-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
DEBRIS/DETRITI Salinas Grandes, intervista a Sergio Racanati
Personaggi
Sergio Racanati (Bisceglie,1982) artista pugliese attivo tra Milano e Bari, ma sempre in giro per interessanti residenze tra Himalaya, Argentina, Brasile e Costarica, presenterà, dal 9 settembre, nel castello di Barletta, in prima italiana, DEBRIS/DETRITI_Salinas Grandes, film d’artista selezionato per Out of Bounds Film Festival 2020. Da tempo seguo con molto interesse il suo lavoro, oggi converso con lui.
La ricerca, i premi e le residenze
La base della ricerca artistica di Racanati, si concentra su un interesse per le scienze sociali, la storia e la cultura popolare, attraverso una visione etnografica che indaga la realtà attraverso le incongruenze e gli aspetti insoliti della quotidianità. Nella sua dimensione cinematografica, il suo lavoro viene messo in scena senza far ricorso alla finzione, in un approccio narrativo frammentato, in cui convergono paesaggi antropizzati e non, intervallati da frammenti di incontri con gli abitanti, prendendo però le distanze dalla logica documentaristica. Le microstorie che compongono i film si compenetrano l’una nell’altra, delineando uno scenario umano e sociale in cui le dinamiche locali descrivono una condizione di fragilità universale.
Racanati ha ricevuto riconoscimenti internazionali tra cui il recente premio di Residenza Artistica presso “Officina Italiana” a Buenos Aires. È stato invitato in diverse residenze artistiche, tra le quali Harvard University (2013); Z33 Contemporary Museum; Hasselt (2012), Performance Space / Londra; Edge Zones Foundation / Miami. Vincitore del premio per la sezione Performance Art alla Biennale di New York co-curata da Vjitaly Patsyukov e Lu Hao (2013). Ha partecipato anche alla Biennale del Mediterraneo (2012), alla 7ma Berlin Biennal, all’interno del progetto “Preoccupied” presso il KW Institute for Contemporary Art, Berlino (2013). Nel settembre 2019 è invitato alla Biennale di Curitiba (Brasile) dove ha presentato la Performance Darkness e il film Debris/Detrti_Salinas Grandes, in prima assoluta.
L’intervista a Sergio Racanati
Quello che mi affascina è il ritmo che dai ai tuoi film, completamente al di fuori dagli schemi dello scandire del tempo. Scegli di seguire il ritmo del luogo dove ti trovi a girare e riesci a registrare tutto quello che c’è da sentire con una disponibilità all’ascolto praticamente totale.
«Il mio sguardo e le mie azioni ricadono sul patrimonio più a rischio, sommerso, ma che in realtà racconta una parte di storia ancora poco approfondita, marginale, o come preferisco definirla “micro – storia” capace di smagliare ancora di più i saperi, le riflessioni e gli interrogativi sul nostro tempo.
Nella mia pratica sondo la politica del locus: ogni materiale che entra nella mia vita e di conseguenza nella telecamera, lo elevo a metafora della ricchezza da una parte e dell’impoverimento della terra dall’altra. Esploro l’area liminale tra l’artificiale e il naturale, tra l’umano e il disumano realizzando film in continuo divenire, dall’aspetto irrisolto, pronti per essere rimodellati, rieditati: una sorta di materia plastica dentro cui percepire la precarietà dell’esistere e con essa tutta la sua struggente meraviglia delle possibilità ri-combinatorie.
Attraverso i luoghi ed entro in connessione con le comunità che li abitano, esperendo con loro le dinamiche del vivere, tessendo relazioni basate sul reciproco rispetto, fiducia e ascolto».
La tua personale ricerca artistica mi sembra si sviluppi all’interno della moltitudine di relazioni, idee ed esperienze volte a generare connessioni con il materiale fragile dell’umanità, affrontando la questione degli spazi del sensibile, dei processi comuni e comunitari. Raccontamela.
«Osservo come i mass media influenzino la nostra percezione del mondo e scavo in quel gigantesco serbatoio globale di racconti, di storie e di confessioni l’esistenza individuale e i suoi flussi collettivi. La nostra cultura e specificatamente la nostra epoca, nega molte cose e molte possibilità. Siamo dentro l’illusione dell’accesso facilitato al sapere e alle conoscenze. Siamo ossessionati da una miriade di App di incontri. E mi chiedo: Abbiamo mai incontrato noi stessi prima di incontrare l’altr*? Dov’è l’atr*? Chi è l’altr*? Per me lo spazio pubblico/ immaginario collettivo è uno spazio frammentato, uno spazio di soggettività diverse e multiple, uno spazio della pluralità e dell’alterità. In questo scenario cerco di dare una possibile risposta all’impotenza, alla precarietà, alla solitudine, alla desolazione: tutti risultati del coevo sistema neo-liberale. Esploro le relazioni e le dinamiche pubblico/privato, il consumismo, i processi di globalizzazione, l’urbanistica, i cambiamenti climatici, il capitalismo finanziario, la fine delle risorse energetiche ed alimentari. Ecco tutto questo ha a che fare con il materiale fragile dell’umanità. Ho una visione romantica dell’umanità. Cerchiamo di proteggerci!».
Quanto conta per te avere sempre uno sguardo rivolto, oltre che alla narrazione e al senso estetico che un film d’artista deve avere, verso quell’ interesse alle scienze sociali, agli eventi storici, alla cultura popolare e alla cultura di massa, visti attraverso una lente quasi etnografica?
«Rispondo ponendo una mia domanda: Come costruiamo i nostri universi/immaginari attraverso diversi media in un’epoca in cui i devices sono realmente a portata di un clic? Siamo dentro un mondo composto da frammenti archiviati dentro il vano sintetico di internet. Lavoro sul potere in modo insistente; cerco di rendere visibili le cose che restano invisibili.
Mi muovo all’interno di tre ambiti: arte, scienze sociali e sistemi di potere. Sono tre ambiti indipendenti l’uno dall’altro, ma con dei momenti di overlapping, di accavallamento, di intersezione. E questi merging spaces, spazi di mescolanza, sono quelli in cui intervengo, quelli che caratterizzano il mio stare dentro le cose, dentro la vita e dentro il dibattito contemporaneo.
Definisco il mio cinema viscerale: la de-costruzione dell’immagine si scompone, de-compone e ri-compone in una sorta di costante ricerca di equilibrio precario di forme di narrazione non lineare che ripetutamente si smagliano.
Raccolgo e colleziono immagini che incontro in ogni parte del mondo: sono per me delle vere epifanie del contemporaneo».
I tuoi spazi sono immensi e vuoti, meditativi, oppure animati dalle persone del luogo senza interferenze. Quando decidi e come questa differenza?
«I miei film sono una sorta di testamento della/alla nostra precarietà; non sono null’altro che la capacità di fissare lo scorrere banale dell’esistenza.
Fare cinema, per me, nell’era digitale, nasce dal desiderio di affrontare la polarità perdita/ritorno.
Immagino i miei film come una costellazione di racconti visuali: una sorta di rituale di passaggio, una trans. Una metamorfosi sociale».
E veniamo a DEBRIS/DETRITI_Salinas Grandes, film selezionato per Out of Bounds Film Festival, in cui lo proietti in prima nazionale, dopo la proiezione alla Biennale di Curitiba, un’opera filmica che pone silenziosamente lo sguardo su territorialità marginali, in cui il pensiero post-coloniale riveste un importante peso fornendo un possibile modello altro che dia voce ad una cultura lontana e decentrata rispetto alle narrative imperanti occidentalizzate. Come nasce e come l’hai portato avanti?
«DEBRIS/DETRITI_Salinas Grande è uno dei capitoli della mia indagine sui SUD del mondo iniziata tre anni fa con la scrittura del manifesto “Perché ho scelto di vivere a Sud”. É una ricerca su diversi piani da quello politico a quello sociale, da quello etnografico a quello ambientale. Nel film confluisce la riflessione sulla forbice che contraddistingue attualmente il dibattito sull’Argentina: da una parte una «retorica dell’euforia e dell’ottimismo» che porta a dire che il futuro è il Sud America, con ottime prospettive sulla crescita economica, tanto da definirlo il futuro del turbo-capitalismo globale; dall’altra, le profonde lacune dell’oggi e la costernazione davanti a un presente che sembra caotico e attraversato da diverse convulsioni, prima tra tutte l’allarme ambientale.
Il film mette in luce un paesaggio al limite del mondo il Deserto del Sale, nella regione di San Juan de Jujui a Nord dell’Argentina».
Tutti i tuoi film contengono tratti concettuali, meditativi e introspettivi. Unica possibile voce narrante è data alla colonna sonora dentro atmosfere ipnotiche. Un sonoro mantra, come questo film rientra in questa visione?
«Nei miei film pongo tantissima attenzione alle colonne sonore. Sono tutte create appositamente per i film da KINKI VON BRLINKI, il mio progetto sul suono con cui realizzo le colonne sonore, dj set e performance sonore. La partitura del suono diviene la voce o le voci delle immagini. Sono delle vere e proprie opere sonore con atmosfere ipnotiche, di sospensione, di riflessione. Mi piace molto immaginarle come mantra, preghiere, prefiche, litanie: insomma un sistema, un meccanismo di pensiero in cui lo spettatore è chiamato a vivere l’esperienza in modo attivo. Mi piace molto il viaggio! Voglio far viaggiare anche il pubblico!».
Non potremmo qui illustrare tutti i tuoi ultimi lavori, ma in questa occasione potremmo parlare di un’altra partecipazione significativa in questa estate 2020, il film DARKNESS che mi sembra indagare le nostre ipotesi ecologiche in modo provocatorio e profondamente coinvolgente cercando di sviluppare un nuovo vocabolario per la codifica di “ambientalismo” e selezionato per Asolo Film Festival 2020
«La struttura filmica è la messa in scena di un processo di costruzione e de-costruzione dell’immaginario collettivo e condiviso di apocalissi contemporanee in cui ho alternato le vesti dell’etnografo, dell’attivista politico, dello sciamano, ma senza mai indossare quelle di Cassandra che guarda gli eventi dall’alto, riportando l’apocalisse al suo significato letterale: rivelazione di senso. L’unica catarsi verificabile è nella natura: l’individuo non ha più modo di sfuggire alle proprie latenze, può solo decidere di abbandonarsi ad esse assimilandosi alla natura. Le azioni del performer si spogliano progressivamente dell’antica e primigenia natura: ripetono gesti ossessivi che da una parte incarnano il mito della macchina e dall’altra il tormento della disfatta interiore».
Progetti futuri, Covid permettendo?
«Sto lavorando alla realizzazione di due mostre personali. Una presso la Fondazione SoutHeritage a Matera e un’altra che spero possa realizzarsi a Roma. Nel frattempo sto continuando l’editing del film realizzato a Buenos Aires. E poi… sono in fase di scrittura di testi anfibi che vorrei potessero diventare altro…ma per adesso mi godo ancora dei bagni settembrini. Appena l’emergenza Covid me lo permetterà, partirò per la residenza artistica nel Deserto Rosa della Colombia. Non vedo l’ora di immergermi in quel territorio che non conosco ancora, pur avendo realizzato altri progetti e residenze in Colombia. Ne sono fottutamente innamorato! Sono un “enneagramma esotico” in tutto e per tutto!!!».