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La pittura è ciò che rimane delle cose che sfuggono: Giulio Catelli in mostra a Roma
Mostre
Un’attitudine contemplativa, capace di assecondare una ricerca anarchica, intesa come espressione di imprevedibilità e spontaneità, è ciò che caratterizza la ricerca di Giulio Catelli (Roma, 1982). In essa, limpidezza e sincerità lasciano emergere l’urgenza di un sentimento immediato verso le cose più semplici, permettendoci di sfiorare una rara poesia visiva. Con uno sguardo trasversale, l’artista dà forma a un corpo pulsante della pittura, nella disordinata dissoluzione del colore, nella pennellata frammentata e in un metodo compositivo profondamente informale.
La monografica, intitolata Nell’uscire, in programma alla Galleria Richter di Roma fino al 16 gennaio 2026, diversamente dai precedenti progetti a lui dedicati, evidenzia un artista serenamente disposto ad aprirsi, con una reale consapevolezza su dove lo abbia condotto la pittura oggi. Sebbene i temi si ripetano – vedute dalla finestra del suo studio, ritratti, interni, scorci al parco -, la ricchezza è tanto nella diversità quanto nella possibilità di riviverli emotivamente, facendone emergere un fascino intriso di esistenzialismo. In questo modo gli interni della sua abitazione diventano luoghi di ricerca, spazi in cui candele, lanterne, tessuti, ombrelli, oltre a scoprire la dinamica della giusta composizione visiva, mostrano un senso nostalgico nei diversi gradi di vibrazione luminosa che emanano.

L’attenzione di Catelli asseconda con agilità un occhio che si posa sugli interni quotidiani, a cui si uniscono quella per i dispositivi visivi che la mediano. Tra questi, la finestra, segno di una proiezione verso un esterno reale e immaginario, in cui paradossalmente la separazione tra dentro e fuori segna la distanza per invitare alla reciproca congiunzione tra gli ambienti. Da diversi anni, la finestra è un soggetto caro alla sua ricerca, fungendo da mediatore visivo, rimanendo quasi sempre aperta o appena socchiusa, il sottile spessore del vetro, anziché dividere, riflette o, altrimenti, amplifica la profondità del mondo su cui si affaccia.
Il progetto espositivo, accompagnato da un testo critico di Enrico Camprini, indaga con una rara chiarezza d’indagine cosa sia la pratica della pittura en plein air. Per Catelli, uscire non significa semplicemente osservare ciò che lo circonda, rispondendo invece a un’esigenza ben più ampia, sia di presenza che di racconto. Quello che può sembrare un’autentica attenzione si trasforma spesso in un attimo di pura distrazione. Così, l’artista, mentre attraversa spazi urbani oppure osserva il mondo dalla finestra: è proprio quell’attimo in cui qualcosa cattura la sua attenzione a dare vita al motivo della sua opera.

Tuttavia, l’essenza della mostra ruota attorno a una questione ben più profonda, interrogandosi in che modo un dispositivo possa condizionare lo sguardo, e quindi il giudizio interiore che metta in relazione l’io con ciò che lo circonda. Per l’artista, le aperture e le finestre in particolare mostrano soprattutto una condizione: non conta tanto la forma della stanza in cui si trova, quanto ciò che quello squarcio luminoso, idealmente, gli permette di schiudere. Il taglio visivo degli aceri gialli che osserva dalla sua abitazione, le gerbere su un vassoio d’argento e gli stipiti consumati sono elementi costruttivi di un racconto solo accennato. Eppure, per l’artista un quadro ben composto, con le sue disposizioni, gli equilibri, le linee direzionali, le lievi anamorfosi e i punti focali è risolto solo per metà, il resto è completato dai toni tenui e dai morbidi contrasti cromatici dei profondi blu, dell’ocra, dell’arancio e dei gialli.
Per Catelli, l’opera rappresenta un’equilibrata oscillazione tra intimismo e narrazione, in cui il soggetto si fonde con lo sfondo e il colore distribuito in modo irregolare è tale da creare stesure acerbe e improvvise. Questa tensione nervosa, presente nelle pennellate, al tempo stesso rimuove ed enfatizza la profondità delle forme, conferendo all’insieme un ritmo visivo dinamico e coinvolgente.

Eppure questa esasperazione grafica richiede perizia, leggerezza, senso della sintesi e una forte capacità descrittiva. Allora man mano che lo sguardo dell’artista si spalanca in un meravigliato incontro con il suo soggetto, l’indeterminazione del tratto, fatto di traiettorie che slittano, consonanze filiformi e sottili dissonanze, raccontano una maggiore attenzione verso l’impressione. Così più la veduta del pittore si aprirà, maggiormente la nostra vista si libererà dai vincoli, affiancando su un unico piano, come se fosse un esercizio meditativo, ciò che si vede e ciò che arretra, per entrare in contatto con la sostanza dell’oggetto e le interferenze dell’ambiente circostante.

Quindi, riprendendo quanto chiestoci inizialmente, la domanda diventa più nitida: che cosa ha da insegnare la pittura, se non la straordinaria capacità di rendere visibile ciò che rischierebbe di rimanere inosservato. Questo immenso non sapere, che coincide con la meraviglia provata di fronte alle cose più semplici, implica per Catelli una scelta irreversibile, una volta abbracciata questa curiosità, non può più tornare indietro. In questo modo, ogni dipinto è l’unione di innumerevoli piccole parti di una grande verità visiva, la pittura si trasforma in una ricerca che ignora il risaputo, concentrandosi sull’impressione e sulla sua composizione.

Proprio per questo motivo, anche l’autoritratto dell’artista appare come una delle presenze più vere: un pittore che ritrae se stesso senza cercare effetti autobiografici, se non quella finestra che ha tanto segnato la sua ricerca, considerabile a tutti gli effetti come un disvelamento della più intima interiorità.












