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John Robinson, “The Shed”: dove l’arte ti guarda finché smetti di fingere
Mostre
C’è un momento, impercettibile ma definitivo, in cui ci si rende conto che non si sta più osservando un’opera d’arte, ma si è diventati parte di essa. Non attivamente, non performando, ma con il respiro che cambia ritmo, con quella sensazione leggera di disagio che arriva quando si smette di controllare il proprio corpo. Ecco, The Shed comincia lì.
Un capanno in legno dalla struttura modesta, quasi ordinaria, potrebbe essere in qualsiasi giardino inglese ma è a Venezia, incastonato in una galleria intima, 10 & ZERO UNO, poco distante dai Giardini. Il suo legno vissuto, le piccole aperture, l’aria apparentemente rurale nascondono qualcosa di più insinuoso: un dispositivo di prossimità emotiva, un altare laico dove ci si espone non per fede, ma per attrito. Un teatro minimo dove i visitatori entrano uno alla volta e quando escono non sono più gli stessi.

Al suo interno, le superfici della galleria sono abitate da volti, corpi, gesti. Si tratta di una pittura figurativa densa, febbrile, in toni bruciati, che non racconta — come ci si aspetterebbe — storie, ma arresti: il momento esatto in cui un’emozione ha preso il sopravvento. John Robinson non idealizza né abbellisce, ma cattura scattando con il pennello. Queste tele che popolano l’ambiente sono il risultato di una serie di performance che l’artista conduce nel capanno stesso. Egli accoglie lo spettatore, lo invita a un gesto semplice, come una lettura dei tarocchi con carte illustrate da lui stesso, e poi lo lascia abbandonarsi all’esperienza. Asseconda il flusso che si genera senza controllarlo, limitandosi a osservarlo e ritrarlo nei suoi dipinti.
In quello spazio fragile e sospeso qualcosa si incrina e una pittura che non registra, ma scava, prende corpo. Si tratta di una pittura dall’aura quasi sacrale, ma di un sacro che non salva, anzi incarna al contempo la necessità di esorcismo e la natura di reliquia. Non riguarda il soggetto o la scena, ma il momento critico in cui la persona smette di proteggersi. L’artista si muove in quella fessura tra ciò che si vuole mostrare e ciò che emerge, rivelando ciò che c’è ma non si dice. Questo perché Robinson non cerca la bellezza: cerca la verità in quel punto esatto in cui l’equilibrio emotivo cede. È un gesto feroce, ma anche stranamente compassionevole, come chi sa che solo attraverso l’esposizione della propria vulnerabilità si guarisce.

Il visitatore che entra in The Shed è coinvolto in un rito catarticodove il legno delle pareti ovatta i suoni, trattiene gli odori; lo spazio è angusto, mentre lo sguardo dell’artista è vicino e costante, impossibile da eludere. Ogni gesto, anche il più sottile,diventa linguaggio. Così il tempo si deforma, quello che accade è difficile da spiegare, ma si sente e permea in profondità. È una resa, ma non alla volontà dell’artista, quanto alla verità del momento.
Come osserva Michael Short nel testo teorico della mostra, “l’arte è un allenamento a non sapere come reagire”. In un’epoca che pretende risposte immediate e ruoli definiti, The Shed obbliga a perdere la maschera, spesso senza nemmeno il tempo di scegliere quale indossare. È un “fallimento orchestrato”, un “cringe” che non denota disprezzo, ma una complicità delicata. Robinson lo sa bene: la vera empatia non nasce dal riconoscersi, ma dal tremare insieme.

Il dipinto allora è la traccia, una ferita visiva. Non documento, ma esito di ciò che è accaduto, ciò che resta durante o dopo l’incontro. Ogni opera custodisce il segno di un passaggio, una verità strappata al silenzio, una tensione accettata. Guardare queste opere è come entrare nella stanza dopo che qualcosa di decisivo è accaduto, tentando di ricostruirlo solo a partire dall’energia che ancora aleggia.
John Robinson non crede in nulla, ma agisce come un mistico laico. L’artista lo dice chiaramente: nessuna fede, nessuna ideologia, nessun culto. Solo l’urgenza di trasformare la vita, anche quella più rotta, in pittura; di documentare il presente più fragile; di vivere l’imbarazzo come atto politico; sopportare la prossimità. La sua arte è un rischio scelto, un aeroplano che costruisce per poi vederlo cadere. Ma non si tratta di provocazione, qui non c’è cinismo, solo coraggio. Il coraggio di non sapere come finirà, di non dominare la scena, ma di offrire, invece, uno spazio intimo in cui l’altro possa accadere.

Nel cuore di Venezia, la laguna si pone come un’opposizione naturale al capanno, eppure ne rappresenta anche un’estensione invisibile. La Biennale si espande fuori come un catalogo globale, mentre dentro la Shed si annida l’essenziale: il corpo, il volto, il momento, un controtempo assoluto. Eppure questo spaesamento è funzionale, poiché rende ancora più potente il gesto: togliere tutto, ridurre, concentrare fino a sentire. In un tempo di esposizione compulsiva, The Shed sottrae, spoglia; non propone estetica ma esperienza. E ci ricorda che l’unico modo per non sparire è esporsiautenticamente.
