27 giugno 2019

L’intervista/ Margherita Moscardini

 
PIAZZE PRIVATE, FONTANE E NUOVE IDENTITÀ
Grazie a Collezione Maramotti e municipalità, Reggio Emilia “adotta” un’opera pubblica “fuori dal simbolo”

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Abbiamo intervistato Margherita Moscardini (Donoratico, 1981) in occasione della presentazione della prima scultura pubblica al parco Cervi di Reggio Emilia, all’interno dell’articolato progetto The Fountains of Za’atari. Grazie al sostegno della Collezione Maramotti e alla collaborazione con il Comune della città, il progetto, sviluppato dal 2015 a partire dallo studio dei campi profughi come realtà urbane impermanenti destinate a durare, si “attiva” rivelando elaborati livelli di riflessione e decodifica.
Ti interessano i processi di trasformazione legati ai luoghi e consideri i tuoi stessi interventi come processi di trasformazione. Da antropologa sul campo, donna, artista, straniera di passaggio, com’è andata durante il viaggio/progetto Inventory. The Fountains of Za’atari?
«Ho formulato il progetto nel 2016 con le verifiche di Kilian Kleinschmidt, che come funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) aveva diretto il campo per rifugiati di Za’atari tra il 2013 e il 2014. Lessi una sua intervista in cui insisteva sulla necessità di ripensare i campi come realtà urbane destinate a durare. Il campo di Za’atari ad esempio era talmente una città che era piena di fontane. Immaginai di fare un inventario dei cortili con fontana costruiti dai residenti siriani del campo all’interno delle proprie case. Vendere i modelli a città e istituzioni europee affinché potessero riprodurli in scala 1:1 come sculture all’interno di spazi pubblici pagando le royalties ai progettisti originari e impegnandosi al tempo stesso a trasformarle giuridicamente in spazi con caratteristiche di extraterritorialità, rispondendo alla mia volontà di generare oggetti che come l’alto mare non possono essere sottoposti alla sovranità di alcuno stato. Il primo viaggio in Giordania nel 2017 è stato di osservazione. A Za’atari i visitatori possono restare per poche ore al giorno. Grazie alla giornalista Marta Bellingreri, che aveva già lavorato nel campo, siamo riuscite a entrare in contatto con diversi artisti, costruire relazioni, avere accesso alle case. I cortili con fontana sono stati una scusa per ascoltare».
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Margherita Moscardini Mahallat el-Ghouta 94, Block 8, District 4 2019 marmo / marble 55 x 647 x 420 cm Parco Alcide Cervi, Reggio Emilia Progetto The Fountains of Za’atari, Collezione Maramotti Ph. Andrea Rossetti
Il campo di Za’atari è sia un “luogo antropologico”, principio di senso per coloro che l’abitano, ma è anche un “nonluogo” dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta. Che cosa ne pensi? 
«Za’atari oggi è slum e città di fondazione allo stesso tempo. È nata in Giordania nel 2012 su un’area semidesertica per accogliere i siriani in fuga dalla guerra, e rapidamente da tendopoli è diventata città. Molti residenti hanno progressivamente aggiunto i caravan di cui disponevano attorno ad un vuoto, un cortile, replicando in qualche modo il modello della casa araba. Za’atari è un campo molto conosciuto e, a detta degli esperti, tra quelli che funzionano meglio al mondo. Ci sono infrastrutture all’avanguardia, dal fotovoltaico all’impianto di depurazione delle acque grigie, alla rete idrica in conformità con gli standard nazionali. Sono sperimentati nuovi modelli di distribuzione degli aiuti che hanno permesso la crescita di un’economia interna incredibile, animata da più di tremila attività commerciali. Za’atari è la quarta città più grande della Giordania con circa 80.000 residenti. Ma il suo costruito resta informale perché non deve durare. Invece sanno tutti che i campi durano generazioni intere. Se ripensati per durare, potrebbero non solo diventare terreno di sperimentazione di modalità, modelli, tecnologie; potrebbero anche diventare modelli di un altro modo di intendere la cittadinanza? Svincolati giuridicamente dallo stato nazionale su cui nascono?».
Nel libro di Michel Foucault Utopie Eterotopie si parla della nave come “eterotopia” per eccellenza. Anche le tue fontane “extraterritoriali” sono per me navi. Cosa rappresentano per te?
«Bello che tu le chiami navi. Le sculture che riproducono in scala 1:1 i cortili con fontana di Za’atari sono in effetti degli oggetti, separati dalla terra, e allo stesso tempo degli spazi praticabili che materializzano dei vuoti. Sono sculture-sculture. Da guardare su tutti i lati. Le potremmo sollevare, tenere in piedi come una lama, ribaltare, lanciare. I cortili con fontana parlano del bisogno di chi vive l’esilio di sentirsi a casa. Sono per lo più fatti di cemento, che è in cima alla lista di materiali “della permanenza” che nel campo è vietato introdurre. Il cortile con fontana è un elemento centrale nella tradizione architettonica della casa araba. È una specie di piazza privata dove la famiglia si riunisce assieme agli ospiti, attorno alla fontana con l’acqua in movimento. In Europa invece la fontana è per lo più pubblica e monumentale. Così, ricostruire in spazi pubblici europei i modelli di cortile con fontana per me significa meccanicamente trasformare la condizione privata del singolo che li ha costruiti, in una questione pubblica e materializzare la visione di cittadinanza di Giorgio Agamben. Una città in cui i cittadini possano condividere la condizione di esuli. Si può parlare di un oggetto senza diritti e senza cittadinanza? Una Europa topologicamente perforata può iniziare da alcune sculture? I cortili come pietre di fondazione di un altro paradigma politico?». 
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Margherita Moscardini The Fountains of Za’atari Veduta di mostra / Exhibition view Collezione Maramotti, 2019 Ph. Andrea Rossetti
Alcuni tuoi progetti sono rimasti nel territorio della simulazione/sperimentazione. Con The Fountains of Za’atari, l’idea iniziale ha assunto dimensione, scala, potenza e qualità giuridica. Cosa c’è per te in questo intervallo? 
«In questo intervallo c’è un lavoro continuo di aggiornamento e di divulgazione, attraverso workshops, lezioni e conferenze nelle università e nei musei. In realtà The Fountains of Za’atari è stato realizzato negli anni senza allontanarsi dalla formulazione originale. C’erano moltissime variabili che potevano costringermi a delle modifiche, ed ero pronta ad affrontarle. Invece nel tempo ho trovato conferme, interlocutori e sostenitori speciali che lo hanno concretizzato. Prima, la Fondazione Pastificio Cerere di Roma, con cui è stata svolta la fase di ricerca e la produzione del primo prototipo di cortile in scala 1:1, adesso parte della collezione del Museo MADRE di Napoli. In questo ultimo anno invece, la Collezione Maramotti di Reggio Emilia ha reso possibile la completa attivazione del progetto come dispositivo, sostenendo la ricerca giuridica, la produzione del libro (strumento commerciale, giuridico e teorico che uscirà a breve) e, in collaborazione con la Città di Reggio Emilia, ha reso possibile la costruzione della prima scultura, inaugurata il 13 aprile scorso all’interno del Parco Cervi».  
Parliamo infine del display scelto per la produzione di questa mostra. È questo “schema” che agisce con forza dentro il presente?
«Nella mostra The Fountains of Za’atari alla Collezione Maramotti per la prima volta metto a disposizione i documenti originali, i miei strumenti di lavoro, i miei libri, perché volevo fosse chiaro che non ci troviamo dentro un’indagine che si è esaurita con una mostra, piuttosto dentro un dispositivo che con questa mostra si è attivato in tutte le sue parti. La mostra è una show room. 
Grazie a Collezione Maramotti tra qualche mese uscirà un libro, il cuore del progetto, in cui tutto questo sarà raccolto e offerto per la divulgazione. Quello che spero possa “agire con forza dentro il presente” è un lavoro che utilizza delle convenzioni (la mostra, il libro, il sistema di diffusione e acquisizione attraverso canali pubblici e privati) che senza uscire dall’ambito delle arti diventano strumenti a disposizione della realtà urbana del campo. Le sculture diffuse in Europa, diventando oggetti con speciale qualità giuridica, agiscono sul territorio nazionale come spazi che prendono le distanze dalla sovranità territoriale. Con decisione fuori dal simbolo». 
Petra Chiodi

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