15 maggio 2021

Contro l’arte e gli artisti! La “costruzione del nuovo” con l’antico

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"Gli artisti non sanno di critica della religione, soprattutto se è la loro arte a diventare religione perversa, in grado di mantenere intatto lo stato delle cose": il bruciante pensiero di Jean Gimpel, estremamente attuale

Michelangelo Pistoletto, Venere degli Stracci

Come intendere l’evoluzione artistica nell’età del multiculturalismo? L’arte tecnologica è pronta a rispondere alle sfide del nostro tempo? Quali conseguenze ha su di essa l’incontro con le problematiche legate agli studi sull’antico e l’estremo moderno? Queste sono le domande principali cui il pensiero di Jean Gimpel ha cercato di rispondere.
Ecco, quindi, che con questo discorso amoroso sulla scrittura della storia dell’arte, Gimpel ci compiace e ci disgusta con parole insolite per una riflessione sul «contro». Parla di fedeltà e tradimento, di amore e di odio, di sentimenti ed emozioni violente e tormentose. Ci racconta, con tono talvolta confidenziale, come l’arte e la letteratura artistica sono nate attraverso il connaisseur, il critico indipendente e come egli ha lottato per porle al di fuori di sé. I costruttori di cattedrali e lo spirito di Contre l’art et la religion liberale è la confessione di una passione avvolgente, che preoccupa e vivifica e che, al tempo stesso, si evolve e si modifica. È la storia di un conoscitore con la conoscenza dell’alterità dell’arte.
Jean Gimpel, proveniva dalla famiglia che a Londra fondò la prestigiosa Galleria Gimpel Fils (1946), che fra i suoi artisti ebbe Marcel Duchamp, Yves Klein ed Anthony Caro. Il padre fu amico di Marcel Proust e la madre, Fiorenza Duveen, era legata alla celebre Duveen Bros Inc.. Formatosi in una famiglia di tale levatura, Gimpel non ebbe bisogno di studi specifici per accedere alla critica d’arte ed anzi ha fornito notevoli contributi per l’evolversi della disciplina.

Jean Gimpel, Contre l’art et les artistes

Frequentando l’architettura gotica, ci si disabitua ad apprezzare l’arte contemporanea. Resta il fatto che c’è proprio bisogno di farsi condurre da architetti e critici d’arte passo passo fino al baratro della tecnologia moderna. Il Livre de Portraiture (di Villard de Honnecourt, 1200-1250, Piccardia, Francia), ritrovato e studiato da Gimpel è una raccolta di disegni, addirittura un manuale tecnico, che esibisce metri cubi di costruito, sulla prassi di una tecnologia antica a cui pare contrapporsi in modo troppo rigido la tendenza a fare tecnologia mistica, dovunque e comunque. Parlo del fascino, o almeno della sottile animosità, che assale lo storico Jean Gimpel ogni qualvolta il discorso, facendosi (per lui) pericolosamente moderno, tende a scivolare dentro e fuori le frontiere del primo e del secondo Medioevo, per inabissarsi nelle voragini della memoria dell’arte moderna e lavorare l’immaginario critico rivolto a demolire la religione artistica sin da Giotto, considerato il primo pittore borghese della storia dell’arte. Da buon post-vitruviano, de Honnecourt trasferisce il linguaggio dell’antichità nella tecnologia dell’arte moderna, facendo innamorare Jean Gimpel che nel 1984, insieme a Lynn White jr, fonda l’AVISTA (Association Villard de Honnecourt for the interdisciplinary studies of medieval science, technology and art) a Kalamazoo (Michigan). Per Gimpel è l’unica possibilità di continuare a procedere nel campo della critica d’arte, senza avvertire il rumore silenzioso che sale dall’imbroglio del “culto delle immagini”, o i falsi manifesti del primo e del secondo Rinascimento.

Jean Gimpel

Nella prima edizione di Contre l’art et les Artistes ou la naissance d’un Religion, mentre per strada scorrevano le file del movimento studentesco e del maggio ‘68, stila una classifica di artisti che dividono l’emozione estetica, dal diniego: «troveremo bello Chardin ma non Boucher, David ma non Watteau; ammireremo Goya ma non Velázquez, Daumier ma non Delacroix, Toulouse-Lautrec ma non Degas […] Giudicare belle le opere, come è ovvio, dipende dalla nostra concezione della vita e della società ideale». Pubblicato in Francia prima de La révolution industrielle du moyen Age (1975) e dopo Les bâtisseurs de cathédrales (1958), il pamphlet lascia ancora attuale il «processo alla figura convenzionale dell’artista». In linea di massima gli artisti si intendono di indirizzi, ma non sanno di critica della religione, soprattutto se è la loro arte a diventare religione perversa, in grado di mantenere intatto lo stato delle cose (liberal). Gimpel ripercorre la storia di coloro che costruivano o dipingevano immagini, studiandone i rapporti di dipendenza economica, lo status sociale, la progressiva acquisizione di prestigio, lungo un percorso che coincide con l’affermazione della società borghese.

L’artista come pedina di un gioco

L’analisi critica della religione dell’arte sembra provenire da Max Weber e dall’ultimo Walter Benjamin: il bello come valore economico, l’artista come pedina di un gioco che ha per fine il profitto. Spazio morto in partenza, di cui ci si accorge solo quando l’eccesso di zelo inibisce la funzione; spazio privo di ironia, di provocazione, di sarcasmo, sacralità preconfezionata, dalla sconfitta irrimediabile. Si tratterebbe di far entrare nello spazio della Venere degli stracci di Pistoletto la mano progettuale del livre de portraiture e nel suo progetto il sogno e il desiderio. A questo, i nostri architetti-artisti non sono abituati: simili intrusioni trasformano il concetto chiaro di bâtisseurs in una nozione problematica, che cova nel suo stesso seno quel germe di autodistruzione che George Bataille ha coltivato ed esplicitato.
Il contrasto critico contro l’arte come religione non è soltanto una scelta stilistica con la quale creare un eco provocatorio. L’insistenza critica della morte dell’arte – come Gimpel stesso sottolinea in Contre l’art – è sulla “dimensione funesta borghese” della ricerca artistica, sulle preoccupazioni antidarwinistiche e involuzionistiche, che si possono rivolgere contro i paraocchi e i liquami del secondo e del terzo post-strutturalismo, quello della moda culturale, che in età post-moderna giustifica l’arresto del paradigma evolutivo della tecnica. Come ha accuratamente affermato l’ambito della riflessione mediale, dedicata al virtuale, ecco cosa bolle sotto la pentola del nuovo: “…avanguardia o consumo scettico”? Due aspetti di una medesima operazione linguistica: vi è una perfetta analogia metodologica tra la riflessione sperimentale sulla storiografia delle costruzioni di Cattedrali Gotiche e la formula dell’elogio dello schermo, pur restando la differenza fondamentale per cui Gimpel ricorre a tale artificio (di rimando ad una formula prestabilita), non al fine di offrire una giustificazione tecnologica consumabile, ma per recuperare, a costo di esaurirla, una determinata speculazione linguistica ed evolutiva (fin dal ‘68, in direzione mediale!) dell’arte moderna.

Villard de Honnecourt

Più che recuperare un linguaggio, Jean Gimpel con Contre l’art lo fa esplodere dall’interno: “La diffidenza dimostrata dagli universitari verso queste nuove arti … meccaniche ricorda lo scarso interesse dei loro predecessori dell’antichità, del Medioevo e dell’inizio del Rinascimento per la pittura e la scultura. Il fossato che esisteva tra il mondo delle arti liberali e quello delle arti meccaniche esiste oggi, evidentemente con una terminologia diversa, tra l’università e l’industria. Questo fossato costituisce uno dei drammi della storia e l’umanità sarebbe progredita più rapidamente se si fosse potuto mantenere un ponte. Gli intellettuali sono stati troppo spesso in ritardo rispetto all’evoluzione della tecnica”.
Durante il ‘68, questo intellettuale amico e dissidente faceva ciò che i seguaci di Habermas trovano così provocatorio: ricostruiva l’estetica evolutiva dell’arte di tutti i tempi, proponendo come antidoto al manierismo una sostanziale sperimentazione tecnica, a partire dalle mirabili costruzioni gotiche e fino a giungere all’apertura del video e della medialità progressista.

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