18 febbraio 2021

‘Aliena Comune’: Balia, Montini, Paretta e Pirrotta alla Galleria Macca

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A Cagliari, alla Galleria Macca, la nuova collettiva con lavori di Irene Balia, Ruben Montini, Veronica Paretta e Giusy Pirrotta, che racconta un’idea di maternità tra desiderio, ombra ed eredità. Fino all'8 aprile

Ruben Montini, Le mani di mia madre che non mi hanno detto addio, (dettaglio), 2020 - 2021, 220 x 300 cm circa, Broccato sardo, organza di seta, velluto, stoffe sintetiche, filo metallico e inchiostro su cotone. Ph. Filippo Ferrarese, OKNOstudio, Courtesy dell’artista e Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano - Lucca

Nata “durante le vacanze di Natale, letteralmente tra una chiacchierata e l’altra con Ruben Montini ed Efisio Carbone» – ce lo dice Claude Corongiu, la gallerista cagliaritana volto della Galleria Macca, la nuova mostra “Aliena Comune” apre oggi, 18 febbraio, al pubblico (fino all’8 aprile) evidenziando che la vita necessita sempre di un altro che, custodendola, la porti alla luce del mondo. Non soltanto la maternità in senso generico dunque, ma i modi in cui essa viene vissuta oggi giorno. L’approccio, esaustivo e delicato, ricalca il modus operandi di Confino, l’artist run-space fondato da Ruben Montini a Castelnuovo sul Garda: un invito a tre artiste, donne, Irene Balia, Veronica Paretta e Giusy Pirrotta, a dialogare tra loro e con l’opera Le mani di mia madre che non mi hanno detto addio (Ruben Montini, 2020-21) per raccontarsi e raccontare un’idea di maternità tra desiderio, ombra ed eredità.

Di fronte alle differenti poetiche del linguaggio contemporaneo, frutto della combinazione del magistrale uso del broccato sardo di Montini, delle sculture di Pirrotta e della ricerca pittorica di Balia e Paretta, si rivela un percorso espositivo che traduce visivamente le relazioni che intervengono nel pensiero quando si cerca di enunciare una costruzione simbolica come quella della maternità. A prescindere dalla biologia come anche dalla politica, e da qualunque genere di impossibilità, si consegnano allo spettatore nuove letture dell’essere in un quadro realisticamente percorribile.

Abbiamo chiesto agli artisti di raccontarci le loro opere calandosi in “Aliena Comune”, non solo in termini di mostra ma anche in termini di sentire autobiografico e collettivo.

Ruben Montini, Le mani di mia madre che non mi hanno detto addio, 2020 – 2021, 220 x 300 cm circa, Broccato sardo, organza di seta, velluto, stoffe sintetiche, filo metallico e inchiostro su cotone.
Ph. Filippo Ferrarese, OKNOstudio, Courtesy dell’artista e Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano – Lucca

Ruben Montini (Oristano, 1986)

Rispetto alle impossibilità biologiche e politiche alla luce delle quali hai messo in discussione l’idea di genitorialità in alcuni tuoi lavori, il tuo nuovo arazzo pone l’accento sulla maternità, non soltanto come presenza ma anche, e soprattutto, come assenza e separazione.

«L’arazzo nasce durante il primo lockdown. Improvvisamente mi ero trovato completamente solo. Quella sorta di esilio che mi ero imposto da circa due anni – al tempo – non era più una scelta ma una costrizione di cui era difficile prevederne la fine. Sicuramente ciò che maggiormente mi spaventava era l’idea di potermi ammalare e di poter essere soccorso soltanto dagli operatori sanitari – persone sconosciute, non familiari, non amiche, non amate nella vita fino a quel momento. “Soltanto degli sconosciuti potrebbero soccorrermi” e ancora.. “se dovessi morire ora, morirei da solo”, avevo scritto.
Un giorno mi sono imbattuto nell’intervista ai proprietari di un servizio di onoranze funebri nel Bresciano: dicevano che, poiché nessun familiare poteva portare i vestiti per i propri defunti, loro avvolgevano ogni corpo in un lenzuolo bianco, richiamando alla memoria la sacra sindone che nella tradizione cristiana aveva avvolto il corpo di Cristo. Così ho subito immaginato la Pietà michelangiolesca, quel corpo privo di vita che la Madonna sorregge… e che allora nessuno poteva più salutare. Ho pensato a una madre a cui viene detto che il figlio non ce l’ha fatta e che nel pieno della pandemia non può correre a sorreggerlo per un’ultima volta.
Sarebbe potuta essere quella la mia sorte. E quella la sorte di mia madre.
Il mio corpo, di cui nell’arazzo vi è la sagoma nella posizione della Pietà, è un corpo che nessuna madre ha potuto salutare, ha potuto vestire, ha potuto sorreggere per dire addio.Un corpo che nessuna madre ha potuto salvare.

L’assenza è la grande protagonista di questa immagine, così come di tutto il periodo che stiamo vivendo. L’assenza è ciò con cui abbiamo dovuto imparare a convivere in questi mesi. Le presenze diventano virtuali, telefoniche, appese alla grandezza della tecnologia. Chissà come sarebbe stata ancora più alienante, la pandemia, se fosse capitata anche solo dieci anni fa e non avessimo avuto tutta la tecnologia che abbiamo oggi per comunicare con il resto del mondo….
La lontananza forzata dai propri affetti, l’isolamento come unica metodologia per la salvezza: ognuno di noi isolato nella proprio casa, nella propria tana.
E poi invece, nell’arazzo.. che vedo quasi come un monumento a chi è andato via, da solo, c’è questo corpo sospeso, che è il corpo di tutti.
Di chi ce l’ha fatta, da solo; e di chi è andato via, da solo».

Irene Balia, Conchiglie, 2021, Acrilico su tela, 100 x 120 cm, Courtesy dell’artista

Irene Balia (Iglesias, 1985)

In cosa consiste l’eredità materna? Nella trasmissione del sentimento della vita, nel diritto di essere e di essere al mondo? Quale storia racconta la tua opera, sapientemente raccontata da Efisio Carbone, nel testo critico che accompagna la mostra, come “un albero genealogico tutto al femminile”?

«L’eredità materna è per me l’idea di madre con cui la donna si confronta, al di là della gravidanza. È quell’insieme di caratteristiche che la società attribuisce alla figura materna e alle donne in generale: la madre votata al sacrificio, la madre che protegge, la donna che custodisce quella saggezza semplice che insegna a stare al mondo.

Il dipinto “Conchiglie” rappresenta le madri a me strettamente legate. Non essendo madre, la mia idea di maternità è legata all’essere figlia. Sono partita dalla figura di mia madre e l’ho ripensata come figlia a sua volta. Le donne rappresentate sono quindi mia nonna, mia madre, mia sorella, la figlia di mia sorella e io. Ho voluto trasportare la loro rappresentazione in una natura morta, tema a me famigliare, per poter ricreare il senso di protezione e calore che mi dà sia l’idea di ambiente domestico, sia l’idea di mia madre. Le conchiglie, simbolo di prosperità, collegano le madri alle figlie, abbracciandole per proteggerle. Ma il rapporto tra madre e figlia non è solo questo, è anche autorità, è strappo della separazione che genera conflitto quando la bambina diventa donna, rappresentato dal mare in tempesta».

Veronica Paretta, Tutti giù per terra, 2020, Acrilico e carboncino su carta, 90x210cm, Courtesy dell’artista e Galleria Macca, Cagliari

Veronica Paretta (Cagliari, 1986)

Ci sono infinite pieghe sintomatiche che può assumere la maternità. Che forme ha e che forme vorrebbe avere il desiderio femminile del corpo che ritrai nella tua opera?

«Non c’è più desiderio, ora c’è la razionalità. La testa ragiona e quando ciò accade subentra la paura dell’avvenire e di quello che ne sarà per gli uomini che ora sono al mondo. Non è paura solo nei confronti dei propri figli ma è apprensione verso tutti i figli che vivono. Questo dell’opera è un corpo in terra, portato al bidimensionale, schiacciato. Non può fare più nulla, può rimanere solo sui suoi passi; sull’attenti che osserva e lascia vivere».

Giusy Pirrotta, See Monster, 2021, Ceramica smaltata, 36x32x15cm, Courtesy the artist

Giusy Pirrotta (Reggio Calabria, 1982)

Un busto femminile, due mani. Due sineddochi, due parti per il tutto. È come se le tue sculture opponessero all’iper-tecnologizzazione di oggi la nudità delle mani delle madri. Le cure di una madre, come la sua presenza, sono fondamentali, ma non esauriscono il rapporto madre-figlio. Immaginiamo che quelle mani e quel busto appartengano a una madre, da dove, chi è, che orizzonte guarda?

«Lo sguardo è rivolto al futuro, ma è come un rumore bianco in stand-by.
“See Monster” gioca con le parole “Sea”- “See” e le sembianze della scultura, che mi appare come una creatura marina, sul ciglio dell’acqua, da dove scruta la terra all’orizzonte.
Il busto incarna un momento di stasi, riconducibile alla mia esperienza di primo lockdown, periodo durante il quale è stata realizzata questa scultura. Un momento che sembra non risolversi completamente, in cui la situazione di attesa e incertezza amplifica le nostre sensazioni e i nostri sensi, in questo caso il senso del vedere che qui prende forma come una iper-sensibilizzazione.

Le mani appartengono a un’indovina. I due lavori non dialogano tra di loro, sono lavori separati e realizzati in momenti diversi. Però c’è un filo conduttore che li accomuna, ovvero l’impotenza di prevedere il futuro è l’impazienza di sapere quello che succederà, mentre si galleggia dentro la sensazione di una “dolce attesa”, un’aspettazione.
Da un lato c’è la stasi e l’amplificazione del vedere – l’osservare fino a quando non si percepisce più quello che si guarda – mentre dall’altro l’incarnazione della possibilità di prevedere e predire, agire e reagire, rappresentata dalle mani dell’Indovina e l’immaginario paranormale collegato a esse».

Giusy Pirrotta, Le mani dell’indovina, 2021, Ceramica smaltata, 40 x 28 x 18 cm cad, Courtesy dell’artista

Prima di concludere, una domanda a Claude Corongiu

Come è nato il progetto espositivo “Aliena Comune”? Come si inserisce nella programmazione della galleria? Quali progetti hai per il futuro?

«“Aliena Comune” è soprattutto il frutto di un’amicizia che dura da tanti anni tra me, Efisio Carbone e Ruben Montini, e durante la quale abbiamo collaborato a diversi progetti. Siamo partiti dal grande arazzo di Ruben (Le mani di mia madre che non mi hanno detto addio), intorno al quale si articolano i lavori di tre artiste che conosciamo bene, (in particolare, lavoriamo con Veronica Paretta dal 2016, e con Irene Balia dal 2020).
Il progetto non solo si inserisce nella programmazione coinvolgendo gli artisti con cui collabporiamo, ma è stato specificatamente pensato per la Galleria Macca. Dal punto di vista della programmazione, il 2021 si prospetta simile al precedente. Noi che lavoriamo principalmente con artisti del Centro e Sud America l’anno scorso abbiamo dovuto rimandare diversi progetti a causa della pandemia, e probabilmente slitteranno ulteriormente. Ma paradossalmente è anche “grazie” alla pandemia che abbiamo iniziato nuove collaborazioni, che non vediamo l’ora di svelare… quindi siamo molto ottimisti!».

“Aliena Comune” è tutto questo ma, al contempo, non si esaurisce in questo: una conversazione visiva e spaziale che ha desiderio di farsi ascoltare e, al tempo stesso, di dare voce. Nessuna opera documentaristica ma lavori che interrogano lo spettatore, ponendo domande più che dando risposte. Perchè, proprio perché la vita viene gettata nell’esistenza – direbbero Sarte e Heidegger – essa invoca la sua inclusione nel senso.
Ruben Montini, Smalto, 2021, 30x40cm, Broccato sardo, velluto, organza di seta e cotone cuciti su tela
Ph. Ela Bialkowska, OKNOstudio, Courtesy dell’artista e Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano – Lucca

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