27 aprile 2020

In My Room: un viaggio in due stanze, nel tour virtuale di The Flat

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La Galleria The Flat presenta il tour virtuale di In My Room: un viaggio a 360 gradi tra le camere, i ricordi e le ispirazioni di Michael Bevilacqua e Andrea Carpita

La premessa necessaria a questa recensione è che mai avremmo voluto ridurre le nostre visite a un tour virtuale. E non è soltanto una questione di qualità, perché certe gallerie – come quella di cui vi parleremo a breve – hanno riprodotto fedelmente ogni angolo delle sale espositive tramite la tecnologia 3D. Eppure ci manca il contatto, ci manca l’odore della vernice fresca dei vernissage. Ci manca citofonare a quei campanelli con il timore reverenziale delle visite su appuntamento e più di tutto abbiamo nostalgia delle opere, con i dettagli che soltanto lo sguardo, la sensibilità, le ossessioni di ognuno possono afferrare. L’esperienza digitale non sarà mai la stessa cosa. Ma se è vero che l’arte non si ferma, bisogna accettare la sfida e tentare una ripresa, dando una chance a quelle mostre costrette a reinventarsi in un battito di ciglia. Allora proviamo a dimenticare il percorso virtuale deludente che, giorni fa, ci aveva fatto dire “mai più” e ripartiamo con il tour da remoto di “IN MY ROOM”, proposto da The Flat – Massimo Carasi, sperando di ricrederci.

Un’ora e un paio di click, nella ROOM di The Flat

Un link, un paio di click e siamo dentro. [Scendo alla fermata di Porta Venezia, mi mescolo tra la folla dopo una giornata di lavoro, un caffè al volo al bancone del bar e finalmente mi ritaglio un attimo per me. Quando arriva il weekend?]

La bi-personale di Michael Bevilacqua e Andrea Carpita ci accoglie con una schermata a 360°; possiamo selezionare PLAY e lasciarci guidare attraverso le opere, oppure spostarci in autonomia da una parete all’altra, un passo per volta: un po’ come su Google Maps, ma in uno spazio chiuso, tra i muri della galleria. La mostra negli spazi virtuali di The Flat si intitola “IN MY ROOM”, ed è curioso, perché è stata programmata prima di questo isolamento forzato che ci fa sognare di evadere. IN MY ROOM, in piena quarantena, suona attuale più che mai. [Un’oretta in galleria, il tempo di salutare qualcuno e scappo, non vedo l’ora di tornare a casa dopo questa giornata infinita. Magari stasera riesco a concludere quel libro che è sul comodino da mesi, non c’è mai il tempo per leggerlo].

Le vite a partire da Kurt Cobain e Lana Del Rey

I due artisti hanno età e stili differenti, eppure li accomuna un rapporto strettissimo con le proprie stanze, quegli studi che hanno visto nascere e svilupparsi la loro creatività. Andrea Carpita (1988) ci racconta ciò di cui la sua room, nella periferia toscana, è stata testimone: da piccolo voleva fare il fumettista, da adolescente venerava Kurt Cobain, oggi lotta senza sosta tra l’astratto e la figurazione. Le pagine della sua storia emergono dai ritratti, dalle tele che catturano particolari sempre nuovi: un cardigan blu, una maglietta a strisce, le unghie di una mano tinte con lo smalto. Sono questi i dettagli che invadono l’intera superficie delle tele, come fossero tessere di un puzzle, indizi di un corpo più complesso. Ricordano vagamente i quadri di Domenico Gnoli – la poetica delle piccole cose prese a soggetto – ma il contesto ha un sapore del tutto diverso, più intimo, più grunge.

She’ll come back as fire, Queen of lies…La sentite la musica? La camera di Micheal Bevilacqua (1966), direttamente dal Bronx, non vuole sfigurare. L’intento autobiografico emerge anche stavolta da un’ossessione musicale, Lana Del Rey, che nelle digital canvas dell’artista appare sfocata e restituisce la percezione di uno spazio più spirituale. Qui i movimenti sono lenti e sinuosi, il ritmo è quello di Born to Die. Eppure basta spostarsi di qualche passo per imbattersi in tele che sono esplosioni di colori, come Radiance from the Waters e Mr. Patchouli. La sfida sta nel cogliere tutti i riferimenti, tutte le tracce di due vite che si incontrano per la prima volta, e magari scoprire inaspettati punti in comune.

[Alla fine non scappo, nella sala c’è un’insolita poesia che mi trattiene, nasce un bisogno di tornare sulle opere, sui loro significati. Li cerco nel mio vissuto, è quella la magia: trovare un po’ di sé nelle storie degli altri. Vorrei non andar via, ma è l’ora di chiusura].

Le stanze – sembrano ricordarci i due artisti – ci raccontano, sono lo spazio più personale che abbiamo, lo rendiamo davvero nostro con il passare degli anni, accumulando oggetti e sensazioni che vogliamo riscoprire ogni giorno. Al tempo stesso ci proteggono da tutto, oggi più che mai. E così le due realtà possono mescolarsi, dialogare tra loro, studiarsi a vicenda, riassumere in uno sguardo persone distinte e luoghi lontani. Lontani ma vicini, neanche a farlo apposta.

Prova superata.

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