-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- Servizi
- Sezioni
- container colonna1
Per Beatrice Meoni, nelle cose piccole si cela una grande opera
Mostre
di Luca Maffeo
Nelle cose più piccole si manifesta una grande storia. Potremmo sintetizzare così Fuoriscena, la mostra di Beatrice Meoni (Firenze, 1960), a cura di Marina Dacci, esposta fino all’8 novembre 2025 alla Galleria Sara Zanin di Roma. Un assunto, quello iniziale, che l’artista non esiterebbe a confermare. E basterebbe passare un pomeriggio con lei per accorgersene o, semplicemente, visitare la personale.
«Il mio lavoro – direbbe senza troppi fronzoli – si gioca tutto nella distanza che c’è tra la cucina e lo studio». Nei pochi metri che separano il piano superiore della casa e la uniscono tramite un piccolo ballatoio al luogo dell’opera. Ed è così che ogni elemento del suo fare diventa nel quadro l’immagine di una scena vista da fuori. Il mondo piccolo della pittrice, il suo mondo tutt’altro che estraneo all’esterno. Giacché vive, come detto, di un costante andirivieni che punta gli occhi sull’intorno e il suo quotidiano. Lo spazio, la scrivania, le pareti e le attese dei quadri velati per essere protetti dalla polvere. Oggettini e libri che ricordano il fulcro della sua pratica. Il trovato di ogni giorno nel mentre del lavoro che si fa atto cosciente, presa estetica e ricerca della forma.

Ebbene, nel corpus di opere allestite si vede ciò che l’artista vive. Il suo “stare al mondo” nella dimensione ritirata dello studio, inteso non solo come luogo, ma come incipit di un’esperienza che è dinamica attiva, del tempo e nel tempo. D’altronde, a cosa serve cercare e trovare se non per continuare a trovare?
Si tratta di un «Continuo esperire in questo stare», ha scritto la curatrice. Nell’insieme delle cose che divengono una nel quadro. 20 opere, tutte olio su tavola, talvolta segnate, altre veloci, altre ancora più meditate o, per inverso, fresate e dipinte per negazione. Fatto sta che sui supporti più grandi (Fuoriscena, 2025) ciò che vince è la visione olistica, con gli oggetti quasi intersecanti tra loro ma ben equilibrati da una prospettiva inversa, ribaltata dal fondo e verso la superficie, perché emergano poco alla volta o tutti assieme. Quasi non vi è differenza.

Il dentro e il fuori, il passeggio, il corpo sintetizzato nelle sagome di minuscoli piedini che si possono incontrare qui e là. Ogni elemento è sedimentato nel magma della pittura che sembra generarsi da sé (Passacaglia degli oggetti, 2024). Quasi che in punti precisi dell’opera l’artista abbia ricorso alla stesura rapida della memoria, mai mimetica, eppure così precisa da rendere nella sua essenza il gesto trovato come tautologia del soggetto dipinto. Nel quotidiano, insomma, Beatrice Meoni reperisce la pittura.
Ciononostante nulla porta a considerare una tale pratica come una sorta di evasione personale dal mondo, né tantomeno come la visione distaccata dalla sua impervia traiettoria. Quel che è dipinto è la ricerca di una via propria, per essere nel mondo non malgrado, ma attraverso le sue difficoltà e la difficoltà che contraddistingue ogni traiettoria umana. Quel che accade nel quadro è dunque il riverbero di quel che accade fuori di esso. Beatrice Meoni non ne è esente.

I teli bianchi con cui copre le opere inattive nello studio acquistano di conseguenza la loro dimensione, che passa dall’essere particolare di una necessità di lavoro, all’essere universale tragico del presente (Le mie bandiere, 2025). Non vi è didascalia, né la forza provocatoria di un concetto altisonante, se non il prendere sul serio ciò che è minimo, poiché in esso, e nell’esperienza che si fa di esso, già si incontra qualcosa che destabilizza.
Nella serie Sull’albero (2025) il formato diventa piccolo e piccole sono le figure sui rami. Rappresentate in una posizione affatto confortevole, tanto da essere ricercata dalla pittrice che su una casetta in cima a un albero ha deciso di realizzare alcuni lavori. Uno spazio esterno, eppure contratto, ora adibito a studio, in cui il suo “farsi piccola” si rivela essere condizione.

Un modo per vedere sé e l’altro, ora tradotto secondo una forma di montaggio cinematografico mediante il quale applicare sul quadro un’ulteriore porzione di supporto. Espediente per un evento inatteso, minimo, quasi da non considerare e dipinto nella maniera più veloce, che infastidisce e rompe il comfort. Scomodo, come il volo di un moscone che ronza intorno (Ausflug Volo fuori, 2025). Eppure, direbbe l’artista, «È in una posizione scomoda che io trovo il mio segno».














