-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- Servizi
- Sezioni
- container colonna1
Shine Bright Like a Diamond, Jonathan Monk per Ar/Ge Kunst
Mostre
Ma è Chris Burden quello steso a terra, avvolto in un sacco, con gli occhi chiusi? Sì, non in persona ma in scultura iperrealistica, è proprio lui, l’occhio non mente: lo vede, (forse) lo riconosce, immediatamente, ancora prima di varcare la soglia di Ar/Ge Kunst e di Shine Bright Like a Diamond, la mostra che vede protagonista Jonathan Monk curata da Zasha Colah e Francesca Verga.
In gioco c’è l’esplorazione di diversi approcci e riflessioni intorno ai temi dell’appropriazione e del valore, tanto artistico quanto economico, che prende la forma di un omaggio a Burden attraverso un trionfo un trionfo di giochi di riappropriazione dallo spirito, anche, ironico, già dal titolo: quanti di voi l’hanno letto, canticchiando la famosa canzone di Rihanna? Ma torniamo a Burden, perché Monk, intrecciando omaggio, appunto, parodia e ri-appropriazione, si mette in dialogo con l’opera dell’artista californiano e con le dinamiche della cultura visiva contemporanea. Diamonds are forever è una (imperdibile) prova.

Facciamo un passo indietro, correva l’anno 1981 e Burden, alla Ikon Gallery di Birmingham, mostra un diamante, dichiarandolo vero. Era, in realtà, uno zircone identico, privo di alcun valore: quello vero, comprato nel distretto dei diamanti di Londra, lo teneva nella tasca dei suoi jeans (esposti, anche questi, immediatamente dopo nel percorso). A Bolzano il diamante che occupa l’intera sala è dichiarato falso: ma è vero o falso? Che si conosca la storia, o che lo si veda per la prima volta, solitario su una scrivania, illuminato da una luce che ne acuisce la sensazione di profondità, il dubbio è venuto e la risposta non è altro che destinata a entrare nel mito dell’azione che in questa occasione, come in tutte quelle che verranno, continuerà a significare come la prima, diversamente dalla prima, in relazione al margine verso cui sarà condotta. Poco distante, i jeans, e appena di fronte Diamond Eyes (2025), una fotografia giovanile dell’artista, scattata durante il suo tentativo di entrare alla scuola d’arte, in cui gli occhi sono sostituiti da orecchini di cristallo di zirconia.

Shine Bright Like a Diamond prosegue nella seconda sala sulle pareti in cui Monk recupera una serie di fotografie fotografa ogni anno alle star idi fronte all’installazione permanente di Burden al Lacma, Urban Light. Ed è proprio da una di queste immagini che la riflessione della mostra prende avvio: la protagonista è Kim Kardashian, ma l’artista non è menzionato: Burden aveva comprato il primo lampione mercatino delle pulci del Rose Bowl e ben presto ne collezionò e ne restaurò, come in preda a un’ossessione, tantissimi, dipingendoli tutti dello stesso colore grigio neutro, in modo da attirare l’attenzione su tutte le diverse varietà di decorazioni in ghisa. Quelli in questione sono ben 202, una volta illuminavano le strade di Los Angeles, oggi sono un punto di riferimento immediato. Ma che destino ha un’opera d’arte nel contesto attuale? Cosa resta dell’opera se viene continuamente trasformata in pura superficie riflettente, icona silenziosa di una società dominata dall’immagine e dalla performance identitaria?















