18 luglio 2001

Razmataz! I dipinti di Paolo Conte

 
Il noto cantautore presenta le sue opere nell’ultimo spettacolo da lui ideato: Razmataz! Nel racconto di Silvio Saura le suggestioni scaturite dalla tappa veneziana della kermesse...

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“Razmataz!” – chiama Paolo Conte. E attende la risposta per 30 anni. Finalmente arriva, Razmataz si concede. Ha aspettato il momento giusto, gli ha fatto “ballare un po’ di tutto, sui sentieri dei grammofoni, sai”; ha voluto che esplorasse tutte le strade possibili prima di condurlo a lei. La rincorre da sempre. Ha attraversato molte immagini e molte donne prima di arrivare. Paolo Conte. DVD Razmataz L’ha cercata tra le rovine del Mocambo e i vicoli di Genova, l’ha aspettata nelle giornate “appiccicose di caucciù” e durante quelle calde estive, quando lei scappava “per le spiagge”. E l’ha trovata fra i 1.800 disegni che formano, oggi, il corpus scenografico dell’omonimo spettacolo. La sua Razmataz ha avuto storie diverse, sguardi, drammi, vite e amori diversi. Molte Razmataz hanno danzato per lui. E l’applauso è arrivato sempre “puntuale a render grazie a quell’arte”. È stata via via la “moglie di Angiolino, tutta bella e tutta bionda”, ha battuto a macchina parole d’amore, è stata un Diavolo rosso che ha invitato a bere un’aranciata. Ah, che rebus! Aspettare il freddo? Sì, perché “d’inverno è meglio. La donna è tutta più segreta e bianca, afghana, algebrica e pensosa”. Vorrei essere donna per qualche minuto, capire che cosa si prova a essere celebrati a questo modo; da uomo provo una sana invidia perché vorrei avere scritto io quelle parole per la mia donna.
Razmataz è uno spettacolo che vola via, “vola via come una nostalgia”; non una canzone o un disco, ma un vero spettacolo. Ci ha messo 30 anni, dicevo, per realizzarlo. E nella sua modestia dice che doveva trovare un alibi (questo spettacolo, appunto) per esporre i propri dipinti. Come per le canzoni: dice di pensare a grandi interpreti quando le scrive e poi doversi “accontentare” di sé.
Inserisce elementi dell’avanspettacolo e del cabaret, si defila un po’, quasi un novello Duke Ellington, concede tempo alle vocalist, inserendo dialoghi, illustrazioni, monologhi, cori gospel. E diventa la sua Razmataz.
Non aspettatevi un disco semplice, con il ritornello da canticchiare in bicicletta. È un lavoro, questo, che comprende le sue passioni: la musica e la pittura e le suggestioni che gli sono care; la Parigi fumosa degli anni ’20 e la negritudine opulenta delle cantanti jazz che si appoggiano sensuali al pianoforte e quella aggressiva e selvatica dei giovani pugili.
Qui Paolo Conte ha cercato e trovato una reale contaminazione tra le arti, associandole in un modo che di tradizionale ha ben poco. L’evento non è statico, ma pulsa, vive e si muove in tutto il mondo. Ha una forma che si adatta alle esigenze dei luoghi che va a incontrare, e da questi riceve ulteriori input che porterà con sé modificandosi. Ha preparato quattro versioni: inglese, francese, spagnola, italiana. Ognuna diversa dall’altra per la lingua e impreziosita dalla presenza di ospiti illustri (quella francese con Annie Girardot, l’inglese con l’attrice Judith Malina). Ma per tutte la stessa scenografia. La presenza delle arti visive in questo progetto non ha bisogno di traduzioni: sono le suggestioni e le illusioni musicali a legare le immagini della memoria ai lavori pittorici. Mi sembra realmente di essere a Parigi negli anni ’20, di assistere all’incontro tra la vecchia Europa e la musica nera da cui scaturisce tutta la forza delle avanguardie storiche cui è indubbiamente legato.
Tutti questi linguaggi coesistono in modo equilibrato saldamente incollati dalla personalità di Conte che è, poi, la vera essenza dello show. Anche se sono in Piazza San Marco, a Venezia, e dal fondo si staglia l’installazione di Plessi, mi sento molto vicino a quella Parigi; sarà anche per le donne che vedo tra il pubblico, che portano con eleganza francese abiti degli anni ’30, fumano col lungo bocchino di avorio e la leggera nebbiolina che mi avvolge. Forse mi sono abbandonato troppo dalle “dolcezze dell’Harry’s Bar”, ma qui, “sotto le stelle del jazz” si sta così bene.

Silvio Saura

[exibart]

3 Commenti

  1. A zio Paolo lo adoro. E’ per me quel che c’é di meglio in fatto di musica. E’ con essa che egli crea la più bella pittura accompagnandomi in un altra realtà. Una realtà immaginaria. E non mi dispiacciono i suoi dipinti, basta che sia consapevole d’essere un grande musicista che si diletta a dipingere. Non pe questo quindi deve essere messa al pari dell’arte di cui eccelle. Ma un altrra cosa voglio dire…Sconsiglio vivamente di vedere il filmato di Razmataz. E’ di una noia mortale. E la storia é purtroppo sin troppo banale.

  2. Figura interessante quella di Paolo Conte uomo e mi prende il suo modo di sentire di artista. La sua Razmataz l’ha cercata tra le rovine di Mocambo e i vicoli di Genova, molte Razmataz hanno danzato per lui. La musica e la pittura e le suggestioni che gli sono care, hanno dato vita ai suoi dipinti. Presentazione molto bella di Silvio Saura.

  3. E’ tutto vero ciò che avete scritto! Sono appena tornata da Perugia, dove, nell’ambito di Umbria Jazz, ho potuto ascoltare dal vivo il grande Paolo, nonchè visitare la mostra dei suoi disegni. E’ stato bellissimo e molto emozionante. Meno male che esistono persone come lui!

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