16 dicembre 2010

FRA DEMONI E BASSI

 
Stanley Donwood è noto soprattutto per la sua collaborazione con i Radiohead. In questa intervista, invece, dopo aver chiesto del rapporto con la band, abbiamo focalizzato l’attenzione sui suoi progetti espositivi autonomi. Muovendoci tra demoni, labirinti e carta stampata...

di

L’incontro fra arte visiva e
musica ha portato, in non pochi casi, alla nascita di veri e propri capolavori.
Copertine e artwork per cd segnano l’immaginazione delle persone diventando, a
volte, simboli epocali. Chi non ricorda, solo per citare alcune collaborazioni
note, quello che Andy Warhol ha fatto per i Velvet
Underground, Paul Whitehead per i Genesis, Storm Thorgerson per i Pink Floyd, Derek
Riggs per gli Iron Maiden, Peter Saville per i Joy Division, per i New Order ecc.?

Le personalità di cui sarebbe
interessante parlare sono molte e spesso, andando oltre il successo delle
copertine, è possibile scoprire artisti che hanno un approccio complesso
all’arte, capaci di raccontare il proprio tempo muovendosi attraverso i media
più diversi. Uno di questi, sicuramente tra i più talentuosi degli ultimi anni,
è Stanley Donwood. Un artista visionario ed eclettico, che ha realizzato con
esiti particolarmente felici tutte le copertine degli album dei Radiohead da The Bends in poi, vincendo – con Amnesiac – il premio Best Packaging ai Grammy Awards.

Donwood ha elaborato nel tempo
uno stile genuinamente visionario, capace di far luce sulle paure, le ansie e
le preoccupazioni dell’uomo contemporaneo. Che, non lontano dall’uomo di
sempre, convive costantemente con il pericolo.


Sfogliando gli
artwork che hai creato per gli album dei Radiohead si percepisce soprattutto,
oltre alla sintonia con la band, la tua autonomia di artista, il tuo essere
simultaneamente dentro e fuori il progetto musicale…

Anche se non tutte le ossessioni che cerco di tirar fuori
sono adatte a quello che stanno facendo i Radiohead, molto spesso è come se
pensassimo alle stesse cose. Alcune delle mie idee sono completamente
incompatibili rispetto al lavoro che svolge la band, perciò potrebbe risultare
un po’ pesante utilizzarle. Provo uno strano tipo di piacere nel mettere in
atto una serie di azioni che nascono da una singolare e stupida idea, come nel
caso della mia etichetta discografica Six inch, o nel caso di un brutto
racconto come Catacombs of Terror!
Spesso queste idee nascono da folli conversazioni notturne, le racconto a un
sacco di gente e poi mi viene voglia di realizzarle, di esternare questi
ridicoli progetti. Probabilmente è solo il senso di colpa e la paura di fallire
che mi obbligano a fare questo. Compatibilmente con il modo di lavorare dei
Radiohead, spesso ho dei progetti che non portano a nulla o che evolvono
autonomamente. Per il progetto attuale, invece, avevo appena iniziato a
utilizzare vecchie macchine per i fax, ritratti a olio, superfici metalliche e
altri tipi di approccio che poi ho abbandonato solo per ricominciare a lavorare
in un altro modo. In sostanza, se un’idea o un approccio non funziona con la
musica, lascio stare.

Vi accomuna anche il
tema del pericolo che incombe, di una politica impazzita che normalizza il
disagio. Non è una paura irrazionale, ma una lucida visione di quello che sta
accadendo. Esprimere la paura che si ha e guardarla negli occhi può essere considerato
un modo per iniziare a combatterla, no?

Forse è solo un modo per raccontare ad altre
persone di essere spaventati. Sono d’accordo con te sul discorso della politica
impazzita e sulla normalizzazione del terrore, ma poi metà del mio tempo lo
passo con mostri e demoni, quindi, da questo punto di vista non è per niente
logico, sempre che tu creda ai mostri e ai demoni. Personalmente credo di
essere un po’ spaventato per la maggior parte del tempo, ma penso che avere
paura sia meglio che non averne e che non aver paura equivalga a essere
stupidi. Tutte le cose viventi, se vogliono sopravvivere, devono vivere in uno
stato di allerta, essere prudenti e avere dei sospetti. Se uno non ha queste
caratteristiche, non può pensare di vivere a lungo, proprio come nella giungla,
nella città o nella politica. Ho utilizzato l’arte e la scrittura in un modo
volutamente magico per esorcizzare alcune entità soprannaturali presenti nella
mia esistenza e sono andato incontro, consapevolmente e con un po’ di disperazione,
al rischio di rimuoverle da me e riversarle nel mondo. Non hanno fatto del male
a nessuno, per quanto ne sappia. Posso sbagliarmi, certamente. Ma è quello che
più si avvicina a ciò che intendo per affrontare le mie paure.

Considerando la
notevole quantità di mezzi che utilizzi per il tuo lavoro, si può pensare a te
come a un artista che non vuole mai abituarsi a nulla e che ogni volta deve
inventarsi nuovi strumenti, come se dovesse sempre ripartire da zero. Sei
d’accordo?

Sì, penso di sì. Mi interessa imparare nuovi
modi di lavorare, così come ho fatto con l’acquaforte, la pittura a olio o il
disegno con gli aghi ipodermici. Ma a volte vorrei semplicemente fregarmene,
mettermi comodo e fare qualcosa di buono. C’è un proverbio inglese che descrive
una persona con molte abilità come colui che è “esperto di tutto, maestro di
niente”, e penso che mi rappresenti. Beh, almeno è quello che penso quando mi
sento un po’ giù di morale. Per certi versi sono così all’antica; mi piace fare
le cose dal punto di vista fisico e i computer non mi entusiasmano molto. Penso
che si dipenda troppo da essi. Sono fantastici, ma la matita o la bicicletta
sono invenzioni insuperabili.

Tu sei anche uno
scrittore…

Beh, questo è discutibile. Ho scritto libri e
storie e penso che siano ok. Poi per qualche anno non ho scritto molto. Scrivo
specialmente quando non riesco a pensare al modo per creare artwork, ma quando
invece lavoro agli artwork non posso più scrivere. Che senso ha tutto questo? È
una cosa su cui non ho il controllo. Alcune cose devono essere scritte mentre
altre devono essere disegnate, dipinte o stampate.

Tra i tuoi ultimi
progetti espositivi c’è Red Maze,
presso lo spazio Schunck in Olanda. Un vero e proprio ambiente ispirato al
labirinto del Minotauro…

Red Maze ha rappresentato un radicale
allontanamento dalla mostra realizzata precedentemente; era una specie di
museo, molto grande, in cui nulla era in vendita. Era uno spazio che misurava
40 metri per 30, nel quale ho costruito un labirinto (facendomi aiutare!). Era
un gigante seminterrato, una zona sotterranea… Da alcuni punti della città di
Heerlen iniziavano delle linee rosse dipinte; questi fili rossi conducevano
allo spazio Schunck, uno attraversava la porta principale, un altro la porta
laterale, un altro ancora la porta posteriore, ma tutti insieme portavano al
piano sotterraneo. I visitatori si confrontavano con un muro rosso fatiscente
lungo 20 metri, un muro costruito con lamiere ondulate, compensato, vecchie
porte che non si aprivano; il tipo di muro che viene eretto frettolosamente
intorno a un cantiere di demolizione.

E il visitatore?

Alcune vie d’accesso si delineavano al buio nel muro,
invitando gli spettatori verso il Labirinto
Rosso
. Attaccate al muro rosso c’erano molte immagini stampate che
mostravano frammenti di immagini misteriose, oppure parole stampate in grande
con blocchi di legno, parole come “virus”, “pigrizia”, “avidità”, “video”,
“crepuscolo”, “accanito” e “baldoria”. In generale c’era un senso di imminenza,
un accenno a qualcosa di spaventoso. Quello che Red Maze stava a rappresentare, almeno in parte, era il disordine
della mente umana. Sembrava che non ci fossero ragioni logiche o un ordine
preciso, ma in realtà la costruzione e gli abbellimenti erano pensati
accuratamente e avevano un senso preciso, almeno per me. La serie di incisioni
di Piranesi, Carceri d’invenzione,
sono state una fonte di ispirazione per Red
Maze
. Gli elementi architettonici che l’artista sapeva utilizzare abilmente
conferiscono potere alle sue prigioni. Il labirinto ha il potere alchemico di
trasformare ciò che è familiare in qualcosa di non familiare, questo è ovvio: i
materiali usati sono comuni, una siepe, un muro, un recinto… ma il
disorientamento prodotto dal ripetersi di queste superfici è profondo e
profondamente inquietante.

E la tua retrospettiva
a Roma da Mondo Bizzarro? È una galleria che finora si è occupata di artisti
molto diversi da te…

La mostra a Roma era intitolata Palimpsest. Consisteva in una collezione di stampe create tra il
2005 e il 2010, un periodo di tempo che sembra essere molto più lungo di quanto
in realtà non sia. So che Mondo Bizzarro solitamente espone arte erotica; c’era
un po’ di eros anche tra il thanatos dei miei lavori, ma forse era nascosto per
bene…

A quali progetti
stai lavorando ora?

Sto lavorando ad alcune cose… Una di queste è una
linoleografia di Los Angeles distrutta dal fuoco, dall’inondazione e da altre
cose spaventose. Poi sto lavorando a una folle etichetta discografica e della
terza non posso parlarne, perché è una sorpresa.

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La
mostra da Mondo Bizzarro

a cura di daniele
fiacco

[exibart]

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