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Esprimi un desiderio! Cometa Galtarossa splende dentro Palazzo Maffei, a Verona
Mostre
Nel buio stellato una cometa transita sopra i nostri occhi. Li chiudiamo, esprimiamo un desiderio. In quell’istante la nostra immaginazione vaga e produce moltissime immagini. Che desiderio potrei chiedere questa volta alla cometa? E si pensa quanto più velocemente alla propria vita, a ciò che c’è, a ciò che manca, a quello che fila liscio, e a quello che, insomma, così così. Ecco espresso il desiderio. Quel piccolo momento di introspezione è un passaggio obbligato verso l’immaginazione, la visualizzazione simultanea di immagini della propria passata e futura vita, un momento d’incanto. Con quello stesso incanto vedo salire i visitatori per lo scalone elicoidale di Palazzo Maffei, nel cuore di Verona, osservano ipnotizzati quella struttura dai mille colori che ruota su sé stessa, come una ballerina che, al decimo giro, continua imperterrita a sollevare il piede sulla punta, pronta per la prossima piroetta, agli occhi increduli dei seduti.
È puro stupore: i colori sgargianti, la moltitudine di oggetti che compongono questa cometa, e il dinamismo che accompagna la solennità dello scalone, incantano chi la guarda. Avete presente quanto i bambini guardano i carillon o i gingilli appesi alla loro culla in un’estasi meditativa? Così la Cometa di Anna Galtarossa, con il sound design di Nicolas Becker, assume un carattere assolutamente ipnotico e misterico.

Avvicinandosi, si percepisce ancor di più l’energia dell’opera: i colori, la forma allungata (ben 13 metri) e vorticosa, la moltitudine di oggetti – da quelli quotidiani e domestici, di folklore, a quelli dal forte valore affettivo come la camicia del nonno dell’artista – convivono con materiali provenienti dalle più lontane parti del mondo, raccontando i viaggi di Galtarossa. E accanto a questi, oggetti più comuni, come una bottiglietta di plastica schiacciata, trovano una loro precisa collocazione. Accogliendo anche materiali di scarto, l’opera invita a riflettere ecologicamente sul valore intrinseco di ogni cosa e sulla necessità di contrastare lo spreco: anche ciò che appare marginale o effimero diventa parte di noi, della nostra storia e della nostra comunità. Insomma, la Cometa è un universo che contiene a sua volta altri infiniti universi.
«Alcuni oggetti, come un festone di un tempio in Bhutan, li ho tenuti in pausa nel mio studio per decenni in attesa che trovassero la giusta collocazione. Altri, come questa bottiglietta di plastica, ho pensato in maniera molto istintiva che potessero favorire altre conversazioni attorno all’opera». Galtarossa si concede l’imprevedibilità, si concede l’ironia, insomma, meravigliosamente si concede l’autenticità. Ma dietro questa imprevedibilità, dietro i gesti ironici – per chi conosce già le sue opere, «ci sono anche le calze, ovviamente, e i bigodini!» – si cela una fede ferrea, seria, nel valore stesso dell’essere umani. L’ironia, si sa, appartiene alle menti più acute, uno strumento intellettuale raffinato, la capacità di leggere la realtà in modo originale e di dominarla, invece di farsene dominare. Questa attitudine si riflette nel modo di creare dell’artista: l’estemporaneità, le ideazioni repentine e ironiche convivono con le lunghe e riflessive meditazioni, trovando entrambe lo stesso spazio e lo stesso valore.

Cometa è un opera che nella sua apparente giocosità custodisce un grande messaggio di fede. In questo presente così difficile, che ci appare duro, degradato, sfibrato, per non dire lacerato, la fede e gli occhi pieni di meraviglia di Galtarossa diventano davvero qualcosa a cui ancorarsi. Scrive Jane Tara nel suo recente romanzo che se la speranza è una mendicante, perché in qualche modo deresponsabilizza dal gesto di cambiare qualcosa, la fede è ciò che bisogna davvero avere. E così l’artista porta avanti una fede nel colore, nel non perdere la gioia, la gentilezza, la genuinità, il valore della convivialità, del riunirsi attorno a qualcosa di vibrante per parlarne insieme.
Galtarossa si aggrappa con cieca fede a tutti gli oggetti del mondo gridando silenziosamente: siamo tutti universali. «Questi amuleti apotropaici sono sorprendentemente identici in Perù come in una remota regione della Russia, e poi li ho eseguiti anche io in studio, in Italia», racconta. Si coglie l’emozione nel constatare quanto culture distanti possano, in fondo, generare tecniche e oggetti molto simili. E in questo riconoscimento risuona un universalismo che trova eco nelle tradizioni artigianali e popolari di molti paesi, come d’altronde scriveva Aby Warburg negli anni ‘30.

A osservare l’opera, il richiamo alla cultura andina appare in effetti evidente. La cometa sembra evocare antichi simboli e, insieme, le feste rituali e popolari: il Carnaval de Puno in Perù, la Festa della Candelaria, le danze della Diablada, con i loro costumi elaborati, una partecipazione collettiva, le piume e i colori sgargianti. Ma più di tutto, l’opera sembra richiamare la Yunza, quando un albero addobbato con nastri e doni diventa, per un periodo dell’anno, il centro del villaggio: intorno a esso si danza, si ride, si rinnova il legame con la terra e con gli altri in una visione panteistica, in cui l’uomo, la natura e il rito si fondono in un’unica energia divina. Così, mi immagino che anche Cometa porti con sé lo stesso desiderio di credere ancora nell’immaginazione, nella gioia semplice, nella bellezza condivisa. E a guardarla, davvero, viene voglia di essere felici.
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