01 giugno 2012

La differenza tra Dante e la salsiccia

 
Con la cultura non si mangia. Eppure, dicono che sia il petrolio italiano. Furbizie e semplificazioni a parte, che vogliamo dire quando chiediamo che la cultura e l'arte siano difese come 'beni comuni'? [di Stefano Velotti]

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Ministeri della cultura, Manifesti per la cultura, tagli alla cultura: un esercito di parole, istituzioni, rivendicazioni ruota intorno alla promozione e alla difesa di qualcosa che sembra inafferrabile come uno spettro. Se non uno spettro, la cultura sembra essere come il tempo, o come l’arte: tutti credono di sapere cos’è finché non se lo domandano. Comportamenti appresi e trasmessi distinguerebbero un comportamento culturale da uno naturale. Gli italiani hanno il bidet, gli altri no. Differenze culturali. Ma non è la cultura in questa accezione così ampia lo spettro che ci turba più direttamente. Non sfuggiamo mai all’intreccio di natura e cultura, anche quando facciamo dell’anticultura, così come la retorica dell’antiretorica non sfugge alla retorica. Bisogna andare più nello specifico.

Nei casi di riduzione più greve, la cultura non sarebbe che una risorsa economica (il “petrolio italiano”), benché, nelle auree parole di un nostro ex-ministro – che sfidava gli studenti a farsi “un panino con Dante” – la cultura non si mangia. Malgrado la sua retorica dell’antiretorica da commercialista furbesco, al ministro era sfuggita di bocca una verità: la cultura non è una salsiccia. Il destino della salsiccia è di essere consumata: la sua metabolizzazione prevede una cura minima (la masticazione), ma non esattamente un’elaborazione del pensiero, una coltivazione di sé, una cura della ‘cosa’, un giudizio, un esame della propria vita relazionale. Chi pensa di poter assimilare la cultura come si assimila una salsiccia è come chi crede che basti ascoltare nel sonno una lingua straniera per impararla. Dunque, la cultura non è una salsiccia: ma c’è chi vorrebbe che lo diventasse, e chi si strappa i capelli perché lo sarebbe diventata. A tali opposti schieramenti si oppone una parola d’ordine degli ultimi anni: “bene comune”. Insieme ad altre cose, è la cultura nel suo complesso che dovrebbe sfuggire al controllo del demanio (proprietà pubblica) e del dominio (proprietà privata), per occupare uno spazio comune sottratto a entrambi. Come ha scritto il giurista Ugo Mattei (Beni comuni, Laterza 2011), il «bene comune non è a consumo rivale» (non obbedisce a una logica di mercato), ma è invece comune solo in quanto è accessibile a tutti. L’idea è bella e ricca di conseguenze, ma deve essere pensata a fondo, nei riguardi dei suoi diversi referenti.

In uno dei suoi saggi di sociologia, riproposto recentemente in italiano (Teoria della Halbbildung, il melangolo, 2010), Adorno, nel 1959, coglieva un aspetto importante della situazione in cui tutt’ora siamo. Per capire la sua tesi, bisogna tener presente che i tedeschi hanno una parola difficilmente traducibile, Bildung, per indicare “la Kultur dal lato della sua appropriazione soggettiva”. Bildung riguarda la ‘formazione’ di un individuo, come veniva raccontata nei grandi “romanzi di formazione”. Quelli che lamentano la dissoluzione delle società chiuse, dotate di una ‘sostanza etica’ compatta, di immagini cultuali e norme di coesione autoritarie e potenti, sono semplicemente dei reazionari, risentiti di aver perduto qualcosa che non hanno mai potuto possedere. La nostra situazione è molto più complessa: “La contraddizione tra Bildung e società non ha come risultato semplicemente l’Unbildung (l’assenza di formazione o di cultura) vecchio stile, contadina”, ma una ‘semiformazione’, una semicultura, cioè la Halbbildung del titolo. “Essenza di una coscienza privata dell’autodeterminazione, la ‘semicultura‘ si aggrappa necessariamente a elementi culturali approvati. Ma sotto il suo dominio essi si corrompono e gravitano verso la barbarie […] La coscienza passa da una forma di eteronomia a un’altra; al posto dell’autorità della Bibbia subentra quella del campo sportivo, della televisione e delle ‘storie vere’, che si fa forte delle pretese della letteralità, della fattualità al di qua dell’immaginazione produttiva”. L’intero saggio è l’esposizione dialettica delle illusioni di chi vorrebbe solo restaurare, o acquistare, una Bildung. Ed emerge in primo piano come l’anti-intellettualismo pragmatico (‘Dante non si mangia’) sia complementare al sequestro feticistico di beni di cultura non compresi (‘la Gioconda è un capolavoro assoluto’). Nella Halbbildung siamo tutti immersi, nessuno escluso. Ma anche questa condizione non può essere assolutizzata: se infatti fossimo semplicemente immersi in questa semicultura, come potremmo esserne consapevoli e denunciarla?

A cosa ci riferiamo, insomma, quando chiediamo giustamente che la “cultura” – e la sua esibizione esemplare, l’arte –- venga promossa e difesa come ‘bene comune’? Adorno opponeva ai sogni arcaico-regressivi e ai luoghi comuni progressisti “il tempo dell’anacronismo”: “tener fermo alla Bildung dopo che la società l’ha privata della sua base. Ma essa non ha altra possibilità di sopravvivenza fuorché quella che consiste nell’autoriflessione critica sulla Halbbildung che essa è necessariamente diventata”. Una riflessione critica sulla cultura è allora un compito improrogabile per tutti coloro che, legittimamente, ne chiedono oggi la promozione e la salvaguardia, fuori dall’alternativa schiacciante tra elitismi reazionari e la resa alla mediocrità di una ‘semicultura’ di massa.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te lo sei perso? Abbonati!

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