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Memoria e necessità sono le parole chiave dei Padiglioni nazionali nella 24esima Triennale Milano
Mostre
di Luca Maffeo
Nel testo introduttivo alla 24ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano dal titolo Inequalities, il Presidente dell’istituzione Stefano Boeri scrive così: «Nasciamo diseguali. Tutti noi. Tra di noi». Una chiave di lettura che dovrebbe rendere consapevoli riguardo al bisogno reale, e meno idealistico, di osservarci l’un l’altro tenendo presente le diversità più che le uguaglianze. La situazione è calda ed è giusto che si arrivi a un momento in cui tracciare una via, certo non definitiva o del tutto risolutiva, eppure sicuramente necessaria. Una volta vinto il labirinto degli spazi che obbliga lo spettatore a zigzagare per il palazzo della Triennale, giunge un poco di chiarezza, la lucidità di un percorso entro il quale l’esperienza di terre e popoli hanno, per fortuna, un ruolo di rilievo. Insomma, ogni elemento di questa 24ª Esposizione punta sulla necessità. Su quel fattore dell’esistenza umana che tende a sé e all’altro, in quanto è dall’altro che vuole (davvero?) imparare. E quindi, perché decentralizzare l’essere umano se non con lo scopo di una cura maggiore tra questo e tutto il resto? Come guardare all’altro e al mundus in cui, volenti o nolenti, ci si trova “gettati”? Il dibattito si ripropone.

Il regista Felix Lenz (padiglione Austriaco) indaga con un film della durata di trenta minuti le infrastrutture che stanno alla base delle tecnologie digitali e le loro implicazioni materiali (Brute Force [Exhibition Cut]). Curioso è sapere, poi, come negli ultimi decenni artisti, architetti e designer abbiano costruito e inventato strutture e poetiche in cui piante, insetti, animali, batteri e funghi sono i protagonisti. Sperimentazioni che ritornano nell’attività di Martin Margiela, Lina Bo Bardi e Gordon Matta-Clark, giusto per fare alcuni nomi. E si veda la sezione Scrapbook al fondo dello scalone d’onore, in cui sulla parete sono raccolte alcune di tali esemplificazioni. Disegni, progetti e opere che, sebbene si collochino tra il pionieristico e l’utopico, aprono la storia dell’arte e della funzionalità estetica al rapporto tra biotico e antibiotico. Assumendo, dunque, in prima persona la possibilità, più che l’idea, del vantaggio che si potrebbe raggiungere nel rapporto totale con il vivente. Anche il più minuscolo, anche, all’apparenza, il più molesto. Da notare, a tal proposito, la sezione Living Networks del padiglione Cinese. Un’attenzione puntuale chiamata Future Environments, (questo il nome del progetto, vincitore del programma Italian Council 13) che porta la pratica estetica di Andreco (Andrea Conte) a considerare le implicazioni ecologiche fino alla realizzazione, durante la residenza dell’artista presso l’Ecology and Cultures Innovation Lab della Tongji University di Shanghai, due geografie fluviali del fiume Yangtze, una verosimile e una creata servendosi degli open data del China National Environmental Monitoring Centre (CNEMC).

Detto ciò, è nella condizione più urgente che si riscontrano i solchi più autentici di un modo di “trattare” canoni ed estetiche. Nuove formule per nuove tendenze. Alexandra Wasilkowska per il padiglione polacco ha realizzato il suo Transsanatorium, cercando, a suo modo, una soluzione ibrida e riconsiderando la priorità del riposo alla luce del suo privilegio (Una breve vacanza). Eppure, la retorica del povero rischia di rimanere retorica se non ci si accorge della sua ricchezza. Ovvero, di ciò che si può apprendere dalla sua memoria e dalla storia narrata di una cultura che da esperienza particolare diventa esperienza universale.
Tra le diciannove partecipazioni internazionali sorprendono, a tal proposito, le composizioni stile patchwork di quadri e ritrattistica realizzate con stoffe e gingilli del padiglione Rom-Sinti (Motherland Otherland). Oppure le tessiture tradizionali (Panu de Pinti) di tessitori sconosciuti della Guinea-Bissau (Tici Humanidadi – Tessere l’umanità). “Tessere”, sta scritto, “significa allineare, prolungare, trasmettere”. In qualche modo, regalare o portare in dono al mondo ciò che si è, persino nella condizione non nascosta di dove si è. Il Libano presenta a sua volta un ambizioso progetto che narra la vicenda di una casa degli anni ‘20 sul lungomare beirutino (E dal mio cuore soffio baci al mare e alle case). Ripercorre la facciata mediante l’impressione cianotipica in scala reale su tessuti leggeri, e in un video con la voce fuori campo di un anziano inquilino che mostra oggi il trascorso del luogo. Tutt’altro che futuro. Non ha torto chi sostiene che il futuro non sia niente se non il presente. Il punto incerto della vicenda. Qui dove i nodi vengono al pettine e nulla pare volersi districare. Delle “calamità” incombenti discutere fa bene. Ma la discussione poco genera se non si presenta al cospetto del vero. Non turba così, e malgrado la diatriba internazionale, il padiglione Ucraino. Anzi, da esso si coglie la sintesi. Il valore di un progressivo deterioramento della materia che, nel truce, offre momenti vitali necessari. Nelle colonne di mattone distrutto e rovinato, Denys Shymanskyi scolpisce scene di genere, da un musico a un corpo appeso; un uomo seduto o figure simboliche (Pillar of Life). Nell’opera ancora una volta “incarnata”, poiché disciolta qui vi si legge la foga brutale, seppur armonica, della propria memoria.

