30 novembre 2010

SEMPRE PIÙ IN ALTO

 
Continuano i successi di Massimiliano Gioni. Giovane, bello e tutt’altro che dannato. Che adesso lavora, fra le mille altre cose, alla programmazione del New Museum di New York. Ne abbiamo parlato col diretto interessato. E abbiamo colto l’occasione per spaziare un poco, dalla moda alla politica...

di

Sei il più
giovane curatore italiano che sale così in alto a New York. Come ti senti e che
significato ha per te questa promozione a direttore associato e direttore delle
mostre del New Museum?

Al momento in realtà la promozione più che
altro mi mette un poco di ansia perché la programmazione è tutta da inventare,
già a partire dalla prossima estate. Quindi le possibilità sono davvero
infinite.

E a cosa stai
pensando?

Invece di pensare a mostre o artisti sto
pensando a formati, serie e situazioni; insomma, a impostare l’ossatura sulla
quale poi innestare le mostre vere e proprie. Di sicuro mi piacerebbe che il
New Museum trovasse un equilibrio tra il mostrare il lavoro dei grandi artisti
di oggi e di domani accanto a opere e lavori di artisti del passato
ingiustamente dimenticati. Vorrei che fosse un luogo in cui il New, il nuovo del suo nome, si
arricchisse di diverse sfumature e tonalità.

Il New Museum
sta cambiando le sorti del LES – Lower East Side, da quartiere degradato
attorno alla Bowery a nuova zona d’arte. Che ruolo vorrai dare al museo? Cos’hai
in mente di cambiare, innovare e continuare?

Il New Museum si inserisce in un
cambiamento del Lower East Side che coinvolge molti altri attori e
protagonisti, dalle gallerie alle boutique, passando per ristoranti e centri
commerciali neo-yuppie. In realtà credo che, da un punto di vista urbanistico,
il ruolo più importante del New Museum sia proprio quello di mantenere vivo il
tessuto culturale del LES: quando i quartieri si trasformano a NY, di solito
diventano semplicemente centri commerciali a cielo aperto (vedi Soho o Nolita).
Il New Museum, invece, insieme alle gallerie che gli sono cresciute attorno, ha
la responsabilità di mantenere alto il tasso di cultura e di arte in un
quartiere la cui storia è strettamente legata a quella dell’arte contemporanea.
Dal settimo piano del museo basta guardarsi attorno per vedere gli edifici in
cui avevano il proprio studio Jasper Johns e Robert Rauschenberg, William
Burroughs o Lynda Benglis, Basquiat e tanti altri.

Beatrice Trussardi e Massimiliano Gioni - photo Julian Haergraves
La Fondazione
Trussardi è stata per te un importante trampolino. Come continuerà la tua collaborazione
con la fondazione e come reputi il rapporto fra arte e moda?

Naturalmente continuerò a lavorare per la
fondazione come ho fatto in questi anni. La Fondazione Trussardi è davvero una
realtà unica per flessibilità e professionalità: le nostre mostre sono sempre
grandi sforzi logistici e produttivi che credo si possano realizzare solo con
un team come quello della fondazione e con un presidente come Beatrice
Trussardi, che è aperta a produrre e sostenere i progetti più inusuali. Quindi
davvero non penserei mai di lasciare la fondazione, perché è un laboratorio
straordinario, ormai riconosciuto e apprezzato da artisti e professionisti in
tutto il mondo. In realtà da gennaio prossimo partono i festeggiamenti del centenario
del marchio Trussardi e la fondazione giocherà un ruolo importante in una
grande mostra a Firenze, ospitata da Pitti Immagine.

Quanto al
rapporto arte/moda?

Non posso che parlarne bene, perché grazie
alle risorse della moda abbiamo realizzato mostre e progetti assai complessi. Il
problema non è la relazione arte/moda di per sé: tutto dipende da quale idea di
mecenatismo le case di moda vogliono intraprendere. Beatrice Trussardi e il
marchio Trussardi non credono nelle contaminazioni anni ‘80, con gli artisti a
fare gli stilisti, forse proprio perché già le praticavano allora. Trussardi è
interessato invece a un’idea di eccellenza e cultura: si tratta di sostenere
l’arte migliore con le mostre più ambiziose e anche le più strane, nella
convinzione che un marchio di moda importante abbia la responsabilità e
l’intelligenza di sostenere l’eccellenza e la qualità in ogni campo, nella moda
come nell’arte, nel design o, più di recente, nella cucina di avanguardia.

Michele Luppi - Il Ponte dei sospiri a Venezia - 2010 - photo Michele Luppi/Canon Club ItaliaLe città
italiane vivono momenti difficili. Venezia, e non solo, è invasa dalle
gigantografie pubblicitarie che stanno spaccando l’Italia della cultura fra
realisti (servono soldi) e gli idealisti (la bellezza non si tocca). Dal tuo
osservatorio newyorchese come giudichi la questione?

Forse NY è il luogo più sbagliato per
riflettere su questi argomenti perché Times Square ha innalzato la pubblicità
al livello di fenomeno sociale e culturale, facendone un elemento fondamentale
della nostra esperienza urbana: in fondo la Pop Art discende da Times Square,
dal bisogno di imparare a digerire proprio quelle immagini così presenti e
invadenti. Io poi non sono un nostalgico e credo si possano e si debbano
trovare modi creativi e dignitosi per convivere anche con gli esempi più
eccessivi della nostra cultura visiva. L’antidoto peraltro è molto semplice:
alle gigantografie pubblicitarie bisogna rispondere con l’arte, abituando il
pubblico a conoscere e vivere con immagini altrettanto aggressive e frontali,
ma assai più complesse e stratificate.

È una questione
di ruolo…

L’arte contemporanea è il linguaggio che
meglio può insegnarci a interpretare e rifiutare la semplicità e la
mono-dimensionalità del linguaggio pubblicitario. È proprio per questo che non
c’è cosa che mi faccia più rabbia di chi è pronto a parlar male di arte
contemporanea, e a rifiutare magari progetti anche provocatori, salvo poi non
dir nulla rispetto alle migliaia di immagini che ogni giorno rincitrulliscono
gli abitanti delle nostre città. Per fare ancora l’esempio di Cattelan, com’è
possibile che un poster con un’opera d’arte come il suo Hitler non possa essere
affisso a Milano, quando ovunque ti giri ci sono gigantografie di minorenni
anoressiche, o comunque postumane, che simulano amplessi e scambiano sguardi
infuocati con modelli dal fisico da calciatore dopato? Perché la deformità al Photoshop
di un corpo femminile in acrobatiche pose con le quali esibire mutanda,
inguine, coscia, borsa, braccialetto e scarpa col tacco, sono più accettabili
della fotografia di una scultura miniaturizzata in ginocchio e a mani giunte?
La religione qui non c’entra niente in realtà, perché allo stesso modo
cristiani, musulmani ed ebrei dovrebbero condividere il rispetto per la
donna…

A Torino
Bellini e Merz stanno impostando il Castello di Rivoli come il PS1 di New York:
più giovane, aperto al pubblico, friendly e ricco di eventi. Pensi che New York
sia ancora il modello da seguire? La città resterà il centro mondiale dell’arte
contemporanea?

New York è ancora il centro del mercato
dell’arte: un signore di nome Philippe Segalot ha appena messo all’asta arte
per 80 milioni di dollari, che non è neanche una cifra record, ma che equivale
al budget che il Comune di NY destina alla cultura… Questo dà subito un’idea
dei pesi e delle misure che si mettono in campo in quella città. Detto questo,
è ormai chiaro che il mondo dell’arte è assai più internazionale e complesso.
Hong Kong è già destinata a diventare la Basilea d’Oriente, con una fiera in
netta crescita. L’Asia è sempre più presente e – per restare nell’ambito del
mercato – Gagosian ha già un ufficio a Hong Kong e progetta di aprirvi uno
spazio.Sono di ritorno da Londra e l’aspetto
sempre più sorprendente è vedere come ormai le città più importanti al mondo
abbiano capito che il futuro è multiculturale, mentre da noi siamo ancora a
parlare di regioni e campanili.

Urs Fischer - Jet Set Lady - courtesy Fondazione Trussardi, MilanoPensi che la
produzione e la fruizione dell’arte di domani si avvarrà di nuovi strumenti,
spazi, e pratiche curatoriali?

Non sono solito fare profezie. Certo è che
i collettivi e i gruppi ci sono sempre stati. Forse ora hanno una nuova forza
perché le informazioni sono semplicemente troppe per essere gestite da una sola
persona.

In Italia si
fanno i musei e poi non ci sono i soldi per mandarli avanti…

In Italia non esiste la tradizione dei
trustee e delle donazioni. Ci sono naturalmente ragioni fiscali e anche
storiche, ma forse quello è l’elemento sul quale c’è molto da fare. Non
dimentichiamoci che tanti musei americani operano ed esistono grazie a ingenti
donazioni di privati. Penso che a noi ancora manchi la cognizione dell’arte
come bene comune.

Quali
differenze sostanziali intravedi nel rapporto fra la politica e l’arte presenti
nelle due realtà, statunitense e italiana?

È un discorso assai lungo e in gran parte
noioso. Ma ti posso dire che a NY non ho mai incontrato un politico o un
funzionario, se non quando sono venuti alle inaugurazioni o a visitare le
mostre. La città di NY ha donato circa 10 milioni di dollari al New Museum come
parte del pacchetto-stimolo per il rilancio di Lower Manhattan. In cambio hanno
solo preteso che facessimo il nostro lavoro bene, anzi al meglio: ovvero,
riconosciuta la professionalità di un’istituzione, la si sostiene, magari si fa
anche un bel contratto perché si rispettino tempi e tutte le norme di
sicurezza, ma nessuno è venuto a chiedere nulla, neanche di mettere il nome del
sindaco Bloomberg sull’invito. Anzi, Bloomberg è venuto pure a ringraziare il
museo…

Esporrai arte
italiana contemporanea al New Museum?

Certo, anche se non mi piace scegliere gli
artisti in base alla nazionalità. Dico sempre che non chiedo mai il passaporto
a un artista prima di decidere di esporre la sua opera. Al New Museum tra gli
italiani sono già passati Micol Assael, Alighiero Boetti, Maurizio Cattelan,
Roberto Cuoghi, Diego Perrone, e di sicuro ne passeranno tanti altri.
L’importante è che le loro opere non siano semplicemente italiane e siano
all’altezza di un confronto internazionale.

Andrea Slominiski - The Wrong Galley door - 2004 - cm 38x17 - ed. di 500 - courtesy l'artista & Produzentengalerie, Amburgo
Con Maurizio
Cattelan e Ali Subotnick hai fatto molte cose: curato la Biennale di Berlino
nel 2006, creato la rivista Charley e
fondato la Wrong Gallery, ora alla Tate Modern di Londra come opera d’arte e
riprodotta come multiplo in vendita nella gallerie di New York. Quanto c’è in
te di “artista” e cosa pensi del rapporto tra il curatore e l’artista?

Non c’è niente di artista in me,
anche se forse sono un poco insofferente alla burocrazia e alle regole non
necessarie. Il rapporto artista/curatore poi è un argomento che richiederebbe
un’intera intervista a parte. A me piace pensare che il curatore debba
soprattutto dedicarsi all’opera, non all’artista: l’artista è il tramite per
raggiungere l’opera, ed è su quella che si deve concentrare l’attenzione del
curatore, dell’istituzione e del pubblico. Di solito gli artisti apprezzano
quando avvertono questa tensione all’opera, alla sua realizzazione e
presentazione.

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a cura di nicola
davide angerame

[exibart]

 

27 Commenti

  1. Le cose che dice Gioni sono reali e urgenti, il sistema dell’arte in italia potrebbe avere un potenziale più ampio ed evoluto se il sistema stesso fosse più dinamico e meno autoreferenziale.

    Chissà se prima o poi anziché esportare importeremo idee e capacità da far rifiorire il nostro sistema?

  2. Gioni è un ottimizzatore dell’artista, poi ci sono alcuni curatori che tendono a degenerare nel ruolo di artista (come Adam Carr per esempio). La biennale di berlino curata da Gioni aveva un atmosfera che era necessariamente autoriale, ma andava ad ottimizzare le opere. Come vengono ottimizzati gli artisti nei progetti della Trussardi. Sono meno d’accordo con il rapporto tra Gioni e l’Italia: il nostro è mooolto schizzinoso, e poi perchè lavora solo con artisti di De Carlo e Zero (cattelan,perrone, assael,cuoghi); Paolo Zani di Zero fece pratica da De Carlo proprio quando Gioni si stava formando. Boetti è ormai artista storico assodato. Ma in italia, oggi, non ci sono artisti interessanti. Ne vedo solo uno ma non lo nomino per non scatenare il solito putiferio.

  3. Assael e Perrone sono stati invitati per After Nature una grande mostra didascalica. La prima figlia legittima di Pier Paolo Calzolari e anche il secondo rimescola nelle solite atmosfere da “figli dell’arte povera”. Ma l’italia dopo Cattelan non ha proposto più nulla di interessante; forse beecroft e bonvicini ma tutta roba anni 90, come anche vezzoli portatore di un pop vintage tanto facile e banalotto…

  4. Rossi – “l’italia dopo Cattelan non ha proposto più nulla di interessante […]oggi, non ci sono artisti interessanti. Ne vedo solo uno ma non lo nomino per non scatenare il solito putiferio.[…]

    Che putiferio?

    Il problema (?) di rossi è quello di replicare i presunti vizi di un sistema, sistema ritenuto asfittico, impermeabile alle critiche e talvolta incestuoso.

    Questo riflesso d’impermeabilità si era già palesato nell’impossibilità di commentare il blog whitehouse. Ora il blog stesso è divenuto esclusivamente leggibile su “invito”.

    La cosa è legittima. Rossi emblematicamente incarna l’ennesimo operatore silente: s’è immerso nella consueta rete di relazioni rassicuranti e confortanti. Credo che la cosa sia e sarà funzionale al suo lavoro.

    Qui si stima il (non programmatico) tatticismo di rossi: ha saputo replicare dei meccanismi novecenteschi per ottenere un “riconoscimento” (?) in un mercato nostrano tendente alla saturazione:

    “cazzo,
    funzionano ancora!”

    funziona ancora “una furba strategia di marketing che mira a indebolire la concorrenza agli occhi dei consumatori (“gli artisti sono scarsi e troppi, i curatori sono dei dittatori senza acume che indeboliscono il mercato, l’eccesso di offerta fa scendere i prezzi = collezionisti non comprate nessuno che abbia a che fare con coloro che cito perchè non vale un cazzo”). tanto per fare un altro esempio […]), dopo questa intuizione è chiaro anche perchè rossi insiste nel ripetere testi e immagini nel blog. una specie di advertising per imprimere bene in mente il suo operato.”

    La cosa buffa è che la stessa operazione whitehouse non riesce a superare i parametrici critici con cui rossi decostruisce/demolisce la professionalità/altro di x artisti:

    infatti:

    nome multiplo/anonimato (blissett)
    + rapporto magazine/uso ambiguo-pop dei media (cattelan, Jacopo dell., ecc.)
    + frammentazione dell’opera nell’informazione (anni ’60)
    + blog vetrina portfolio + stalking in forum/blog (boresta, pesce a fore, jacopo dell. ecc.)
    + enigmatica o grossolana infiltrazione in … (a. c.)
    + …
    =
    luca rossi

    cosa farà ora rossi?

    Continuerà didascalicamente nel tentare di “superare il ruolo tradizionale dell’artista”
    accanendosi con una certa leziosa incoscienza (o forse no)
    nel perpetuare aspettative, atteggiamenti e posture “soggettiviste” del secolo scorso

    (il che non è criticabile
    ma è esattamente ciò che fanno _quasi_ tutti gli altri
    ma con meno sguaiato clamore)

  5. va bene che si vive nella società dell’immagine e dell’apparenza….ma che cavolo c’entra affermare che Gioni è bello (?) nel titolo….suvvia un pò di serietà….si può dire chissenefregaaaaa!!!!!!

  6. ahh pane. Capisco la tua ossessione per Rossi, ma insomma:

    negli anni 60 non c’era lo strumento blog e pesce a fore o boresta ,se potessero, farebbero volentieri una mostra tradizionale (Boresta vuole partecipare alla Biennale di Venezia). E invece mi sembra che Luca Rossi abbia superato un certo sistema proponendo una pratica che è a disposizione di tutti, senza bisogno di nessun sistema se non la propria autoreferenzialità (in questo modo, rendendola manifesta, ha disinnescato l’autoreferenzialità del sistema dell’arte). I progetti sono reali e fruibili, è come dire che un’artista fa mail art perchè la sua galleria o il museo diffondono il comunicato stampa della sua mostra.
    La cosa che trovo più interessante, e che mi sembra una novità a livello internazionale, è la “gestione della distanza” dal museo e dallo studio.L’usoc he fa dello spazio espositivo. Cattelan, per intenderci, usa un telefono e ha ancora bisogno di tutta una cornice istituzionale. Rossi “fa mostre” a Palazzo Vecchio, al Whitney, da Gagosian o nel luogo X, “gestendo” realmente la sua distanza fisica dallo spazio espositivo (si limita a scrivere un blog). Che poi diventa anche una distanza mentale, quasi una presa di distanza, al fine di una maggiore lucidità sulle cose. Mi sembra geniale intervenire al Whitney sostenendo unicamente una preghiera quotidiana e poi rintracciando dentro e fuori il museo uno svolgimento dei fatti. Non è quello che avviene ogni giorno nell’informazione? Una visione soggettiva dei fatti? Esiste Dio? Non sono forse le informazioni di Wikileaks che stanno mandando in fibrillazione il mondo in questo momento?

    Sotto il comunicato della mostra da massimo de carlo nel 2009, sono apparsi dei link a fotografice liberalemnte scaricabili. Sono bellissime immagini di foto della mostra di George Condo. Puf! Ecco risolto l’annoso problema della vendita dell’opera, le opere (come lo è google per intenderci) sono open source. La galleria, per evitare di diventare una rivendita di modernariato, dovrebbe assumere un ruolo diverso. Ne ho parlato nelle mie corrispondenze con Rossi, ma questo è ancora un segreto.

  7. -Puf! Ecco risolto l’annoso problema della vendita dell’opera, le opere (come lo è google per intenderci) sono open source.-

    talmente open source che è diventato un blog privato a inviti lol voglio sperare che sia una pausa per sistemarlo perchè altrimenti tutta l’operazione sarebbe esilarante come poche

  8. rossi- negli anni 60 non c’era lo strumento blog […] mi sembra che Luca Rossi abbia superato un certo sistema proponendo una pratica che è a disposizione di tutti, senza bisogno di nessun sistema se non la propria autoreferenzialità […] Ecco risolto l’annoso problema della vendita dell’opera, le opere (come lo è google per intenderci) sono open source. La galleria, per evitare di diventare una rivendita di modernariato, dovrebbe assumere un ruolo diverso.

    Non è che negli anni ’60 non c’era lo strumento del blog, è che alla fine degli anni sessanta si è lucidamente affrontata la problematica dello spostamento della produzione/diffusione dell’arte dalle condizioni limitate e limitanti della galleria/museo verso una “dimensione pubblica”: quindi l’opera o l’attività curatoriale frammentata in pubblicità, giornali, magazine, cataloghi,
    lettere, ecc. (Non sempre in una modalità trasparente.)

    Rispetto questa scaltra gestione della distanza dai codici espositivi obsoleti
    i blog e le email non apportano nessuna modifica/progresso/novità/altro rispetto alle ricerche avviate e sviluppate alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta

    La negazione dell’oggettualità _ anche parziale_
    +
    la diluizione dell’opera nei network dei media hanno, alla fine degli anni sessanta, eliminato categorie estetiche quali l’unicità/autorialità riferite all’arte, rendendo quest’ultima, paradossalmente, più accessibile e pubblica rispetto a quanto accaduto precedentemente.

    la genialita nell’uso del blog mi pare una cazzata
    (come l’uso del termine “genialata” riferito a quest’ambito….):

    rossi
    sono passati 50 anni dagli 60
    50 anni

    Rossi – La cosa che trovo più interessante, e che mi sembra una novità a livello internazionale, è la “gestione della distanza” dal museo e dallo studio. L’uso che fa dello spazio espositivo. Cattelan, per intenderci, usa un telefono e ha ancora bisogno di tutta una cornice istituzionale. Rossi “fa mostre” a[…]

    1. rossi usa flash art/exibart come cornice istituzionale. (o gli ineffabili dialoghi con..) (o art/text/…)

    2. Cadere ti arrivava in una mostra in cui non l’avevano invitato con la sua sbarra. A volte la lasciava. A volte no.
    Poi c’era Tarcti, mi pare si scriva così, che ha passato tutta la vita a scrivere un diario in cui immaginava (o credeva) di partecipare a mostre in giro per il mondo. Talvolta fantasticava di curare mostre. Altre volte scriveva recensioni di queste mostre fantasmatiche, tentando di pubblicarle in una rivista o in un giornalino _ anche riuscendoci_. (Chiamava in galleria il giorno prima dell’inaugurazione piangendo, dicendo che non ce la faceva a consegnare i lavori per l’indomani, che non erano pronti, si sentiva insicuro. In galleria però nessun conosceva ‘sto tizio: nessuno l’aveva invitato ad esporre. Un’altra volta ha sedotto la figlia di uno degli artigiani di fiducia di uno scultore minimalista, chiedendole poi d’inserire, in una parte interna della scultura che il padre stava realizzando per x, un…)

    mi fermo qui con la casistica della “gestione della distanza”.

    Rossi- Ne ho parlato nelle mie corrispondenze con Rossi, ma questo è ancora un segreto.

    eh sì
    c’è proprio bisogno dei segreti per rendere interessante qualcosa:
    “Chi conosce in profondità si sforza d’essere chiaro; chi vorrebbe sembrare profondo alla moltitudine si sforza d’essere oscuro”

    nome multiplo/anonimato (blissett)
    + rapporto magazine/uso ambiguo-pop dei media (cattelan, Jacopo dell., ecc.)
    + frammentazione dell’opera nell’informazione (fine anni ’60)
    + blog vetrina portfolio + stalking in forum/blog (boresta, pesce a fore, jacopo dell. ecc.)
    + enigmatica o grossolana infiltrazione in … (a. c.)
    + uso curatore come alter ego _cavalucci_ (cattelan_gioni)
    + superamento del ruolo tradizionale dell’artista (quasi tutti)
    + ecc.
    =
    luca rossi

  9. Non mi sembra che i progetti di Luca Rossi vogliano andare incontro al pubblico. Il discorso informativo lo vedo strumentale per i contenuti, esattamente come la fondazione Trussardi o la galleria X mantengono un sito, propongono pubblicazioni e inviano comunicati stampa. La cosa che fa scandalizzare è che ogni ruolo del sistema sia serenamente vestito da una sola persona. Ma questa fusione è funzionale ai contenuti, fermarsi a questo significa guardare il dito che indica la luna. E in questo ruolo indefinito è compreso anche quello di spettatore e quindi non ci sono le aspirazioni anni 60 alla Cadere, per intenderci.
    Detto questo mi sembra che l’operazione di Whitehouse vada a colmare un gap critico abbastanza imbarazzante per l’italia. Chi fa in italia letture critiche che valutano gli aspetti positivi e negativi di un’opera o di una mostra? Su Flash Art nessuno si azzarda, Mousse e Kaleidoscope parlano solo di estero anche se dovesse essere l’elenco telefonico di Birmingam, e su Exibart ogni tanto si vede qualche timida riflessione critica.

  10. Rossi- Detto questo mi sembra che l’operazione di Whitehouse vada a colmare un gap critico abbastanza imbarazzante per l’italia.

    quella di rossi è una critica omologante, livellante verso i fenomeni considerati e strumentale rispetto alla propria operatività (il che è legittimo, si dovrà pur…)

    L’asserire la positività dell’operazione di rossi esclusivamente in quanto riempitivo di un vuoto è un ruffiano esercizio retorico: solo perché, apparentemente, in italia, non è presente una “critica”, non significa che tutto ciò che emerga con sembianze di critica soddisfi criteri di validità/efficacia/genuinità/ecc.
    (un po’ come la storiella dell’aver _ per forza_ un museo d’arte contemporanea a milano: “ma anche no”)

    Rossi- Luca Rossi non è per nulla oscuro, anzi è fini troppo chiaro: ma non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire.

    Rossi- Non mi sembra che i progetti di Luca Rossi vogliano andare incontro al pubblico.

    Perché alla fine degli anni sessanta la totalità degli artisti concettuali lavoravano in modalità trasparenti e immediatamente accessibili a pubblico? [e non cercavano, già allora, di sintetizzare tutti ruoli del sistema esercitando un’enigmatica distanza rispetto ad esso (dal fantomatico sistema)?)]

    Rossi continua, con una certa cruda insipienza, a remixare
    certe intuizioni/atteggiamenti/posture non convenzionali di quasi 50 anni fa
    insieme a
    “ricerche” di una contraddittoria diluizione dell’opera nei media _anni ‘90_ (es. nome multiplo – blissett)

    Rossi- La cosa che fa scandalizzare è che ogni ruolo del sistema sia serenamente vestito da una sola persona.

    Rossi- Se Luca Rossi fosse attaccato alla propria maschera avrebbe scelto un nome più interessante e non accetterebbe che chiunque potesse vestire la sua maschera.

    Il replicare di rossi ad analisi circa il suo operato con proposizioni/loop contraddittorie rendono whitehouse un “qualcosa” di non criticabile, impermeabile. Rossi quindi replica superbamente i connotati d’impermeabilità, autoreferenzialità e supponenza del “sistema”:
    niente di nuovo.

    nome multiplo/anonimato (blissett)
    + rapporto magazine/uso ambiguo-pop dei media (cattelan, Jacopo dell., ecc.)
    + frammentazione dell’opera nell’informazione (fine anni ’60)
    + blog vetrina portfolio + stalking in forum/blog (boresta, pesce a fore, jacopo dell. ecc.)
    + enigmatica o grossolana infiltrazione in … (a. c.)
    + uso curatore come alter ego _cavalucci_ (cattelan_gioni)
    + superamento del ruolo tradizionale dell’artista (quasi tutti)
    + ecc.
    =
    luca rossi

  11. Non mi sembra che l’operazione di Rossi debba trovare la sua originalità nel nome o nell’uso del blog. Mi sembra che l’originalità stia nei progetti (su cui siete a conoscenza???) e nel bypassare un certo sistema autoreferenziale che in italia sta facendo ( e ha fatto) il male di tutti.

    Purtroppo se non c’è la benedizione della galleria blasonata o della fondazione un certo pubblico non ci crede. E invece l’arte ha molto a che vedere con il “credere”, il fidarsi e una certa religiosità.

    La critica che fa Luca Rossi al sistema italiano mi sembra molto per argomentata e puntuale. Anche se comunque opinabile.

    Ma scusate in italia chi studia arte???? Pensateci. Secondo voi sono le menti più brillanti? In italia in questa fase storica dove anche l’ingegnere rischia la disoccupazione? Studia Arte che ci arriva per esclusione, chi vive sopra ossessioni personali e quelli iscritti alla fantomatica Nonni Genitori Foundation. Giovani che solitamente non hanno questa grande spinta dentro, visto che hanno tutta la strada spianata.

  12. ARTE S.p.A – Occupazione del linguaggio e dei canali di trasmissione.
    La qualità dell’arte, va cercata nel mondo silenzioso degli artisti invisibili.
    La “qualità” delle opere, va cercata nel mondo feticistico-mediatico del nuovo ancora da costruire. Ma mi sono dilungato troppo…, Preferisco un contesto artistico privo di opere-feticcio, ma di silenzio senza fine.

  13. @Bernabei – Ma scusate in italia chi studia arte???? Pensateci. Secondo voi sono le menti più brillanti? In italia in questa fase storica dove anche l’ingegnere rischia la disoccupazione? Studia Arte che ci arriva per esclusione, chi vive sopra ossessioni personali e quelli iscritti alla fantomatica Nonni Genitori Foundation. Giovani che solitamente non hanno questa GRANDE SPINTA DENTRO, visto che hanno tutta la strada spianata.-Bernabei

    Hai proprio ragione Bernabei (anche se mi sa un po’ da populismo romantico).
    Non credi che sia pure interessante “che anche chi” non ha studi artistici alle spalle, non riesca ad elaborare strumenti per svincolarsi dalle omologanti opportunità offerte dal sistema?
    Prendi ad esempio

    Enrico Morsiani
    http://www.fondazionespinola-bannaperlarte.org/it/dettaglio_studente.asp?id=53

    Pur essendo laureato in scienze internazionali e diplomatiche (con indirizzo economico), vuole fare l’artista, e ha ceduto al fascino delle nuovi armi d’illusioni di massa: le residenze. Ha fatto la spinola banna, una residenza a nizza, ecc. Guarda ad esempio questo lavoro di morsiani, una composizione con oggetti trovati nel magazzino della galleria civica di monfalcone

    http://www.galleriaumbertodimarino.com/photo_see2.php?pageNum_Foto=8&totalRows_Foto=22&artistaid=32

    http://www.galleriaumbertodimarino.com/photo_see2.php?pageNum_Foto=9&totalRows_Foto=22&artistaid=32

    non ti pare l’ennesimo epigone di artisti stranieri (vedi i primi lavori di renggli, fischli e weiss, marchand, ecc._ allora meglio la alamarcegiu, gli originali_),la solita accozzaglia di cose trovate ed assemblate con una mesta rassegnazione postpostpostmodernista (come se morsiani dicesse: “che altro posso fare se non queste cose all’interno di una galleria _ umberto di marino_). È significativo che lo stesso morsiani abbia un blog vetrina in cui elenca lavori tipo portfolio: http://enricomorsiani.blogspot.com/. Sono una serie di opere in cui si evocano enigmatiche e rassicuranti azioni in un ambiente domestico (tipo morsiani che si sbizzarrisce in innocue parodie di lavori di altri artisti: es. i cento cinesi della pivi in una cucina… http://www.galleriaumbertodimarino.com/photo_see2.php?pageNum_Foto=0&totalRows_Foto=22&artistaid=32 insomma, ancora cose tipo blues noses od un bock che vuole fare il misterioso e l’autoriflessivo… ecc). MORSIANI HA FORSE QUESTA GRANDE SPINTA DENTRO?
    Questa creatività diffusa ci attanaglia non solo nella produzione iperbolica di fotografie e info, ma pure nella sterile diffusione di blog d’artisti. Non c’è nessun intento polemico verso morsiani (è il primo che mi è venuto in mente): non ha studi accademici alle spalle ma non mi pare rappresenti uno scarto rispetto i suoi colleghi di brera o iuav…

  14. per mb2: dai ti fornisco un aiutino. francis scott fitzgerald. te ne fornisco un secondo: 1922. e un terzo: è una citazione. ce la puoi fare, abbi fiducia in te stesso

  15. per m.e.g. belli e dannati???? belli forse, dannati no di certo
    privi di qualsiasi retrogusto intellettuale…di sola plasticosa superficie….ancora e sempre chissenefregaaaa!!!!!!!

  16. cosa??? se lucarossi sarebbe Morsiani, cosa critica a fare l’ikea, fa le stese robe degli altri! oppure ho capito male?
    boh, com ormai siamo arrivati ad un sistema del piffero

  17. Uscire dal ‘900 significa smettere con il gusto avanguardistco di giudicare il valore di un lavoro sulla base delle similitudini stilistche con altri artisti. Bisogna smettere di confrontare un lavoro artistico con altre opere, e’ necessario uscire il più possibile dai giochi linguistici (stilistici) e confrontarsi solo con il mondo reale. Per questo ne’ BURGER ne’ MORSIANI hanno qualcosa da dirci.

  18. Caro Marco,Rossi e molti altri,guardando gli infiniti commenti vien da dire che hanno tutti ragione,tutti dicono quanto basta ma mai tutto,vuoi perchè si è preparati su qualcosa ma non su altro,si è a conoscenza di quello e basta o si è potenti arroganti e disonesti e si gioca con l’ignoranza di collezionisti,curatori,critici e artisti.Fino a non molto tempo fa il solo citare il lavoro di altri era quasi inammissibile(stupidamente),oggi copiare di sana pianta e arrogarsi il diritto del primo arrivato è la norma(assurdamente).
    Vero è che la postproduzione globale del copia e incolla fa sentire tutti un pò più creativi,ma basterebbe riconoscerlo, per non generare così presuntuosi equivoci e guardare un pò oltre Duchamp,perchè dopo di lui la lista è lunga e le memorie troppo corte.Non dico ad un giovane artista e curatore di conoscere Paul Thek,Ed Paschk,Leon Golub,Pino Pascali ed altri,ma almeno gente come Robert Gober,Matthieu Laurette,Liam Gillick,Pierre Joseph e molti altri si. Quindi ok leggere Nicolas Burriaud,ma farlo in modo critico e non per ricavarne la scusa per non gurdarsi intorno.Prima di concentrarsi troppo presto su noi stessi, diamo un occhiata in giro.Purtroppo l’arte vive di troppe poche cose e troppe poche persone e sta diventando ignorante ed obsoleta,il mondo fuori dall’arte è spesso più avanti e migliore.

  19. ELENA BORDIGNON CANCELLA I POST DAL BLOG ART TEXT PICS RIGUARDANTI LA SEGUENTE QUESTIONE: è LECITO CHE PAOLO ZANI E MASSIMO GRIMALDI VENDESSERO A FINI DI LUCRO LE OPERE RIGUARDANTI IL PROGETTO EMERGENCY-SUDAN IN GALLERIA? LA RICHIESTA è LA SEGUENTE: è O NO IMMORALE TRARRE PROFITTO DA TALE QUESTIONE? E SOPRATTUTTO, COME MAI SI CONTINUA A TACERE A RIGUARDO? I TEMPI CAMBIANO ED ANCHE ZERO SEGNA IL PASSO?

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