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La scultura di Matheus Rocha Pitta (nato in Brasile nel 1980, vive e lavora a Rio De Janeiro) si potrebbe definire come “bipolare”: tiene unita la materia grezza alla fragilità, la delicatezza al disturbo dato da materiali poveri e duri, nello sposalizio di carta e il cemento. Due elementi che, in realtà sono corrisposti della stessa pasta: così come si straccia o si brucia in men che non si dica la carta, anche il cemento – se non armato – in un paio di colpi si sbriciola.
Non è un caso infatti, che la mostra che si apre stasera da Alberto Peola a Torino, curata da Francesca Comisso e Luisa Perlo di a.titolo, in collaborazione con la restauratrice Sara Stoisa, si intitoli proprio “Take Care”. Rocha Pitta consegna al visitatore sei “Lajes” e una stele per riflettere, si legge, “sulla reciprocità tra pratiche e poetiche, nell’intreccio tra atti creativi e curatoriali, tra conservazione e produzione”.
Che significa? Per entrare nel vivo del discorso teorico, in questo caso, sarà forse necessario approcciare prima di tutto la pratica. Cosa sono i “Lajes”? Lastre di cemento (armato in questo caso) nelle cui superfici si incorporano immagini recuperate in giornali e riviste e conservate nel corso degli anni: fissare il passato, lapidare l’icona, in un atto di cura che però non la toglierà dalla consunzione.
E in scena, in queste tavole, c’è la storia del Paese, dell’autoritarismo, della mistificazione dell’informazione, e la volontà, non ultima, di ridare un po’ di gloria al mondo dei vinti. Sono quegli stessi umani che in Brasile costruiscono le lajes per rivestire i tetti delle case nelle favelas o nei cimiteri poveri come copertura delle fosse, e Rocha Pitta le produce colando il cemento in cassette di cartone usate per gli ortaggi nei mercati.
La forza, appunto, associata all’effimero; la povertà che però produce un oggetto destinato a perdurare nel tempo, contro quella ricchezza della civiltà delle immagini che si specchia anche in quella post-capitalistica.
Creata appositamente per l’occasione, “Take Care” mostra così anche la “disposizione” all’accoglienza dell’opera – a cui potrebbe fare seguito la parola “cura” – la sua tutela, come sindoni di un mondo contemporaneo e abituatosi, ma nemmeno così tanto, a dover fare i conti con legami difficili, portando all’estremo la sua “materia” di composizione.