22 novembre 2010

MARTIN GIOCA DI PUNTA

 
Punta come Punta della Dogana, l’importantissimo spazio (forse oggi il più bel centro d’arte contemporanea d’Italia, assieme al Maxxi) che col più classico Palazzo Grassi costituisce l’offerta della François Pinault Foundation, di cui Martin Bethenod è amministratore delegato dallo scorso giugno...

di

Com’è nato il suo
incarico? Che tipo di rapporto esisteva con Pinault?

La proposta di assumere l’incarico di amministratore delegato di
Palazzo Grassi con compiti di direzione di Palazzo Grassi e del centro d’arte
contemporanea di Punta della Dogana – François Pinault Foundation è arrivata in
aprile. Conoscevo un po’ Pinault per averlo più volte incontrato nel corso
degli anni nelle diverse occasioni derivanti dai miei incarichi, al Ministero
della Cultura prima e alla Fiac poi, e i nostri rapporti sono sempre stati
limitati all’ambito di lavoro. La proposta di assumere la responsabilità dei
due luoghi espositivi a Venezia, il legame con quella che è oggi probabilmente
la più grande collezione d’arte contemporanea al mondo, mi è parsa naturalmente
subito un’avvincente avventura professionale e personale, che implica un
profondo cambiamento di vita.

Ci ha pensato? Ha detto
subito sì?

La riflessione c’è stata ma si è svolta piuttosto rapidamente: a maggio
è stato dato l’annuncio e il primo di giugno ho assunto l’incarico a Palazzo
Grassi, stabilendomi a Venezia.

Esistono ancora delle
polemiche, in Francia, per il grande investimento che un industriale francese
ha fatto in Italia? Palazzo Grassi/Punta della Dogana sono oggi visti oltralpe
come grandi centri culturali francesi all’estero o come i milioni sprecati di
un francese che avrebbe dovuto investire in patria?

Se da una parte è vero che l’apertura nel 2006 di Palazzo Grassi da
parte di François Pinault è stata vissuta in Francia come un’occasione mancata,
è anche vero che oggi esiste una sorta di abitudine, che aumenta di anno in
anno, a grandi operazioni culturali che valicano le frontiere. Non è
infrequente assistere in Francia all’apertura di una fondazione americana, o
svizzera, o canadese, così come i francesi hanno visto negli ultimi anni grandi
aperture in luoghi lontani: all’estero, come il Louvre ad Abu Dhabi, o anche solo
fuori dalla capitale, come il recentissimo Centre Pompidou a Metz, in Lorena.

Una Francia culturalmente
meno sciovinista. Meno parigicentrica?

Sì. Queste iniziative sono sempre meno viste in una chiave strettamente
locale e nazionalista e si fa strada invece l’idea che anche la cultura oggi si
giochi su una dimensione europea e internazionale.

Cosa significa gestire un
contenitore di prestigio come quello che è stato chiamato a dirigere, oggi, in
una città d’arte come Venezia, con la tipologia di pubblico che ha la città?

Aprire la collezione alla diversità dei punti di vista e aprire
l’istituzione alla diversità dei pubblici: questo, se vogliamo, è il cuore
della responsabilità del mio incarico. Credo che Venezia non abbia una
tipologia unica di pubblico, ma che sia la
sommatoria di diverse tipologie. Venezia è una città studentesca importante,
con due grandi università, un’Accademia delle Belle Arti, oltre a una serie di
istituzioni scolastiche di specialità. Esiste poi la dimensione locale della città,
con la popolazione residente, nel centro storico ma anche in terraferma.
Inoltre, Venezia è naturalmente anche una piattaforma di visibilità
internazionale e da questa sua capacità attrattiva originano flussi enormi di
turisti e di pubblico. Infine, Venezia è anche uno dei luoghi nel mondo dove
con regolarità il pubblico più informato ed esigente si ritrova. Dunque è a
tutte queste tipologie che Palazzo Grassi e Punta della Dogana si rivolgono, e
l’impegno di un’istituzione culturale legata alla contemporaneità non può
ritenersi completo se non in una logica di investimento verso i pubblici di
domani.

Senza dubbio ci sono
stati degli errori, fino ad oggi, nel governo di Palazzo Grassi. Quali sono
quelli che intende correggere fin da subito?

Le lascio formulare il giudizio, ma non posso proseguire su questo
ragionamento. Senz’altro non sono stato chiamato per criticare il passato. Mi è
stato chiesto di sviluppare un progetto ed è ciò che deve ancora succedere quel
che a me interessa. Immaginare e costruire il futuro di questa istituzione.

Ha diretto una fiera
d’arte (la Fiac), ha lavorato presso il Ministero della Cultura, è il direttore
artistico della prossima Nuit Blanche. Si considera più un direttore di museo
in senso stretto o pensa a sé come un manager culturale?

Un direttore di museo oggi deve anche essere un manager culturale e
dietro a questa frase c’è tutta l’urgenza dell’attualità. Abbiamo oggi il
dovere di costruire risposte nuove: se vogliamo che la cultura resti
protagonista dobbiamo ragionare da protagonisti, partecipando al dibattito,
inserendo la nostra identità in un dialogo alla pari con il mondo e le sue
dinamiche. La mia storia professionale mi ha visto operare all’interno di
istituzioni museali e come manager in ambito culturale. Quello che farò qui
sarà mettere a disposizione la duplicità delle mie competenze al servizio del
progetto.

Pinault è stato accolto a
Venezia come un nuovo doge. Come colui che doveva rilanciare una città che è
internazionale solo durante le Biennali. E invece, una volta aperto il museo,
ha dichiarato la sua intenzione di fare una mostra ogni… due anni. Con lei
questi ritmi cambieranno?

Temo di dovere contraddire questa affermazione, perché non mi risulta
che François Pinault abbia mai dichiarato di voler fare una mostra ogni due
anni. Anzi. A me ha chiesto proprio di riflettere sul ritmo da dare ai due
luoghi – Palazzo Grassi e Punta della Dogana – in materia di presentazione
della collezione e di progetti espositivi. Per i prossimi mesi l’impegno è volto
proprio a costruire una programmazione che sappia articolare tra loro le
diverse necessità dell’istituzione: da una parte la lunga durata necessaria a
una vita artistica di profondità, funzionale a quel lavoro di costruzione e
formazione dei pubblici di domani e che è intimamente legata alla natura di una
collezione, funzione non solo della sensibilità del collezionista, ma anche del
tempo; dall’altra un’attività espositiva e culturale a rotazione più rapida,
che permetta di offrire al visitatori punti di vista diversificati e che tenga
desta l’attenzione del pubblico. Mia convinzione è che si debba prestare
attenzione a non cedere al fascino dell’effimero, della comunicazione, della
spettacolarizzazione dell’evento. Bisogna ricordarsi che la profondità di una
proposta ha assolutamente bisogno di una durata adeguata.

Lei è al comando della
macchina da poche settimane. Cosa ha trovato, quali sono le prime impressioni?

La grande soddisfazione è stata di trovare, al mio arrivo, uno staff
molto motivato e una “macchina” che funziona a pieno regime: da quando sono
arrivato, in poche settimane abbiamo avuto una grande quantità di appuntamenti
di alto livello, tutti aperti gratuitamente al pubblico. Tra questi, quattro
conferenze per il ciclo L’Opera Parla,
iniziativa realizzata con il comitato scientifico di Punta della Dogana in
collaborazione con gli atenei veneziani Iuav e Ca’ Foscari e all’Accademia di
Belle Arti, culminate con l’incontro con Takashi Murakami, che per la prima
volta ha incontrato il pubblico in Europa. L’incontro con Francesco Bonami, per
il ciclo Storie dell’Arte, il quinto
di una serie inaugurata con Umberto Eco e altri ancora. In totale, oltre dieci
appuntamenti in meno di sei settimane, ognuno dei quali ha registrato il “tutto
esaurito” in termini di disponibilità di posti. Siamo molto fieri.

Quali margini di manovra
ha in funzione del suo incarico?

Secondo la mia esperienza, l’ampiezza del raggio d’azione non è
definita aprioristicamente. Credo che all’inizio di un percorso ciò che si affida
sia una responsabilità e che i margini entro cui muoversi, per dare contenuto e
risposte al mandato, debbano essere conquistati. Gli spazi si costruiscono.

A proposito di Biennale,
quale tipo di rapporto intende costruire con questa grande istituzione? E con
le altre realtà? Ha già avuto colloqui con i musei, con le fondazioni
(Bevilacqua, Querini, Vedova, Cini…) e con il Guggenheim? Sa delinearci
qualche linea guida in questo senso? Qualche progetto in probabile partenza?

Dal mio arrivo a Venezia mi sono subito impegnato in questa direzione.
Ciò che stiamo facendo ora è lavorare alla costruzione di un metodo, base
necessaria per una progettualità reale e fattiva, e questo comporta anzitutto
la necessità di dialogare personalmente con i protagonisti della vita culturale
della città e del territorio: istituzioni culturali, musei, fondazioni, che ho
già tutti incontrato anche a più riprese, e a questi bisogna aggiungere le
università, i teatri, gli istituti di cultura, come i nostri amici armeni, che
a Venezia realizzano un’eccellente programmazione di attività, e certamente
anche la Biennale. Questa volontà di dialogo non riguarda soltanto l’ambito
veneziano ma il mondo artistico e culturale in Italia, con Milano, Torino,
Roma, per citare solo le maggiori, senza dimenticare le grandi istituzioni
internazionali che sono gli interlocutori naturali di Palazzo Grassi. Oggi
un’istituzione culturale non può essere un’isola, ma la sua strategia di
sviluppo deve passare attraverso la costruzione di una rete, estesa e
capillare.

Ha intenzione di
modificare lo staff del Palazzo per avvicinarlo alle sue esigenze? In
particolare Palazzo Grassi e Punta della Dogana si doteranno di un team più
strettamente curatoriale? La Fondazione Pinault pensa, insomma, anche a un
direttore artistico?

Il principio di coinvolgimento di differenti curatori su progetti
diversi mi pare davvero un buon principio, in grado di assicurare una visione
ampia e complessiva, punti di riferimento e osservazione sempre diversi. È la
prassi seguita dalle Biennali, non a caso, ma è anche molto diffusa presso le
istituzioni culturali permanenti: in Italia dal Castello di Rivoli, per
esempio, o all’estero, dalla Fondazione Beyeler in Svizzera o dal Palais de
Tokyo, dal Plateau o dalla Maison Rouge a Parigi…

Per tradizione Palazzo
Grassi appartiene a grandi capitani d’industria. Per vent’anni Gianni Agnelli,
ora François Pinault. Come vive questa condizione particolare rispetto a una
normalità che vede un dirigente come lei interagire essenzialmente con
pubbliche amministrazioni?

Oggi le istituzioni pubbliche sono chiamate a muoversi quasi come
istituzioni culturali private. La necessità di reperire fondi e risorse esterne
aggiuntive ha fatto sì che il mondo della cultura si sia progressivamente avvicinato
a quello delle imprese. E il mondo dell’impresa sta imparando a conoscere i
numerosi benefici che derivano dall’accostarsi a realtà tanto lontane dal cuore
del loro business. Si realizza, nelle realtà più avanzate, uno scambio non solo
economico, ma anche di culture. Un certo numero di fondazioni, nate invece come
emanazione di un desiderio privato, si sono viste riconoscere una legittimità
intellettuale e artistica pari a quella di musei nazionali. In Italia, ad
esempio, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino e la Fondazione
Trussardi a Milano, all’estero lo Schaulager a Münchenstein
o la Fondation Cartier a Parigi: sono attori riconosciuti a livello internazionale
come protagonisti di un percorso di crescita e sviluppo della cultura
contemporanea.

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the Studio a Venezia

a cura di massimiliano tonelli

*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 68. Te l’eri perso?
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Info: www.palazzograssi.it

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