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Il dialogo senza tempo tra cultura etrusca e modernità
Mostre
Esiste una certa risonanza, che rimbalza di opera in opera e di secolo in secolo, che accomuna le sculture e gli oggetti di oltre due millenni orsono con il lavoro di numerosi artisti del Novecento impegnati nel confronto con la cultura e la creatività della civiltà etrusca. Muovendosi tra le eleganti sale della Fondazione Rovati di Milano non sappiamo se essere da un lato colpiti dall’eccezionale modernità delle opere antiche, oppure dall’altro lato dalle formidabili capacità mimetiche degli artisti moderni. Quale che sia il punto di vista, il dialogo che Etruschi del Novecento intesse tra le opere della propria collezione e una interessante selezione di prestiti esprime in modo convincente e narrativo le contaminazioni e le influenze esercitate dal popolo etrusco sui grandi maestri che hanno segnato la nostra contemporaneità, tra i quali Gio Ponti, Arturo Martini, Fausto Melotti e Massimo Campigli.

Tecniche, materiali, e modelli che attraversano i millenni
Il percorso di mostra si apre nelle sale ipogee della Fondazione, che, nel loro allestimento firmato da Mario Cucinella e ispirato alle antiche sepolture a thòlos, si confermano essere la perfetta ambientazione per una rievocazione in chiave attuale dell’antico. Ad accoglierci è il ruggito di una chimera, quella fusa nel bronzo alla fine degli anni Cinquanta da Basaldella, rifacendosi alle figure ibride della mitologia. Il passeggio tra le teche rivela poi l’esistenza di un chiaro filo conduttore che dai corredi funerari conduce fino ai laboratori e alle sperimentazioni degli artisti contemporanei. Materiali prediletti nella maggior parte dei casi sono la ceramica e la terracotta, di cui gli Etruschi erano formidabili produttori e modellatori, nelle forme e negli aspetti più disparati. La selezione di reperti in mostra rivela tutta la delicatezza e la maestria con cui gli artisti modellavano la materia grezza, realizzando non solo oggetti di uso quotidiano o votivo, ma anche ritratti dalla sorprendente espressività e verosimiglianza. Il misterioso sorriso arcaico impresso nelle sculture si fa custode di una sapienza millenaria che molti autori hanno voluto apprendere, immergendosi nei costumi e nell’estetica della popolazione etrusca per riaffiorarne profondamente segnati nel gusto e nella produzione. Di questo processo di confronto e interpretazione ci parlano per esempio i lavori di Dino Basaldella e Arturo Martini, del quale in questa sede ricordiamo non solo i pezzi esposti in Fondazione Rovati, ma anche la sublime Amante morta della Collezione Gian Ferrari, collocata permanentemente nell’atrio di Villa Necchi-Campiglio e nominata come opera a tutti gli effetti facente parte del concept della mostra, ma che per motivi conservativi non è stato possibile movimentare. L’elemento ricorrente di tutte le opere moderne in mostra risulta essere un confronto critico e brillante con la tradizione, assunta in questo contesto non come luogo delle verità apodittiche impossibili da decostruire, bensì come un’inesauribile fonte di soluzioni e suggestioni capaci di stimolare l’inventiva degli artisti di ogni tempo.

Gio Ponti e Fausto Melotti alla prova degli antichi artisti
La diffusione sempre maggiore di oggetti e informazioni sugli Etruschi a partire dai primi decenni del Novecento ha avuto in aggiunta il merito di portare l’attenzione su una serie fino a quel momento inesplorata di opere raffinatissime, sebbene lontane dalla classica statuaria. Di questa diffusione di forme e modelli ci parla per esempio un prezioso esemplare di cista, realizzata da Gio Ponti per la maison Richard-Ginori a metà degli anni Venti. Utilizzata anticamente come contenitore per la dote delle spose, la cista viene reinterpretata da Ponti con decorazioni che evocano il mondo classico, conservando allo stesso tempo il rigore e la severità del periodo. Una simile vicenda coinvolge anche gli askoi, singolare tipologia di vasi dalle bocche zoomorfe e dalla forme stravaganti, che trovano una monumentale e vivace interpretazione in un’opera di Fausto Melotti, dove dal corpo tondeggiante del vaso, modellato in maniera grezza e asimmetrica, si allungano i colli di due galli che al posto della cresta sembrano sfoggiare una grossa corona.

Etruschi, icone e maestri del XX secolo
«L’ombra lunga degli Etruschi», come la definisce nel suo saggio Martina Corgnati, abbraccia numerose generazioni di artisti, non solo quelli di primo Novecento, e travalica anche i confini dell’arte stessa. Di questo tema si occupa una sezione didattica curata con rigore filologico al primo piano nobile della Fondazione, dove nella Sala Warhol, attraverso l’esposizione di saggi, tavole illustrate, grafiche e cataloghi, viene ripercorsa la fortuna e la circolazione dei modelli della civiltà etrusca in tutti gli ambiti della cultura e del sapere. Davvero efficace per cogliere la portata di queste diffuse contaminazioni è il Manifesto per la XIX Biennale di Venezia realizzato nel 1934 da Marcello Nizzoli, che affida la promozione delle arti contemporanee all’Apollo di Veio, per metà fotografato e per metà graficizzato. La purezza, la solennità scultorea, e la ieraticità delle figure etrusche vengono assunte come modelli della politica culturale del Ventennio, che ritrova nell’antica civiltà italica uno strumento di ostentazione dei valori politici di cui la propaganda di regime a quel tempo si nutriva.

La trama di assonanze e rimandi ci accompagna poi nella seconda metà del Novecento, non prima però di aver salutato con entusiasmo due importanti opere di Massimo Campigli, che dimostra di aver assimilato con il suo stile personalissimo, fatto di rigorose geometrie, composizioni austere e linee dure, la monumentalità e allo stesso tempo la leggera iconicità della statuaria etrusca. Avvicinandosi dunque ai nostri tempi, la “febbre etrusca” non si spegne, e così nello Spazio Bianco per la prima volta è esposta integralmente la serie di Paolo Gioli intitolata Etruschi, realizzata nel 1984, accompagnata dalle Copertine di Alighiero Boetti, opera inedita della collezione della Fondazione Luigi Rovati. Gioli ricrea l’identità dei volti raffigurati sulle urne cinerarie attraverso delle polaroid, donando nuova espressività a effigi marmoree prive di colore, con tocchi cromatici che sembrano portare la vita all’interno dell’opera, reinterpretando al contempo il concetto di frammento. L’opera Alighiero Boetti invece ridisegna accuratamente le copertine di importanti testate internazionali, creando una mappa degli eventi storici dell’anno 1985, e scegliendo di aprire la sequenza con il frontespizio del magazine Epoca, dedicato al Progetto Etruschi, dove in prima pagina, simili a modelli delle cronache mondane, troneggiano gli amanti del celeberrimo Sarcofago degli sposi di Villa Giulia.

Visitabile fino al 3 agosto, la mostra Etruschi del Novecento è l’occasione per cogliere il valore sempre attuale del mondo antico, portatore di modelli e messaggi che hanno influenzato profondamente il nostro orizzonte culturale e che sono ancora in grado di parlarci con la chiarezza di un linguaggio universale e senza tempo.
