17 gennaio 2019

L’intervista/ Gianfranco Maraniello

 
EPICENTRO NON METROPOLITANO
Obiettivi e desiderata per il futuro, dalla prospettiva di un grande museo italiano e della sua complessa geografia

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Un museo di arte moderna e contemporanea nell’epoca digitale deve valorizzare il proprio patrimonio culturale, e porsi come baluardo per il suo territorio e contesto urbano. E anche: essere locale e globale insieme, diventare “casa di relazioni”, luogo d’incontro in grado di coniugare informazioni con l’intrattenimento senza cedere alla banalizzazione. 
Intervista di inizio anno a Gianfranco Maraniello, direttore del MART di Rovereto, su obiettivi, responsabilità, e doveri di un museo oggi.
Che cos’è il museo nell’epoca digitale e quali servizi, funzioni e obiettivi deve avere?
«In generale direi che possiamo considerare due ambiti: da una parte il digitale permea la vita di tutti e, quindi, anche degli utenti di un museo sollecitando la nostra attenzione verso i temi legati alla promozione, alla mediazione culturale, a tutto ciò che avvicina al museo e facilità la presenza in esso. D’altro canto, però, dobbiamo evitare il riduzionismo alla piattaforma digitale con quegli esiti macroscopicamente constatabili al Louvre quando si osservano braccia protese e telefonini inquadrare La Gioconda, mentre il dipinto non è davvero visibile, ma mera occasione del suo moltiplicarsi in riproduzioni di varia natura. Naturalmente si tratta di un caso limite, ma spesso si dimentica la concretezza dell’esperienza – nel museo è l’incontro con l’opera d’arte – a favore della ricerca di immagini-souvenir e spiegazioni che rischiano di considerare l’arte nei termini delle sue didascalie».
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Gianfranco Baruchello, Giftplanzen, Gefahr! (Piante velenose, Pericolo!), 2009, Courtesy l’artista. Photo Mart, Bianca Lampariello
E quindi quali sono le doti necessarie per un direttore di un museo di arte contemporanea al tempo di instagram?
«Occorre comprendere e interpretare anche le condizioni dell’esperienza che si fa dell’opera d’arte. Il museo è sempre un luogo di mediazione e oggi non si può solo inquadrare storicamente la ragione di un’opera, ma occorre valutare con attenzione il contesto istituzionale, culturale, percettivo. Il digitale contribuisce al trascendentale di ciò che si riconosce come immagine, ma l’arte non si riduce a “immagine” pur intrattenendo con la sua definizione un rapporto speciale e forse inevitabile. Tutto ciò obbliga a un confronto continuo con i responsabili delle varie competenze di un museo. Il direttore deve far dialogare i curatori e chi si occupa di promozione, gli operatori della didattica e gli archivisti affinché non si banalizzi come mero compito esecutivo ciò che invece deve interrogare il senso più profondo delle nostre operazioni quotidiane».
Che bilancio fa dopo tre anni di gestione del Mart: quale visione, innovazioni o integrazioni ha introdotto per valorizzare il dialogo tra arte di ieri e di oggi?
«Ho un mandato che mi impegna per cinque anni. In questo periodo mi interessa creare le premesse per il Mart del futuro. È presto per fare bilanci, ma era necessario partire con un chiaro programma per la riorganizzazione delle collezioni, la riscoperta dei valori dell’architettura, il tentativo di uscire dalla “clausura” per una revisione anche urbanistica e paesaggistica del distretto che coinvolge il museo, ma anche l’Università, la grande biblioteca civica, il museo civico, il teatro dell’opera e le arti dello spettacolo nello straordinario Auditorium Melotti, unitamente alla coerenza dei programmi espositivi. A questa prospettiva culturale e alle iniziative frutto di analisi di contesto e di sostenibilità occorre associare un piano amministrativo che già ha ridotto costi di funzionamento e provveduto a vari adempimenti normativi che costituiscono sempre più una prevalente occupazione nella gestione di uno spazio pubblico».
La sua visione didattica e insieme critica dell’arte contemporanea è stata compresa dai cittadini?
«Chi risponde ai sistemi di rilevazione al museo appare molto soddisfatto e analoghi riscontri li abbiamo nella reputazione “social”. Poi c’è la politica, la critica d’arte, il passaparola, l’ipocrisia, il silenzio, i conflitti di interesse… non saprei. Spero che ci sia dibattito ed espressione di vari punti di vista».
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Ph Mart, Bianca Lampariello
Che importanza ha per lei l’allestimento e il progetto illuminotecnico di una mostra?
«Fondamentale, ma senza una standardizzazione. La mostra di Giuseppe Penone era una radicale apertura delle sale a favore di un incontro tra forma scultorea e vegetale nello spazio senza pareti divisorie e con luce naturale. Poi hanno convissuto Gianfranco Baruchello con il suo organico passaggio dalla luce diurna al buio delle ultime sale come se fosse un giro del giorno nei suoi interminabili mondi, con i paesaggi ottocenteschi di “Viaggio in Italia” puntualmente isolati da faretti perché in quel caso ogni singolo dipinto era un universo concluso nel perimetro della propria cornice. La luce dell’opera e quella del contesto di presentazione non sono fatti accidentali, ma elementi che devono essere compresi in una prospettiva curatoriale».
Come sono state recepite le mostre di autori concettuali complessi mai esposti al Mart prima di lei, come per esempio quella polimorfica di Gianfranco Baruchello?
«In generale direi molto bene, ma occorre riconoscere che spesso si tratta di “scoperte” per quelli che visitano il museo per ritrovare le certezze di altre esposizioni con artisti più noti al pubblico. La ricerca e la sperimentazione necessitano di equilibrio con la testimonianza storica più convenzionale senza banalizzare l’idea stessa di convenzionalità».
Quali sono le caratteristiche del Mart?
«Le principali: un riferimento per il Novecento italiano, un’importante architettura, un’istituzione che integra il paesaggio non solo naturale di uno straordinario territorio».
Non le sembra isolato dal contesto internazionale? 
«Non da un punto di vista culturale, ma non si possono trascurare le difficoltà logistiche e infrastrutturali per raggiungere Rovereto e per permanervi oltre il tempo di visita di una mostra. Su questo dobbiamo lavorare di concerto con i responsabili delle politiche di sviluppo territoriale».
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Nathalie Djurberg e Hans Berg a cura di Lena Essling e Gianfranco Maraniello con Moderna Museet Mart Rovereto, 6 ottobre 2018 – 27 gennaio 2019 Ph Mart, Jacopo Salvi

Al Mart manca un caffè bistrot accattivante e comodo che inviti il pubblico, soprattutto i giovani, a stare al museo anche per studiare o incontrare persone o amici. Quando aprirete un luogo anche da vivere piacevolmente per i roveretani e i turisti? 
«Si tratta proprio di un caso specifico di quanto dicevo prima. Tutto deve concorrere a un’esperienza qualificata e, nel caso del caffè-bistrot, siamo già operativi con una revisione di stile e design che potrà essere constata in poco tempo».
Quali sono gli ingredienti per coniugare cultura, divulgazione e intrattenimento per attrarre un pubblico eterogeneo e internazionale?
«Valutare la mappa dei competitor e trovare la propria specificità. Quando il Mart è stato progettato, la sua architettura era una grande novità e molte città “dormivano”. C’era poca concorrenza e a Rovereto si intercettava un pubblico che veniva da realtà oggi assai più dinamiche e divenute competitive. A Milano, per esempio, non c’erano il Museo del Novecento, la Fondazione Prada, l’Hangar Bicocca, le centinaia di mostre di Palazzo Reale, di Gallerie d’Italia, lo skyline post EXPO, la Triennale rinnovata, mentre la Pinacoteca di Brera versava in condizioni di difficoltà e potrei fare centinaia di altri esempi per il capoluogo lombardo, per Bologna, per Venezia e le città del Veneto o per il Trentino steso che ha visto nascere il Muse attirando un pubblico scolastico che oggi fatica a trovare anche solo le ore del calendario delle lezioni per “uscite” dedicate all’arte. Se il Mart non viene inteso come un elemento strategico per completare la propria offerta in un’esperienza più ampia del territorio non potrà avere buoni risultati in termini di pubblico. Pensare che le mostre siano “salvifiche” significa non vedere il vantaggio di partenza di quei concorrenti che ora operano in grandi città che hanno una più ampia facilità di proposta per il turismo culturale».
Qual è il progetto che le piacerebbe più di altri?
«Fare del Mart l’epicentro di un’azione più ampia in un contesto non metropolitano».
Cosa consiglia a un giovane direttore di un museo?
«Questa domanda mi provoca lo shock di non pensare più a me stesso come a un “giovane direttore”, ma credo che tutti dovrebbero continuare a praticare il proprio lavoro con l’entusiasmo della scoperta e dell’invenzione senza fiducia eccessiva sul già sperimentato».
Jacqueline Ceresoli

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