07 febbraio 2013

La quotidianità del male

 
Ripercorriamo tre mostre viste recentemente e soprattutto tre artisti: Mircea Kantor, Grazia Toderi e Cyprien Gaillard, che elaborano una rappresentazione del male. Non per esorcizzarlo, ma per collocare la sua presenza nella nostra vita ed esserne consapevoli. Anche dell'interpretazione che ne diamo. Perché l'arte può aiutare a rivedere sotto una diversa luce le cose. E a sanare le ferite

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Quanto mi suggestiona il clima politico quando guardo un’opera? È una domanda che mi faccio spesso e in genere tento di non tenerne conto, ma di fronte alle mostre di Mircea Kantor, Grazia Toderi, Cyprien Gaillard ho visto delle figure che mi hanno aiutato a capire il male.

Mi piace usare questa parola forte e semplice, perché non saprei come altro definire il groviglio di realtà negative che si insinua nella vita quotidiana e la corrode. E che viviamo con una specie di fatalità passiva. Tutto scivola: i problemi personali e quelli civili. Lo sgretolamento delle notizie funziona come l’unica via di salvezza. Questo è per me il male.

Bisogna opporsi, ma come? Spostare l’ansia personale in uno scambio plurale è una ricetta condivisibile, che però risulta debole rispetto alla preoccupazione di non perdere l’equilibrio sullo scivolo su cui ci troviamo. E allora? Allora l’arte sembra essere il bene comune, come si usa dire oggi, per riequilibrare i disastri emotivi e sociali, inventare storie e immagini che indaghino le contraddizioni. È vero, questo aiuta a pensare, a riflettere in modo meno passivo, a incantarsi di fronte a una forma riuscita e compiuta. A tenercela vicino al cuore.

Ma ci sono messaggi che escono dai recinti della creazione e ci dicono che il male c’è e che non è facile da espellere. Io prediligo quelle opere che mi avvertono senza enfasi, crudeltà o effetti speciali. Non riesco a vedere film cruenti, dove la violenza occupa la scena. Faccio fatica a guardare la sofferenza. Il film Amour, di Michael Haneke che mi ha molto addolorata, mi è sembrato anche un modo per avvicinarsi al dramma di assistere alla morte in vita di chi si ama. Vedere il film è un modo per affrontare quel disastro affettivo, ma anche per creare la figura di un dolore, normalmente anonimo.

Una cosa analoga mi è successa alla mostra di Mircea Cantor a Parigi al Beaubourg per Il premio Marcel Duchamp. Il senso della violenza, dell’aggressività è evidente, ma le immagini hanno la sapienza emotiva di chi vuole parlare a tutti, senza titubanze e compiacimenti. Nel film Sic Transit Gloria Mundi (2012), una miccia si incendia e passa da una mano all’altra di persone schiacciate dalla subalternità, tanto che non si vedono né i corpi, né le facce, ma ognuno sa che esistono. Si vedono solo le mani che accolgono il fuoco: sono appoggiate a terra in un cerchio, sono fasciate e questo tranquillizza, ma quelle pezze sono anche simbolo di ferite preesistenti, di fatiche, di lavori rischiosi, di povertà. A volte qualcuna vibra leggermente. Non ci sarebbe niente da aggiungere rispetto all’idea del male intrusivo nelle vite. Ma alla fine la fiamma si solleva in un guizzo, percorre il filo e si spegne prima di toccare la mano di una bella ragazza che sta in piedi, come una dea antica. È una nuova icona del destino? La possibilità di governare il fuoco dell’esistenza? È un’immagine politica? Sì, ma per fortuna non è una corretta denuncia. Tutte le ipotesi valgono. Ma io ho visto soprattutto la figura del male senza eccessi espressionisti, senza negazioni. Insomma, se penso alle bruciature che ho avuto nella vita, questo video mi aiuta a riprenderle in mano.

Mi ha toccato ancor di più il video Wind Orchestra (2012): un bambino seduto a un tavolo gioca con dei coltelli che stanno imprevedibilmente in piedi, lui soffia e i coltelli cadono. L’azione si ripete incessantemente. C’è tutto. La durezza dell’infanzia, la fantasia che fa muovere magicamente i coltelli, la minaccia dei giochi, l’impossibilità di proteggere con giocattoli “buoni” la conoscenza di un bambino travolto dalle informazioni delle violenze del mondo che, tra un cartone e l’altro, gli arrivano dalla stessa televisione che è il luogo principe della fantasia infantile attuale.

Perché leggo in questa immagine il male e non un gioco infantile? Perché i coltelli da cucina, nudi e crudi, prendono il posto delle marionette, non sono oggetti simbolici della violenza, ma sono attori, che fanno slittare la funzionalità dell’oggetto nella narrazione di una storia. Se c’è sicuramente la potenza della fantasia infantile, c’è anche la violenza che va a introdursi nel gioco di un bambino. La poesia allarmante di quest’immagine non ha tuttavia quel manierismo che spesso avvolge il giudizio critico anche nell’arte, proprio perché sposta il problema dalla cronaca, peraltro spesso efferata, dei soprusi sull’infanzia, a una “normalità” narrativa. È per me un’immagine del male proprio perché non ci fa girare la faccia inorriditi, ma ci costringe a collocare la sua presenza nella quotidianità.

Ho sempre visto nell’arte questa funzione introspettiva, non è catartica (la realtà sappiamo spesso supera la fantasia), ma riesce a spostare la denuncia in una zona percettiva dove ognuno è chiamato a elaborare anche i danni più gravi. Oppure, e questo è straordinario, una bellezza e una sorpresa che sono altrettanto necessarie a modificare il comportamento.

Dagli anni Novanta molti hanno raccontato contraddizioni e drammi dei loro Paesi (Shirin Neshat, Alfredo Jaar, Regina Galindo, Tanja Bruguera…), sono figure politiche perché parlano in prima persona, ma senza il tono di manifesti per acquietare i sensi di colpa. Anche da loro ho imparato che il negativo ha bisogno di essere rappresentato non per essere espulso, ma per diventarne coscienti. E questo che emoziona, non la visione didascalica delle figure di Adel Abdessemed, che ho visto nelle sale accanto a Mircea Cantor, al Beaubourg.

Alla fine di dicembre, a Milano, alla conferenza di Joachim Schmid, Franco Vaccari diceva «non si può fare tutto, si deve fare solo ciò che emoziona». Voglio leggere questa emozione del male anonimo che attraversa il quotidiano, che non ha immagini, che ognuno percepisce e che ha bisogno di essere messo in figura con la delicatezza del dubbio e la forza della parzialità.

Grazia Toderi al Maxxi, nella monumentale figura della città di Roma, proiettata su due schermi accostati e aperti come pagine di un libro, ci incanta con la bellezza incendiaria della città “universale” per eccellenza. Roma è il primo simbolo della metropoli, trasmigrato in altri imperi, in altri Paesi: è un’icona che va la di là della sua stessa vicenda storica. Grazia Toderi mette in risalto questa dimensione, attraverso il colore rosso delle lampade ai vapori di sodio che illuminano le città, il cielo, le strade, le case, i monumenti. Un colore che è apparso per la prima volta nella video installazione Rosso Babele al Pac, nel 2006. Anche allora, come oggi, c’era un allarme, il suono nel sottofondo e lo sgretolamento delle immagini ci ricordavano la guerra in corso in Iraq. Oggi gli schermi sono costruiti appositamente e creano una quinta scostata dal fondo della stanza, alludono al monumento urbano. L’intreccio tra la visione magmatica della città e la sua essenza monumentale conforta. Ma via via, le vedute si accavallano, si sovrappongono, svaniscono, accelerano. All’idea di monumento si sostituisce il senso “fisico” di un respiro, accumulato tra le case, le strade, i disegni di Roma. Improvvisamente tutto è aria, gas, atmosfera arrossata e trasparente, non si distingue nessuna figura, poi passa lentamente una serpentina di luce che illumina il vuoto attorno. La Mirabilia Urbis si dissolve in questa miccia accesa che, come nel film di Luis Buñuel Le Chien Andalou (1929), sembra tagliarci l’occhio. Ho visto in quel taglio di luce, il male odierno del mondo, in particolare italiano: la rovina del territorio. Il rischio effettivo che del nostro impareggiabile paesaggio rimanga solo la memoria con occhi arrossati da lacrime di rimpianto o di coccodrillo. Il cemento è più dannoso dell’erosione del tempo, non solo perché è ottusamente antagonista dell’equilibrio biofisico, ma perché invade come un fiume in piena pianure e monti, continuando a richiedere vittime sacrificali.

Mi ha molto emozionato la proiezione di Grazia Toderi, perché da un lato mi ha ricordato il grande magma di una città, con il suo calore e la sua storia, dall’altro mi ha fatto vedere la sua estrema fragilità. La bellezza delle immagini non è ancora solo un ricordo, ma potrebbe diventarlo. E potremmo essere tutti costretti a fissare con occhi arrossati quell’unico guizzo di luce che lentamente affiora dal vuoto. Non è una visione apocalittica, ma una temperatura emozionale che spinge chi vuole ad alzare gli occhi e ritrovare le stelle, oltre il cielo rosso della capitale simbolica dell’Occidente.

“Rubble and Revelation – Rivelazioni e rovine” è il titolo della bellissima mostra di Cyprien Gaillard, curata da Massimiliano Gioni, nella Caserma XXIV Maggio di Milano, per la Fondazione Trussardi. La caserma è ancora attiva, gli spazi scelti sono quelli dei forni del pane, usati anche durante la seconda guerra mondiale per panificare per tutta la città. I cortocircuiti sulle tracce del male legate al tema dell’esercito e dei conflitti passati e persistenti sono “semplici”. Ma il nodo della mostra sta nella capacità di collocare la memoria soggettiva rispetto alle rovine oggettive e a quelle interiori, personali, magari “innocue”.

Una serie di vecchie cartoline, New Picturesque, sono racchiuse dentro buste strappate, qua e là, in modo da intravedere porzioni di antichi castelli. Un gesto semplice per evocare lo strappo che questi oggetti, ormai quasi del tutto scomparsi, provocano nella mente. Una temperatura analoga si ripete nelle bellissime teche, simili a quelle dei musei di storia naturale, in cui sono disposte a gruppi di nove, formando un rombo, centinaia di polaroid, scattate da Gaillard nei cinque continenti. Geographical Analogies è il titolo e compongono un atlante sensibile, dove per analogie e contrasti appare il mondo come è stato costruito effettivamente e come si è addensato nella memoria: dalle Piramidi del Messico a progetti di edilizia popolare nel Bronx, dai castelli francesi alle sculture storiche in Iraq… Non è necessario riconoscere i singoli edifici, è importante lasciarsi trascinare da questo immenso lavorio dell’umanità, dal sentimento di una conoscenza che si sedimenta e compone e scompone le vicende.

È la visione del mondo globale? Forse, ma quello che mi ha colpito è piuttosto la richiesta di responsabilità nel conoscere, consapevoli dell’arbitrarietà degli accostamenti. Anzi proprio in queste analogie appare il nodo cruciale della suggestione globale: siamo connessi, ma la scelta è individuale, è da lì che inizia la comprensione di immagini e eventi. Tant’è che Gaillard ha fotografato direttamente ciò che ha ricomposto secondo il filo delle sue analogie geografiche. La rivelazione dipende dalla responsabilità di ricerca e non solo (non più?) da una verità.

Nel video Pruitt-Igoe Falls, citazione della demolizione del complesso residenziale di Pruitt-Igoe di Saint Louis nel 1972, ci porta dentro il tema cruciale dell’eccesso edilizio e della conseguente necessità di distruggere. Nasce un racconto che allude, da un lato al fascino delle rovine che fa da sfondo alla ripresa dell’abbattimento di un edificio alla periferia di Glasgow in Scozia, dall’altro alla passione “turistica” per i grandi eventi naturali.

La visione del crollo di questo palazzo in un nugolo di polvere progressivamente vira nello scroscio d’acqua delle Cascate del Niagara. L’edificio nella notte è immobile, davanti sembra esserci un cimitero, piccole figure si muovono ai confini, evocano Piranesi, ma anche il paesaggio della Tempesta di Giorgione. Poi il crollo, la casa si accascia, lo schermo è invaso dalla polvere, non si vede più niente. La polvere muta, acquista una luce bianca e si riconosce la cascata.

Piranesi e il Settecento ci hanno raccontato il fascino delle rovine, il desiderio di indagare una civiltà, di non dimenticarne le tracce. Oggi Gaillard vira questo fascino nella necessità di far sparire gli edifici. Rimane aperta la domanda sui motivi. Dipende dalla ricerca di un equilibrio naturale da ricomporre o riguarda l’appetito di costruzione che non ha tregua, nonostante le bolle edilizie che hanno travolto il mondo? Riprendere un edificio che viene fatto “scoppiare” produce il ricordo di un’arcadia pittorica come lui insinua, o è simbolo degli eventi catastrofici che travolgono con regolarità tutti i Paesi da ogni parte del globo?

Domande che quotidianamente appaiono e scompaiono dal sistema mediatico, ma che nei video di Gaillard acquistano una figura che va oltre la cronaca, diventando “geografia” artistica e, in quanto tale, politica. Non viceversa. In questo suggerimento a guardarsi attorno, per fissare negli occhi il male, non nasce ciò che salva, ma ciò che ci rende responsabili delle interpretazioni che facciamo. Non sarà dunque “un dio che ci può salvare”, ma la capacità di porre domande, proprio oggi che le risposte non sono chiare.

Il male che ho guardato in queste mostre, è una domanda che chiede risposte.

Per parafrasare Gaillard, la rivelazione non proviene dalla presa di posizione politica dell’arte, ma dai contenuti politici che ognuno deciderà di abbinare alle figure che l’arte mette al mondo, positive o negative che siano.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 82. Te lo sei perso? Abbonati!

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