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Shirin Neshat: la storia dell’artista, attivista e dissidente politica raccontata al PAC di Milano
Mostre
Visi inquieti, occhi sapienti, corpi celati, sentimenti intensi. Le Women of Allah ci osservano dall’alto quando entriamo al PAC a Milano, in parte nascoste da una pesante tenda nera al piano terra. Sono qui per la mostra Shirin Neshat: Body of evidence, curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, aperta fino all’8 giugno e coprodotta dal PAC Milano e da Silvana Editoriale. I loro sguardi diretti e segreti ci colpiscono ancora dopo molti anni. Sono infatti tra i primi lavori – e tra i più noti – dell’artista iraniana: realizzati dal 1993 al 1997 dopo la sua prima visita in Iran nel 1990 dove non era più tornata dal 1974, quando era andata a New York a studiare arte. Nascoste in un bianco e nero deciso che però ha molte sfumature (come definiva il suo Leo Matiz), che le rende elegantissime anche grazie alle complesse composizioni dentro le quali sono inserite. Mostrano se stesse e la loro forza, anche con le parole scritte sui loro volti, nei loro occhi, sulla loro fronte, sulle mani e a volte suoi piedi.

Il corpo come un “reato”, appunto, è negato dal chador, ma loro spesso sono con le armi in pugno. Un progetto ancora fortemente attuale: «Sì lo è perché affronta il tema di come il fanatismo religioso sia legato alla violenza. E non riguarda solo l’estremismo islamico. È però ancora un lavoro controverso perché racconta di come le donne iraniane hanno combattuto per la rivoluzione contro “il capitalismo”, anche rinunciando a se stesse nell’aderire alle leggi della rivoluzione Kohmeinista», spiega a exibart l’artista. Gli interventi calligrafici (nella tradizione iraniana e nella sua pratica artistica) in lingua farsi, in alcuni casi sono a sostegno della convinzione come combattenti, sono aderenti a quel sacrificio.

«In altri corredano i visi sensuali come se fossero urlate contro un governo totalitario che gli toglie identità e libertà». Sono brani di poetesse iraniane: Forough Farokhzad, Simin Behbahāni, Moniro Ravanipour. In Usa si è ritirata in un autoesilio, come dichiara, anche se ora dopo 20 anni si sente americana e non si risparmia durante il momento di presentazione alla stampa un moto di delusione e critica contro l’attuale amministrazione e il modo in cui tratta i migranti. Nella lontananza, corredata da molta nostalgia, ha raccontato la storia del suo Paese puntando l’attenzione sulla condizione delle donne che lo vivono e lo subiscono, ma non soltanto. Il contesto delle sue riflessioni civili e politiche è molto più ampio e racconta del rapporto con il potere, la religione, la sottomissione e la ribellione.

Questa mostra antologica ci permette anche di capire l’evoluzione nel tempo del lavoro artistico di Shirin Neshat, di come sia lei ora “dopo tanti anni a New York”. Non abbandona la fotografia, ma si dedica molto ai video che, dice, la lasciano più possibilità di costruire una narrazione. «Mi sento newyorkese, anche se condivido questa citazione: Puoi togliere un iraniano dall’Iran, ma non puoi togliere l’Iran da un iraniano». Ha abbandonato il sentimento profondo di nostalgia per il suo Paese e la sua famiglia perché ha rinunciato al ritorno a casa. E così sono nati i lavori più recenti rivolti anche agli Stati Uniti dove vive, in particolare. Il video Fury, per esempio, è girato a Brunswick, a Brooklyn dove vive o The land of dreams girato in New Messico, che ha debuttato nel 2021 alla Biennale Cinema.

La protagonista di Fury è una donna iraniana che ha subito una violenza in carcere in Iran e, mentre cammina libera per le strade di New York, le ritorna in mente il trauma subito. Il video scorre tra le immagini di lei nel presente e nel ricordo ancora talmente dirompente, che alla fine la ritroviamo distrutta appena fuggita dal carcere poco prima, ma che viene accolta dalla gente comune di un quartiere che si unisce a lei nella protesta. «La dimensione della dualità», dichiara, «è una cifra del mio linguaggio, come anche quella del sogno perché permette di non avere strette regole del racconto». Nel film The land of dreams del 2019, una fotografa americana alter ego di Shirin Neshat si muove sempre su due canali di cui è composta la video-installazione. In uno entra nelle case di persone presentandosi come una studentessa di arte che deve fare dei ritratti fotografici, chiedendo poi, in seconda battuta quel è stato il loro ultimo sogno. Nell’altro canale si scopre che ha una missione segreta: raccogliere i sogni per una bizzarra istituzione, che ha una sede in una fabbrica nascosta in una montagna.

Anche in questa opera c’è un aspetto politico che mette a confronto Iran e Stati Uniti: il pericolo che attraverso il sogno e le ideologie oppressive giunge alla manipolazione e alla perdita della libertà. Una dualità che si manifesta sempre nel confronto tra Iran e Usa e nella sua dimensione di esule con una profonda nostalgia per il suo Paese e la sua famiglia che aveva presentato nel video Soliloquy del 1999. Ma se la nostalgia si è stemperata, rimane costantemente in bilico tra due i due mondi. Passato e presente dialogano nelle opere esposte, tra fotografie e molti video girati anche con il marito regista che sembrano essere il mezzo espressivo più usato dall’artista. La sua “ibrid identity” più recente è espressa nel video del 2016, Rojas che fa parte della trilogia Dreamers. In queste immagini un suo alter ego fugge da un teatro (quello di Albany) dove un attore la attacca, e lei in un deserto rifiuta la donna velata iraniana che potrebbe impersonare una madre che la protegge.

Andando a ritroso si arriva ai primi video di denuncia sulle relazioni tra uomo donna in Iran ormai rese quasi impossibili da dal sistema sociale repressivo, in Fervor del 2000 sviluppato come sempre in una storia parallela. Così come Turbolent ci ricorda che dopo la Rivoluzione del 1979 alle donne in Iran è proibito cantare da sole in pubblico perché avrebbero una carica erotica insostenibile. Tornando alle foto nel 2012, la serie The book of kings, nello stile di Woman of Allah unisce ritratti e pratica calligrafica. Ritrae i giovani iraniani: un progetto dopo la nascita del Green Movement che si era formato in seguito alle proteste per i brogli legati alle elezioni del 2009. Arte, attivismo, politica dei diritti, ovvero l’immaginazione come strumento profondo di utopia all’interno della realtà. Un punto di ripartenza per ricominciare anche in Occidente a riflettere. Come sempre gli artisti ci indicano la strada.