23 febbraio 2004

Lucio e l’arte

 
“Non mi sento mai concluso”, dice Lucio Dalla. Sembra sia vero vista la sua avventura con la No Code, galleria d’arte polifunzionale che ha chiuso i battenti, è pronta a riaprire. Il concetto di mutazione è alla base del suo lavoro. Lo abbiamo incontrato a Torino, durante la presentazione della sua Tosca, spettacolo in cui la lirica svecchia nella canzone leggera e la messa in scena ottocentesca lascia il posto a Matrix e costumi firmati Armani. Per parlare di arte naturalmente…

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Come è iniziato il suo rapporto con l’arte?
Scoprii l’espressionismo tedesco che ero ancora un ragazzino. Mi colpì la deformazione dei personaggi a servizio di un discorso in cui l’ideologia era dominante rispetto ad altre situazioni artistiche, anche se credo che a dominare sia sempre, in fondo, quello che pensa l’artista e la sua visione della società. Passando il tempo, il mio modo di vedere le cose si è sempre più connesso con il mondo dell’arte.

E il rapporto con gli aritsti?
Oggi sono amico di molti artisti. Il mio vecchio studio di registrazione, la Fonoprint, dove incidevamo io, Vasco Rossi, Carboni, Zucchero, gli Stadio e altri si è spostato, liberando uno spazio che ho voluto mantenere legato alla sua storia di luogo della creazione, dove quindi permanesse un’elaborazione artistica della realtà. Da qui è nata la galleria No Code. Attualmente è chiusa, ma presto riprenderà la sua attività sempre negli stessi spazi.

Per diventare gallerista è passato attraverso il collezionismo o è una passione nata improvvisamente?lucio dalla
Non sono mai stato un gallerista tipico. Molti amici artisti mi fanno dono di loro lavori, come per esempio Paladino, o Mondino che saluto se dovesse leggere questa intervista: ho molte sue opere. Io ho vissuto l’arte e non mi definisco un collezionista perché non mi piace acquistare per possedere. Preferisco dare spazio agli artisti giovani e poi acquistare loro opere per condividere il loro modo di leggere il nostro tempo. Poi dopo, ho anche scoperto di aver fatto degli affari. Adolescente, andavo in Germania e comperavo le opere degli espressionisti per niente. Lo facevo perché mi piacevano, senza pensare all’affare. Sono come uno che va a vedere la partita di calcio perché si diverte e non perché vuole entrare nella società.

Cosa le piace di più del panorama artistico italiano di oggi?
Con la No Code abbiamo fatto mostre importanti di artisti già affermati come Ontani o di più giovani come lo straordinario torinese Galliano, che seguo da dodici anni. Mi piace osservare le evoluzioni degli artisti. Pintaldi e Cannavacciuolo mi piacciono moltissimo. Poi ci sono gli artisti napoletani. Però non è un lavoro per me, non ne avrei il tempo tra questa Tosca, il mio disco e il corso di tecnica e linguaggio della pubblicità a Urbino…

Perché la pubblicità?
In realtà si tratta di un laboratorio. Non voglio insegnare a diventare pubblicitari, voglio dire che fare i pubblicitari è una grande responsabilità, quindi vorrei che fosse fatto con qualità e per questo chiamo grandi comunicatori di oggi perché diano la propria testimonianza. Spesso invito Toscani o Mollica. Oggi la comunicazione vuol dire tutto, è il contenitore più vasto indefinito e indefinibile, che penso abbia già superato le intuizioni, giuste, di grandi pensatori come Baudrillard e Mac Luhan.

Lei sta portando in tournée la Tosca, crede che l’arte dell’Ottocento abbia ancora qualcosa da dire ai giorni nostri?
Prima dell’unità d’Italia Roma era la città più importante del mondo per l’arte, e credo abbia influenze anche nel contemporaneo.

Come vede il salto Duchamp?
Non lo vedo, o meglio, la mutazione lo giustifica come ogni altro cambiamento. Duchamp è stato maestro in questo.

nicola angerame

[exibart]

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