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Terreni comuni tra mito e insularità: ‘Isole e Idoli’ al Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
Mostre
Mi piace pensare che Virginia Woolf, nel descrivere la meraviglia della sabbia, del suo «non spezzarsi» sotto il peso dei passi, stesse forse riflettendo sulla grandezza e sul mistero della natura. E quando, più avanti, scrive della continuità dell’onda – nonostante tutto, nonostante noi – vedesse in quel moto costante l’indifferenza quieta della natura di fronte al passaggio umano: noi che andiamo e veniamo, le onde che restano con il loro mistero. Mi piace credere che quel non spezzarsi parlasse dell’alterità del mistero, di qualcosa che ci supera in quell’esistere autonomo della sabbia, nel suo esserci nonostante noi, nel suo non frantumarsi, si racchiuda qualcosa di trascendente: l’immaginario, la scoperta, il mito.
La stessa sabbia fa da protagonista in Isole e Idoli non soltanto come metafora, ma come materia viva. Al MAN di Nuoro, ricopre il pavimento dell’ultimo piano del museo, accogliendo i visitatori per l’intera visita della mostra. È confine e soglia, ma anche elemento concreto su cui si cammina, si avanza, si scoprono arcipelaghi allestitivi durante il percorso. Con lo scopo di esplorare il legame profondo tra l’isola e i suoi simulacri, tra l’isolamento fisico e l’intensità simbolica, figure arcaiche, protette dall’insularità, si rigenerano nelle forme moderne del Novecento: dai busti antropomorfi bretoni alle statue-menhir sarde, dalle xilografie di Gauguin realizzate nelle isole della Polinesia francese alle sculture di Giacometti. ‘Isole e Idoli’ presenta opere di Paul Gauguin, Max Pechstein, Joan Miró, Jean Arp, Henri Matisse, Alberto Giacometti, in una raccolta che attraversa secoli e linguaggi espressivi.

La mostra riunisce oltre 70 opere, provenienti da collezioni private e importanti prestiti da istituzioni internazionali come il Musée du Louvre, la National Gallery di Praga, la Galleria d’Arte Moderna di Milano e il Musée Départemental Maurice Denis, ed è curata da Chiara Gatti e Stefano Giuliani con il contributo teorico di Matteo Meschiari. Propone un impianto iconografico e statuario disposto secondo affinità visive, analogie tematiche e accostamenti evocativi. Xilografie, dipinti, stele e oggetti dialogano tra loro come se emergessero in piccoli gruppi, quasi arcipelaghi sparsi nel paesaggio sabbioso dello spazio espositivo. L’approccio è transculturale, e abbraccia le teorie della global art dove il mare, il blu, assume la connotazione di una mappa-matrice generativa di rotte, scambi, commerci, lingue, e contatti. Una trama fitta di relazioni che ha dato origine a una cultura globale, non più centrata su visioni dicotomiche. In questo orizzonte teorico, si accoglie l’invito di Claire Farago a superare i binarismi – oriente/occidente, centro/periferia, nazione/stato – e a lasciar cadere l’universalismo astratto in favore di una pluralità contestualizzata. La mostra, infatti, promuove una cultura materiale centrata sull’oggetto, che non si lascia incasellare rigidamente nei comparti disciplinari (storia dell’arte, antropologia, sociologia, economia), ma indaga metodologie molteplici, adattive, porose in cui i campi del sapere diventano strumenti al servizio dell’oggetto culturale esposto.

In questo senso, ‘Isole e Idoli’ osserva con uno sguardo globale e material-based la forza numinosa dell’isola. Non si tratta tanto di spiegarne l’essere da un punto di vista sociologico o filosofico, quanto di comprendere come la sua stessa geomorfologia – l’incontro tra roccia e mare – contenga in sé tracce di pensiero mitico. E così facendo, le fotografie di Florence Henri in Bretagna, dove rocce appuntite emergono dal mare come monoliti, generano istintive apofenie e risuonando con i busti antropomorfi del I secolo a.C. provenienti dalla stessa regione. Le incisioni a legno di Gauguin si riflettono nei tratti arcaici delle teste di Dea Madre sarde. Racconta Meschiari: «L’isola che spunta dal deserto liquido al grido di “terra terra!” è la geofania per eccellenza, lo stupore della scoperta e la commozione del ritorno, ma soprattutto è la sua qualità sacra, lo stato d’eccezione nel mare dei giorni, la calma nel movimento del mondo, Kairos nel Kronos, l’essere lacuna nel pieno delle cose. In una vertiginosa inversione di segno, la Terra nata dal vuoto primordiale dell’oceano diventa vuoto spinto, e questo la avvicina al soprannaturale, al mistero. Se abbiamo allora individuato il vettore che porta dalle geofanie ai primi idoli ready made, adesso possiamo capire che, come le isole, gli idoli sono catalizzatori mitici, sono landmark nella mappa del sacro, punti di orientamento nella geografia umana e cosmica, domestica e rituale, quotidiana e mitica». Seguendo queste parole, non ci resta che iniziare questo viaggio con i piedi sulla sabbia, lasciandoci guidare dal silenzio degli idoli, verso ciò che ancora non sappiamo nominare.
