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Il viaggio onirico di quattro artiste alla Richard Saltoun Gallery di Roma
Mostre
Spesso l’arte contemporanea si muove lungo il crinale sottile tra il visibile e l’invisibile, tra il dato concreto e il sogno, tra il mito e la sua decostruzione. Embryonic Journey, la mostra ospitata fino al 28 marzo alla Richard Saltoun Gallery di Roma, si inserisce proprio in questa dimensione interstiziale, evocando un paesaggio psichico in cui il reale si fa fluido e permeabile. In via Margutta 48, sono presentate le opere di Claudia Di Francesco, Cleo Fariselli, Armida Gandini e Flaminia Veronesi: quattro artiste che, seppur mediante linguaggi distinti, condividono un approccio visionario sospeso tra il simbolico ed il metamorfico.

L’universo pittorico di Claudia Di Francesco (Roma, 1992) si nutre di suggestioni arcaiche e simboliche che danno vita a scenari in cui il confine tra passato e presente si dissolve. I suoi dipinti sono popolati da figure che sembrano appartenere ad un tempo remoto, corpi traslucidi e animali fantastici che fluttuano in ambientazioni al limite del reale.

In Braccia di bronzo, una delle opere in mostra, l’artista ritrae un giardino dell’Eden, sovvertendone la dimensione idilliaca per trasformarla in un elemento oscuro e carico di ambiguità. Le proporzioni distorte, l’uso di colori caldi e freddi, gli elementi animali e vegetali che si fondono tra loro creano una visione quasi onirica, nonché un mondo capovolto in cui l’ordine naturale è messo in discussione. Attraverso un’estetica che richiama la pittura medievale e rinascimentale, Di Francesco mette in atto una narrazione aperta, in cui nulla è definitivo e tutto è in costante mutamento, proprio come accade nei sogni e nei miti.

Invece, nelle opere di Flaminia Veronesi (Milano, 1986), la pittura si fa territorio di esplorazione di un immaginario fiabesco, popolato da creature ibride e visioni che oscillano tra naïf e surreale. Le sue tele sembrano finestre aperte su un mondo parallelo, un universo in cui il reale si smaterializza per lasciare spazio al possibile. In acquarelli come Lucifero e Sirena viola, le figure emergono con una forza simbolica ambivalente: non c’è una netta distinzione tra bene e male, tra terrestre e ultraterreno, tra corporeo e immateriale. L’artista costruisce uno spazio in cui ogni elemento sembra dotato di una propria energia vitale, una vibrazione che mantiene la composizione in uno stato di continua trasformazione.

La pittura di Veronesi non è mai statica ma è attraversata da un dinamismo interno che ricorda l’instabilità dei sogni. I colori intensi e le forme in continua ridefinizione creano una sensazione di spaesamento e meraviglia, invitando lo spettatore a immergersi in un mondo senza tempo, in cui ogni cosa può mutare in qualcos’altro.

Se nelle opere di Di Francesco e Veronesi la pittura è il mezzo per esplorare il mondo dell’inconscio e del simbolico, nel lavoro di Cleo Fariselli (Cesenatico, 1982) il corpo diventa il fulcro di una riflessione sulla materia e sulla sua trasformazione. L’artista usa il proprio corpo come strumento di indagine e come mezzo di connessione lo spazio circostante. Le sue sculture in ceramica raku, calchi di alcuni propri dettagli anatomici – un fianco, una spalla, le orecchie – si trasformano in oggetti misteriosi e poetici, in cui la dialettica tra vuoto e pieno, tra interno ed esterno, tra morbido e ruvido, assume un valore simbolico profondo. Questi frammenti corporei diventano elementi primordiali, simili a conchiglie o fossili, conservando in sé la memoria del contatto con la pelle e il gesto della creazione.

I suoi dipinti dalle cromie cupe, come Paesaggio acquatico con bisce e Corrente e Torrente, sembrano catturare il movimento della materia allo stato liquido, cristallizzandone la fluidità in un preciso istante.

L’indagine sulla trasformazione della materia e del tempo trova una delle sue espressioni più poetiche nel lavoro di Armida Gandini (Brescia, 1968). La sua installazione, composta da otto collage e otto sculture in vetro di Murano, nasce dall’analisi di un dettaglio della pittura fiamminga: il volto della Madonna nel Trittico dei Sette Sacramenti del pittore fiammingo Rogier van der Weyden (1444 circa). L’artista bresciana si concentra su un elemento apparentemente marginale, ma denso di significato: le lacrime della Vergine. Da qui prende forma un processo di stillicidio visivo e materico, in cui il liquido si trasforma lentamente in solido, diventando memoria tangibile del dolore.

Le sculture in vetro, con la loro fragilità e la loro trasparenza, evocano il passaggio tra corporeità ed evanescenza, tra effimero e permanente. Il numero otto, che ricorre nel suo lavoro, è carico di simbologie: l’infinito, il karma e la prosperità. I suoi collages, sovrapponendo frammenti di immagini e di tempo, attivano un processo di stratificazione della memoria come continuo depositarsi di emozioni che, goccia dopo goccia, si trasformano in qualcosa di nuovo.

Embryonic Journey è un attraversamento. Le opere di Di Francesco, Veronesi, Fariselli e Gandini ci accompagnano in un percorso in cui il visibile si dissolve nel simbolico, e dove il confine tra corpo, natura e immaginario si fa sempre più labile. È un viaggio che non ha un punto di arrivo definito, ma che lascia lo spettatore sospeso tra sogno e materia, tra archetipo e metamorfosi.














