19 gennaio 2012

I destini incrociati di un artista e di un gallerista: Giulio Paolini e Massimo Minini

 
Trentacinque anni di vita insieme, celebrati con una mostra che si è appena aperta a Brescia. Racconta un rapporto fatto di affinità elettive e migrazioni di idee che prendono corpo in quattro installazioni tra memoria e poesia. Dove l’asciuttezza delle linee di Paolini crea ambienti quasi metafisici, svuotando alcuni lavori già esposti di dettagli ormai superflui. E che a volte, sorprendentemente, si incapriccia. Costruendo un gioioso, ma anche malinconico, teatro della vita [di Ludovico Pratesi]

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Si sono conosciuti nel 1971, e cinque anni dopo hanno presentato una mostra insieme, nella prima galleria di Massimo Minini a Brescia, aperta con passione ed entusiasmo da un giovane che si era formato a stretto contatto con Giancarlo Politi, rampante e lungimirante editore di Flash Art. «Conoscevo Giulio Paolini dalla fine degli anni Sessanta – ricorda oggi Minini – forse dalle colonne di “Marcatrè”, forse dalle pagine del libro di Carla Lonzi Autoritratto, certamente da alcune opere in mostra alla galleria Acme e da Ermanno Cattaneo, due gallerie bresciane molto attente alle ultime tendenze».

L’arte era il castello dove i loro destini dovevano incrociarsi, come direbbe Italo Calvino. Un castello aereo e concettuale costruito su similitudini intellettuali ma anche caratteriali: una propensione innata all’understatement, un amore curioso e tenace per la scrittura, coltivata con tempi e modalità diverse, una propensione verso pause e silenzi, riempiti con la forza penetrante dello sguardo, e forse molto altro ancora. Affinità elettive cresciute negli anni, che ora prendono forma in una mostra che è un percorso all’indietro, un viaggio à rebours costruito in quattro tappe all’interno dei tre ambienti che compongono il piano terra della galleria di via Apollonio 68 a Brescia, nella mostra aperta fino al 10 marzo.

«L’idea di celebrare la nostra prima collaborazione è venuta a Giulio» ricorda Minini. «Gli ho chiesto se potevo intervenire nella scelta delle opere, da ficcanaso come sono. Lui all’inizio era d’accordo, ma poi ha fatto tutto da solo». Come? Paolini lo dichiara nella sua lettera a Minini pubblicata nel pieghevole che accompagna la mostra, un foglio che riproduce la piantina della galleria con il posizionamento dei lavori e una lista delle opere esposte negli ultimi 35 anni nella galleria. L’artista dichiara: «Quanto d’inedito e di inatteso queste nuove immagini propongono è però traccia antica e sedimentata della nostra comune memoria», svelando la chiave di lettura dell’intera operazione: ogni opera contiene una traccia dell’originale per trasformarsi  in una nuova immagine. Opere come “echi” per Giulio e “ombre” per Massimo, disposte lungo un itinerario che si apre con L’ospite, una doppia installazione incentrata sullo studio dell’artista, nell’allestimento proposto da Minini nel 1989. Qui la memoria è custodita in una doppia immagine che documenta la prima epifania dell’opera, riproposta oggi in una versione diversa, contenente in nuce la storia passata, presente e forse futura del lavoro. Nella seconda opera, Eco (1976), una serie di nove riquadri rettangolari disegnati sul muro ricordano una geografia visiva composta da immagini di opere del passato conservate nelle sale di altrettanti musei, mentre la Casa di Lucrezio (1981) ripropone una versione diversa di un’installazione incentrata sulla percezione della classicità, con una serie di teste in gesso che l’artista ha spaccato, creando un malinconico e poetico paesaggio di rovine. La mostra si conclude con l’unico lavoro realizzato per l’occasione, una sorta di resumé intitolato Circo Massimo (2012) dove Minini assume le vesti di un personaggio in abito da cerimonia, una sorta di prestigiatore che mostra all’interno di un teatrino domestico le sue imprese espositive attraverso frammenti di opere di Carla Accardi, Daniel Buren, Anish Kapoor ed altri artisti. Una maniera semiseria e giocosa per mettere in scena, forse in maniera fin troppo esplicita, il rapporto pluridecennale che lega Giulio a Massimo, e Massimo all’arte contemporanea, territorio ambiguo e sfuggente ma ricco di aperture verso letture oblique e inaspettate del reale.

E anche su questo punto Paolini ci insegna qualcosa, riportando nella lettera a Minini un aneddoto sul Pictor Optimus. «Giorgio De Chirico era attento e puntuale spettatore di un apparecchio televisivo privo di audio». Unica condizione, a detta dell’artista, per sopravvivere alla violenta tirannia degli schermi, che sta modificando per sempre la nostra capacità di concentrazione e di relazione. «Un libro o un’esposizione bastano a se stessi, si annunciano da soli, dicono più e meglio nel proprio elegante silenzio di quanto il parlato riesca a convincere». Il silenzio diventa quindi il presupposto essenziale per un approccio corretto e salvifico con l’opera, una conditio sine qua non per esperire l’avventura dell’arte come un graduale cammino verso l’interno di ogni individuo, alla ricerca di un’autenticità non esibita ma intrinseca al vivere.

Questo è il territorio comune dove 35 anni fa si sono incontrati Massimo e Giulio, abili timonieri di una rotta che mantiene ancora oggi una salda e valida direzione per questi tempi burrascosi.

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