06 dicembre 2017

L’intervista/ Alessandro Calabrese

 
LA FOTOGRAFIA MI METTE IN DIFFICOLTÀ PERCHÈ CAPISCO TROPPO
Incontro con l'artista in occasione della mostra a Viasaterna

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Riconosciuto dalla rivista olandese Foam come uno dei talenti più promettenti del panorama della fotografia internazionale, dopo aver vinto il premio Graziadei al MACRO di Roma, Alessandro Calabrese (Trento, 1983) ha inaugurato la sua prima mostra personale intitolata “Impasse” nella milanese galleria Viasaterna. Un titolo provocatorio per una esposizione che – più che una strada senza sbocco – rivela l’evoluzione di una ricerca artistica iniziata nel campo della fotografia parallelamente agli studi in architettura del paesaggio allo IUAV di Venezia.
Il primo dei due capitoli della mostra raduna opere inedite appartenenti al progetto più recente dell’artista: The Long Thing (2017). Si tratta di un ampio numero di stampe a getto d’inchiostro su carta fotografica di cotone di dimensioni variabili e allestite in modo eccezionalmente accurato. Tutti i lavori della serie, rigorosamente Untitled, insieme ad altri oggetti – una scrivania attrezzata con elementi di ufficio colorati, un distruggi documenti e fogli di carta ridotti in frammenti – contribuiscono a ricreare il rituale monotono della burocrazia e l’aspetto tedioso del lavoro ripetitivo. Un mondo di riferimenti ed evocazioni le cui suggestioni più evidenti possono individuarsi nel romanzo postumo e incompiuto di David Foster Wallace, Il re pallido (2011), attraverso la recita del prologo – realizzata dalla performer Isadora Barbosa – oppure nella trascrizione di un intero paragrafo che mediante un manifesto rivela l’epicentro del lavoro: “Se sei immune alla noia, non c’è letteralmente nulla che tu non possa fare”. Fastidio, tedio, noia, che paradossalmente, Calabrese riesce trasformare in un fecondo stimolo creativo verso la conquista di un linguaggio artistico tutto suo. 
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Alessandro Calabrese, Impasse, courtesy Viasaterna, performance
Se in The Long Thing la fotografia rimane soltanto una suggestione; nella serie A Failed Entertainment (2012-2016) – secondo capitolo della mostra che gli è valso le distinzioni prima menzionate – l’uso di questo mezzo espressivo rimane implicito ma comunque più riconoscibile, senza rivelare la strategia concreta da cui provengono – e che tra l’altro comprende scatti di un suo lavoro precedente e l’uso dello strumento di ricerca Google Reverse Image.
Nella ricerca artistica di Calabrese si possono riconoscere le problematiche dell’autorialità e della proliferazione contemporanea delle immagini nella sua esistenza dialogica tra virtuale e reale, con un ancoraggio esclusivamente antropico. Una avventura estetica in cui si rintracciano – alla base del processo creativo – la logica dell’object trouvé, dell’appropriazione, del collage e l’assemblaggio; filtrate da un approccio che rivela l’influenza più larga di internet e i media digitali come cambio di paradigma. È ciò che l’artista Marisa Olson ha descritto come Postinternet art e che trascende il più scontato uso delle nuove tecnologie per cercare di comprendere, piuttosto, come si sono trasformati i modi in cui si percepisce e sperimenta il mondo e infine, l’esperienza estetica contemporanea.
Abbiamo avuto la possibilità di parlare con Calabrese, e qui riportiamo alcune elucidazioni che riguardano i due progetti presentati a Viasaterna, e il resoconto del suo approccio anti-narrativo
La letteratura di Wallace come fonte di ispirazione sembrerebbe un segno distintivo del tuo fare artistico. Come potresti spiegarci la scelta del titolo The Long Thing per il tuo progetto più recente?
«In realtà “The Long Thing” era una maniera di Wallace per riferirsi a un lavoro che ancora non aveva completato: Il re pallido. Dopo il suo secondo romanzo Infinite jest (1996), quando muore nel 2008, non ne era ancora stato pubblicato un altro, e lui si riferiva a questa stesura come a “The Long Thing”. Dato che avevo preso in prestito il titolo del mio progetto precedente – A Failed Entertainment – e visto che questa è una sorta di secondo capitolo, glielo ho rubato di nuovo. D’altra parte il mio progetto si stava estendendo notevolmente e in più parlavo di “noia” che precisamente allunga la durata delle cose. Tutto sembra distendersi».
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Alessandro Calabrese, Installation view, trita carte
Spesso sottolinei l’approccio anti-narrativo del tuo lavoro. Ci racconti questo aspetto in rapporto alle tue opere?
«L’anti-narrativo mi ha sempre un po’ caratterizzato da quando ho iniziato a interessarmi più di fotografia. Raccontare una storia attraverso immagini – con un inizio e una fine – seguendo i canoni della narrazione tradizionale non mi si addice. Non mi attira analizzare qualcosa di preciso o sviluppare un racconto, non sta dentro l’ambito della mia ricerca. Preferisco abbozzare una idea, un tema…ma per seguire un racconto preferisco un libro oppure un film. La fotografia mi interessa di più dal punto di vista puramente visivo, dell’immagine estatica e non come documentario o reportage. Infatti in The Long Thing ho cercato di dare autonomia a ogni opera, ogni pezzo è a sé. E poi non sempre c’è uno storytelling totale. Lo stesso Wallace scriveva dei racconti e dei romanzi che non finiscono mai, oppure hanno una fine fuori del libro, si interrompono, saltano. È proprio questo aspetto che mi interessa, mettere in crisi lo storytelling più che negarlo».
A proposito del tuo allontanamento della fotografia, il tuo percorso artistico è partito proprio da lì…
«Infatti ultimamente preferisco parlare di immagini più che di fotografia, anche nel rispetto di essa. I lavori a cui ho dato vita in questa mostra sono delle immagini e in effetti ultimamente sono più interessato a l’icona rovinata, distorta, che non si riesce a leggere univocamente. Contrariamente, la fotografia mi mette in difficoltà perché capisco troppo. Vedo la differenza un po’ come un pezzo di giornalismo tradizionale in contrapposizione a un’opera letteraria sperimentale, oppure una poesia».
Quali sono gli elementi cardine del tuo processo creativo?
«In un certo senso il processo dell’ultimo lavoro [The Long Thing] è opposto a quello precedente [The Failed Entertainment]. Se in A Failed Entertainment trattavo l’intrattenimento – qualcosa che di solito è piacevole – con un atteggiamento meccanico e noioso come lo scaricare immagini da internet, stamparli e inserirli nello scanner – un atteggiamento quasi automatico e ripetitivo – nel progetto più recente faccio l’opposto: cerco di parlare di noia con un approccio invece molto creativo, libero e spontaneo, quindi un po’ il processo si rovescia. Il punto di incontro che lega i due lavori è l’uso dello scanner. Dopo averlo usato un po’ di tempo in maniera regolare ho iniziato a giocare e questo processo si è sovrapposto e invertito. In The Long Thing sono partito dall’immaginario dell’ufficio usando sia immagini scaricate da internet sia materiali come carta millimetrata, cartellette colorate, scotch ed elastici, seguendo sempre più o meno lo stesso processo: inserisco questi oggetti nello scanner e spesso li muovo per disturbare la lettura e creare interferenza anche per motivi puramente estetici. Successivamente prima di andare in stampa mi limito ad aumentare la saturazione oppure il contrasto, ma tendenzialmente conservo l’atteggiamento che si tiene più o meno in fotografia, quello che la macchina mi da, lo tengo. Ad esempio per una delle opere in mostra ho utilizzato l’immagine di Wikipedia per la voce “Nastro di Möbius”. Questo concetto diventa molto opportuno per pensare i miei due lavori che si sovrappongono l’uno all’altro fino a diventare uno solo, sono opposti e uguali allo stesso tempo».
Ana Laura Espósito

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