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Tre artiste a confronto sulla pittura a Roma, tra filo, colore e parola
Mostre
di Tiziana Musi
La mostra dell’artista Luisa Lanarca chiude il progetto Quando filo, colore, parola s’intrecciano, a cura di Giovanna Dalla Chiesa. Come ci racconta la curatrice, è stata proprio la visita allo studio dell’artista al Pigneto a suggerire lo spunto per costruire un ciclo di tre mostre, che facesse emergere le diverse sfumature e i significati nascosti del fare pittura oggi. Partendo proprio dal lavoro di Luisa Lanarca dove filo, colore e parola, sono costanti espressive della sua ricerca, Giovanna Dalla Chiesa ha costruito questo progetto insieme a Maja Titonel, ideatrice di un format già in precedenza realizzato nella sua galleria Maja Arte Contemporanea di Roma.
La curatrice ha coinvolto altre due artiste, Alice Schivardi e Luciana Pretta, e ha concesso ad ognuna uno spazio e un tempo autonomo che consentisse a loro stesse e allo spettatore di tessere relazioni emotive e visive in spazi e tempi diversi: «Il “quando” del titolo vuole indicare l’evento particolare in cui le cose avverranno non solo per le artiste, ma per i visitatori che vedranno e saranno chiamati a interpretare le tre differente personali di due settimane ciascuna, intrecciandone i fili, per farne emergere le variabili di un sostrato comune», si legge nel testo di presentazione di Giovanna Dalla Chiesa.
Le tre artiste, Alice Schivardi, Luciana Pretta e Luisa Lanarca, declinano secondo modalità differenti il segno grafico sia esso filo, tessitura o disegno o anche colore, come rinvio sottile a una riflessione sulla pittura.
Come ci racconta Giovanna Dalla Chiesa «Tessere presuppone sempre una relazione fra cose e pensieri, non come manufatto ma come idea». E proprio questo prevalere dell’idea sul manufatto, che espropria l’opera da un carattere di artigianalità, rimanda a una progressiva astrazione intellettuale del fare, percepibile chiaramente nella successione delle tre mostre.
Alice Schivardi (Erba, 1976) protagonista della prima mostra del ciclo (19 febbraio-8 marzo) fin dalla sua tesi su Louise Bourgeois all’Accademia di Brera ha utilizzato i racconti e le frasi degli altri per costruire un’opera collettiva che mettesse in relazione le singole esperienze. La sua ricerca fin dall’inizio si fonda sul video, la performance e la fotografia di cui sono esemplari alcuni interventi come Wormholes del 2014, scultura sonora a New York o Ero figlia unica , Centro arti visive Pesaro 2015.

A partire dal 2008 il filo si trasforma, per Schivardi, in un mezzo che porta a emergere una dimensione interiore nascosta. In mostra è visibile, fra gli altri, il ciclo Coccinelle (2010) una serie di 32 preziosi e sofisticati ovali che disegnano su carta acetata storie familiari e intime fortemente emozionanti. «Le immagini dei racconti di Alice sono spesso incorniciate da ovali, un modo di cullarle in un grembo…Sospese negli slittamenti della memoria e come immersi nel liquido amniotico». Come in Eco di luce (2025) appaiono riflessi di antiche leggende come le api che uscivano dalla bocca di Santa Rita senza pungerla.

Luciana Pretta (Vitória de Conquista, Brasile, 1980) artista di origine brasiliana è la protagonista della seconda mostra (12-29 marzo). Arriva in Italia agli inizi degli anni 2000 alla ricerca della sua origine siciliana ma ben presto studia alle accademie di Roma, Bologna e di nuovo Roma. Il suo lavoro parte dalla ricerca e dall’approfondimento delle radici famigliari e identitarie del suo paese, con le sue passioni, le esplosioni della naturalezza dei corpi attraverso la danza e la musica, i suoi colori smaglianti, e trova nella pittura che diventa da subito il medium più adatto a esprimere questa vitalità dirompente. Pretta fuoriesce da ogni schema predisposto di supporti.

Una serie particolarmente interessante di cui sono in mostra solo due piccoli esemplari è quella di Reminiscences- Place of Memory (2017), piccole scatole aperte a formare piccole teatrini o scrigni abitati da residui di tempi lontani. Negli ultimi anni passa dai piccoli formati e dal riuso di carta e cartone, a dimensioni più ampie che scivolano in verticale nel pavimento, dove il protagonista è sempre il paesaggio, «Che vuole farsi corpo, fiume, montagna per accogliere il visitatore nella sinuosità della sua tettonica».

L’ultima artista in mostra in questi giorni, visitabile fino al 19 aprile, è Luisa Lanarca (Elba, 1957) esemplare per il modo con cui ha usato e reinventato un mezzo, la tessitura, al di fuori dei canoni abituali e dove il colore e la parola diventano complementari e protagonisti allo stesso tempo. Artista appartata e schiva, dopo aver studiato a Brera i temi della percezione visiva con Luigi Veronesi e la tessitura a Roma con Laura Marcucci Cambellotti, vive e lavora tra Sorano e il Pigneto. Per quanto legata a una tradizione ben determinata, supera le strettoie di un approccio artigianale e «L’uso moderato del colore, prevalentemente monocromo, l’assenza di un forte accento materico, l’abitudine a racchiudere i suoi lavori dentro contenitori in plexiglas conferiscono loro un aspetto prezioso».

L’opera più antica in mostra è Conscio-Preconscio–Inconscio del 1982, esemplare per come i suoi studi sulla percezione visiva seguano una composizione grafica tracciata dai fili, incredibilmente efficace. Anche Autismo-Estroversioni-Nevrosi del 1985 è importante per la texture grafica che consente di percepire chiaramente le differenti trasformazioni psichiche.

Ma la parola enunciata nel titolo della mostra trova finalmente luogo nei due lavori recenti presenti in mostra – 2024-2025 – Portami il tramonto in una tazza e Lo spazio cominciò a rintoccare come se tutti i cieli fossero una campana, nati dall’incontro con i versi di Emily Dickinson, ultimo di una lunga frequentazione dell’artista con scrittrici e poetesse come Perla Cacciaguerra, Mimma Pisani, Adele Cambria, Elena Giannini Belotti.
«E la parola poetica di Emily Dickinson nella cui vita appartata appartiene quella di Luisa Lanarca si rispecchia senza far giustizia di ogni suo silenzio».