. A partire dagli anni Cinquanta, rinuncia a ogni agio domestico e trasforma la propria casa in Corso Gramsci a Pistoia in un ambiente-laboratorio, dove la ricerca plastica e pittorica si intreccia con riflessioni sulla fisica quantistica, sulla materia e sulla temporalità. La sua è un’arte povera ante litteram, costruita con scarti, materiali comuni, appunti, combinazioni minime. Ma è anche un pensiero sistematico sulla sostanza della realtà, su ciò che lega l’infinitamente piccolo all’operare umano.

Chiavacci e Melani si incontrano a metà degli anni Sessanta e cominciano un dialogo che durerà fino alla morte di Melani nel 1985: un sodalizio fatto di discussioni, scambi, sperimentazioni, ma mai di imitazione. L’uno rimane fedele al proprio sistema binario, che porta avanti con coerenza fino ai primi anni Duemila; l’altro radicalizza la propria esistenza in una poetica della sottrazione, arrivando a dissolvere i confini tra opera, studio e vita.
Il percorso espositivo, articolato ma non dispersivo, permette al visitatore di cogliere le relazioni sottili tra due approcci che appaiono prima divergenti e poi, sorprendentemente, complementari. La mostra non cerca risposte, ma pone una domanda fondamentale: può l’arte essere un dispositivo di indagine sulla realtà, al di là dell’immagine? Chiavacci e Melani sembrano rispondere con un’opera lunga una vita, fatta di esperimenti, fallimenti, intuizioni e ostinazione.


Gran parte della mostra ruota attorno ai lavori su carta di Chiavacci, nucleo particolarmente riuscito che offre una panoramica trasversale sulla sua ricerca: dalle chine del 1957 e 1965, alla tempera e inchiostro su carta del 1959–1960, fino ai collage e ai graffiti su carta tra il 1967 e il 1968. Notevole anche la serie di lavori con pennarelli su carta centimetrata del 1972, e quelli realizzati nel 2005 e 2006. Una menzione speciale merita il gruppo di tempere su carta del 1964, in cui l’inserimento di garze spinge la sperimentazione materica del reticolo verso una dimensione tattile e atmosferica. Seppur appartenenti a periodi distinti, queste due serie — le tempere del 1964 e i pennarelli del 2006 — colpiscono per la gamma cromatica volutamente limitata a grigi, neri, bianchi e celesti: una sobrietà che si traduce in delicatezza visiva e tensione poetica.
Colpisce per la sua intensità cromatica e simbolica la sala finale, dove il colore si manifesta con nuova forza nelle opere di entrambi gli artisti. Per Chiavacci, si tratta di acrilici su fondo vinilico o tela, realizzati tra il 2004 e il 2006, in cui la logica binaria si apre a una gamma cromatica più audace e dinamica. Per Melani, spicca una straordinaria composizione di sei pitture a tempera su compensato e tela (FM 2692, 2693, 2694, 2695, 2696, 2717), disposte su una struttura articolata di telai da pittore che, nella sua essenzialità rigorosa, evoca la forma archetipica di una pala d’altare.
Questa sala conclusiva suggella il dialogo tra i due: un confronto silenzioso ma costante nel laboratorio della materia, che dall’atomo o dal bit si apre a una visione condivisa del mondo.


Oggi, in un tempo in cui il confine tra tecnologia e pensiero si è fatto sempre più rarefatto, e l’arte rischia spesso di ridursi a pura estetica della comunicazione, questa mostra ci costringe a riconsiderare il senso profondo del fare artistico. Non come gesto produttivo, ma come processo epistemico. In fondo, tra binarietà e particelle, si nasconde lo stesso desiderio: comprendere l’invisibile.
In questo quadro si impone una riflessione sul futuro di Casa Studio Melani, patrimonio unico della scena artistica pistoiese e naturale complemento della mostra a Palazzo Fabroni. Acquistata dal Comune di Pistoia nel 1987 insieme a migliaia di opere, la casa custodisce l’intero percorso di Melani e rappresenta un luogo denso di sperimentazione e memoria viva dell’arte contemporanea. Oggi, però, la sua fruizione è limitata e poco accessibile, con una gestione che necessita di un progetto organico e stabile per garantirne conservazione, valorizzazione e una più ampia apertura al pubblico. Accanto a Casa Studio Melani, la presenza dell’Archivio Chiavacci in città testimonia l’importanza di valorizzare questi due patrimoni artistici in modo integrato. Solo così Pistoia – e più in generale l’Italia – potrà finalmente riconoscere e apprezzare pienamente il valore di Chiavacci e Melani, due protagonisti il cui contributo alla storia dell’arte resta ancora da scoprire in tutta la sua ricchezza.















