02 novembre 2019

Torino Art Week: Navjot Altaf al PAV Parco Arte Vivente

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Al PAV Parco Arte Vivente la prima personale in Italia di Navjot Altaf, a cura di Marco Scotini: «un nuovo capitolo nell’indagine del rapporto tra pratiche artistiche e pensiero ecologista nel continente asiatico».

Altaf PAV
Navjot Altaf, struttura realizzata nell'ambito del progetto collaborativo Nalpar nella zona di Bandapara, Kondagaon, Bastar, 2001. Courtesy l'artista.

A Torino oggi, 2 novembre, al PAV Parco Arte Vivente inaugura la prima personale in Italia dell’artista indiana Navjot Altaf (1949, Meerut) “Samakaalik: Democrazia della Terra e Femminismo”, a cura di Marco Scotini.

La mostra «rappresenta un nuovo capitolo nell’indagine del rapporto tra pratiche artistiche e pensiero ecologista nel continente asiatico, un percorso espositivo aperto con la mostra personale dell’artista cinese Zheng Bo. Dopo Ravi Agarwal, con Navjot Altaf procede il focus sul subcontinente indiano, un contesto particolarmente significativo rispetto allo sfruttamento delle persone e delle risorse ambientali», si legge nel comunicato stampa..
«I lavori di Altaf, impegnata politicamente sin dagli anni ’70, periodo in cui milita nel collettivo marxista PROYOM, raccontano lo sfruttamento minerario e dell’agricoltura intensiva, l’industria pesante, la consunzione delle foreste, riflettendo sulla sovranità culturale delle popolazioni indigene in lotta contro il potere statale e delle multinazionali», ha proseguito PAV.

Abbiamo posto alcune domande sulla mostra a Marco Scotini, curatore di PAV Parco Arte Vivente.

Come è nata la personale di Navjot Altaf e come si inserisce nella programmazione del PAV?

«Avevo già invitato un anno fa Navjot Altaf per Yinchuan Biennale e lei, in Cina, aveva appena partecipato alla Shanghai Biennale curata da Raqs Media Collective. A Yinchuan aveva allestito una intera sala del museo con un triplice schermo e grandi sculture di artisti Adivasi di Bastar con cui collabora da venti anni, dove ricerca ecologista, approccio femminista e partecipativo erano messi al lavoro. Per questo abbiamo pensato che sarebbe stato interessante ospitare al PAV una sua personale per presentare Altaf al pubblico italiano. Questa mostra si colloca infatti in un programma iniziato un anno fa e rivolto all’indagine della ricerca ambientale nel Sud Est asiatico e per il quale abbiamo già invitato l’artista cinese Zheng Bo e l’artista indiano Ravi Agarwal. Con Navjot Altaf la ricerca ha preso un indirizzo ulteriore per cui ora al tema ecologista si unisce quello femminista che, dopo il suo intervento, sarà portato avanti a marzo da Arahamaiani: un’altra importante artista indonesiana».

Come sarà articolato il percorso espositivo?

«Dal momento che Navjot Altaf è una delle artiste più radicali e più note della scena indiana, abbiamo pensato di non esporre soltanto i suoi lavori più recenti ma risalire fin al tempo del gruppo PROYOM (Movimento dei giovani progressisti) degli anni Settanta. Un gruppo di giovani appena uscito dalle Accademie di Bombay e attivo anche socialmente con interventi agit-prop, circoli di studio, sostegno alle famiglie. Di questo periodo sono in esposizione oltre cento poster che presentano il tipo di attività di Altaf e del gruppo. Di fatto i PROYOM si muovevano come una sorta di Atelier Populaire producendo manifesti e pamphlet da distribuire nella città e alle varie classi sociali. Allo stesso tempo sono presenti i suoi lavori individuali sull’ecologia – con video, tracce sonore, opere grafiche e scultoree come la serie Patterns which Connect del 2018 in cui sono presentati dei calchi in argilla di numerose specie di insetti che contribuiscono e hanno contribuito alla costruzione dell’ecosistema e che si stanno ora estinguendo. Per cui vengono presentati come se fossero dei reperti fossili del periodo carbonifero, come qualcosa che ha già perduto la vita, ricordandoci così la minaccia alla quale la crisi ambientale ci espone oggi. Un’altra parte della mostra è dedicata alla sua pratica artistica partecipativa, per cui negli anni ’90 Navjot Altaf ha lasciato la sua brillante carriera di artista individuale per fondare progetti comunitari a Bastar con donne espropriate dei loro diritti. In questo l’atteggiamento di Altaf mi ricorda quello di Piero Gilardi nel ’70 e forse non è un semplice caso che la mostra si tenga al PAV, nello spazio da lui fondato. Un progetto tra tutti prende il titolo di Nalpar, iniziato nel 2000 e ancora attivo, ha come scopo la realizzazione di pompe manuali per l’acqua che vengono distribuite sul territorio, provvedendo all’approvvigionamento idrico. La mostra poi aggiunge un altro aspetto del lavoro di Altaf che riguarda l’ambito del femminismo e il suo rapporto con il suolo, la terra».

È la prima personale di Navjot Altaf in Italia, può riassumerci, in estrema sintesi, la sua ricerca?

«Su Navjot Altaf è appena uscito un volume di 500 pagine di una intellettuale e ricercatrice come Nancy Adajania che ci fa capire come sia difficile sintetizzare un lavoro così complesso e stratificato. Credo che questo sia proprio il punto e, cioè, comprendere che culture diverse dalla nostra presuppongono altri approcci e modi d’intervento per cui un libro sull’arte pubblica come quello di Claire Bishop diventi immediatamente occidentalocentrico, un limite del nostro pensiero. Quello che mi affascina in queste figure è la carica di immaginari che vengono messi all’opera in rapporto ad un riscatto sociale, al riconoscimento dei diritti umani. Il paradigma estetico diventa qui un campo ibrido, esteso e trasversale difficile da catturare, da canalizzare nel nostro sistema dell’arte».

Nel comunicato stampa si legge che i lavori di Altaf si inseriscono nel movimento ecofemminista. Può spiegarci di che cosa si tratta?

«Per chi conosce Vandana Shiva forse l’argomento è già familiare. Basta pensare al celeberrimo movimento Chipko contro il disboscamento e condotto, non a caso, dalle donne indiane. Il rapporto tra oppressione della donna e sistema capitalista è stato ampiamente indagato anche da autrici come

Silvia Federici, Mariarosa Dalla Costa, Maria Mies, tra le altre, che sottolineano il ruolo chiave dei processi produttivi e riproduttivi all’interno della valorizzazione capitalistica. Nella specificità del contesto post-coloniale indiano, le diverse forme del pensiero ecofemminista conoscono una particolare rilevanza e sottolineano un’identificazione tra natura e cultura che non può essere completamente rimossa dalle condizioni di vita contemporanee. Visto come la scienza ha particolarmente inaridito i nostri modi di pensare, di immaginare e di agire, credo che tutte le problematiche emerse da questo ambito vadano ben oltre un pensiero di genere/differenza e possano trasformarsi in contro-dispositivo di resistenza e rigenerazione della contemporaneità».

Navjot Altaf
Samakalik. Earth Democracy and Women Liberation

A cura di Marco Scotini
Dal 3 novembre 2019 al 16 febbraio 2020
PAV Parco Arte Vivente
Via Giordano Bruno 31, Torino
Opening: 2 novembre 2019, alle 18.30
Orari: venerdì dalle 15.00 alle 18.00, sabato e domenica dalle 12.00 alle 19.00 (lunedì chiuso, dal martedì al venerdì visitabile per gruppi e scuole su prenotazione)
www.parcoartevivente.it, info@parcoartevivente.it

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