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«L’altro, anche quando non è un nemico, è considerato soltanto qualcuno da vedere, e non qualcuno che (come noi) vede» scriveva Susan Sontag nel suo celebre Davanti al dolore degli altri (2003). Nel suo libro, ormai popolarissimo, la Sontag si interrogava precocemente sulle potenzialità e sui limiti della traslazione visiva del dolore altrui: sulle immagini di sofferenza che, oggi più che mai, saturano i nostri feed digitali e compongono il nostro paesaggio mediatico quotidiano. La sua riflessione rimane essenziale: come rappresentare senza oggettificare? Come legare lo sguardo all’azione, senza ridurlo a consumo passivo?
Sono, queste, domande che non trovano ancora risposte definitive, ma a cui tenta di avvicinarsi la Casa di The Human Safety Net, fondazione che dalla sua apertura lavora a Venezia con famiglie vulnerabili e migranti per costruire un futuro più inclusivo e stabile. L’arte, in questo percorso, diventa non tanto ornamento, quanto strumento di sensibilizzazione e, soprattutto, di comunità: una forma di mediazione capace di dare visibilità a storie altrimenti sommerse.

Il più recente di questi progetti è proprio la grande installazione che adorna il solenne edificio delle procuratie di Piazza San Marco, a Venezia, dove la fondazione ha trovato la sua sede. Dreams in transit —questo il titolo— ricalca il progetto Inside Out sviluppato da JR e presenta, attraverso una serie di cento fotografie, uno spaccato delle persone che The Human Safety Net punta ad aiutare e accogliere.
Gli scatti, realizzati da Sarah Makharine, sono più di semplici ritratti: sono storie e sogni di chi si è ritrovato a dover scegliere la strada della migrazione e che, con sé, a portato i propri sogni e le proprie speranze. Interessante è però come tutti i partecipanti siano stati ritratti di spalle. La scelta sottolinea la condizione di invisibilità che accompagna chi migra, ma allo stesso tempo obbliga lo spettatore a riconoscere che quegli individui guardano nella stessa nostra direzione, rivendicando un orizzonte comune. In questo gesto, tornano vive le parole della Sontag e la piazza più fotografata d’Europa diventa spazio per riconoscere che l’altro non è solo “visibile”, ma è anche colui che vede.
Questo progetto dall’impressionante scala entra poi in comunicazione con la collettiva presentata all’interno degli spazi delle Procuratie. Inaugurata lo scorso maggio e visitabile fino a marzo 2026, l’esposizione riunisce le opere di cinque artiste — Leila Alaoui, Ange Leccia, Anouk Maugein, Lorraine de Sagazan, Sarah Makharine— per riflettere su quel periodo d’instabilità che segue l’immigrazione.

Se i globi luminosi e plastici di Ange Leccia ci parlano di un mondo unito e connesso, la Torre di Babele costruita da Lorraine de Sagazan e Anouk Maugein costituisce un prezioso racconto del dopo-esilio. Si tratta di una montagna di lenzuola bianche —circa 700 kg— che gli artisti hanno recuperato da diverse lavanderie: un riferimento al mondo dell’accoglienza e della ristorazione, dove dei lavoratori provengono proprio da un passato migratorio. Il candore del tessuto rimanda a un immaginario di sogni e possibilità, ma porta con sé anche la memoria di sfruttamenti quotidiani e le lenzuola diventano così metafora ambivalente.
Di fronte a questa installazione, Natreen —serie di fotografie di Leila Alaoui— documenta i rifugiati siriani in Libano, in fuga da guerra e instabilità. Attraverso i suoi ritratti, Leila cattura l’attesa e la speranza di chi cerca un futuro migliore.
Sarah Makharine, infine, va a creare una cartografia sonora fatta di sogni e storie sotterranee. Il suo Échos raccoglie storie di deriva e ricostruzione che comunicano e si intrecciano con i ritratti che popolano la facciata dell’edificio: come la mostra nella sua interezza, è un tentativo di restituire voce —e dignità—all’immagine di chi attraversa i confini.















