31 ottobre 2007

L’ARTE DELLO SCANDALO

 
In seguito alla valanga di polemiche e dibattiti, riapre -questa volta a Firenze- la mostra più discussa e chiacchierata degli ultimi anni: Arte e Omosessualità. Da von Gloeden a Pierre et Gilles. Dopo il curatore Eugenio Viola, Exibart ha incontrato Paolo Schmidlin e Paolo Cassarà. Due degli artisti messi all’indice da Letizia Moratti...

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Dopo tante polemiche, la mostra riapre nella sua versione integrale. Cosa ne pensate? Quali sono le vostre aspettative?
Paolo Cassarà L’entusiasmo è forse un po’ passato dopo tutto quello che è accaduto, anche se mi ha fatto molto piacere che la mostra sia stata accolta da Firenze, una città nota in tutto il mondo per la grande tradizione artistica. È certamente uno smacco per il Comune di Milano e per una città ritenuta da sempre aperta e cosmopolita. Mi auguro che la mostra nella nuova sede fiorentina sia accolta con interesse e valutata per la qualità delle opere, al di là delle polemiche. Mi piacerebbe diventasse una mostra itinerante, un progetto esportato all’estero.
Paolo Schmidlin Dopo tante polemiche, discussioni e colpi di scena, la mostra mi sembrava quasi si fosse esaurita da sola. Dal mio punto di vista, la riapertura risulta per certi versi superflua. Tuttavia può essere una buona occasione per chi ne ha tanto sentito parlare ma non l’ha potuta visitare. Personalmente, a questo punto avrei preferito poter esporre la mia scultura in un Paese come la Svizzera o la Spagna; Paesi realmente liberi e democratici, e non così pesantemente influenzati dal potere della Chiesa. Non sono così ansioso di rivedere aperta questa mostra. Mi auguro che sia almeno l’occasione per presentarla con un allestimento più curato e che magari possa durare un po’ più a lungo che a Milano, dov’è stata aperta per una sola sera!

Come avete vissuto questa vicenda, sia dal punto di vista umano che da quello professionale?
P.C. Inizialmente ero contento ed eccitato per tutto l’interesse che la stampa ha creato intorno all’evento, cosa che avviene raramente per il mondo dell’arte. Poi la situazione è cambiata e sono stato travolto dalla rissa mediatica, che è andata ben oltre le opere. Paolo Schmidlin - 2007 - photo di Paolo DilettoCome artista mi sono sentito per molti versi strumentalizzato e del mio lavoro se ne è parlato troppo in modo distorto, con interpretazioni molto lontane dalle mie intenzioni. Siamo arrivati a letture delle opere univoche e paradossali, estremismi che sono arrivati a intitolare la mia opera Pietà lesbo.
P.S. In un primo momento mi sono un po’ preoccupato per il putiferio sollevato dalla mia opera, che si poteva al massimo considerare irriverente ma certamente non blasfema. L’utilizzo di un linguaggio ironico è da sempre un elemento intrinseco al mio lavoro. Poi, vista la situazione farsesca che andava sviluppandosi, ho cominciato a divertirmi; lo scatenarsi della frenesia censoria della signora Moratti è stato uno spettacolo davvero surreale. Alla fine ha preso il sopravvento un senso di nausea per questa polemica così sconclusionata e fuori luogo. Ne è uscita un’immagine di arretratezza culturale che ha fatto davvero una pessima pubblicità a una città come Milano. Sono convinto che il Sindaco abbia sottovalutato l’intelligenza e l’apertura mentale dei suoi cittadini. Questo è un fatto di cui tener conto. Personalmente, c’è stato un momento in cui avrei proprio preferito sottrarmi alla bagarre mediatica.

Alcuni hanno pensato che sia stata un’operazione di scandalo pianificata a tavolino, un modo per alcuni artisti di promuovere la propria arte…

P.S. Mi dispiace che molti possano aver pensato che lo scandalo sia stato intenzionale e costruito. Nel mio lavoro c’è da sempre un tono ironico e dissacrante, ma assolutamente mai alcuna strategia da parte mia, né alcuna intenzione di cavalcare uno scandalo per autopromuovermi. Ritengo triste pensare che questo sia il modo migliore per diffondere la conoscenza dell’arte. Comunque, non voglio certo negare che questa singolare vicenda abbia portato molta pubblicità al mio lavoro, facendolo conoscere in un modo che non avrei mai previsto. È stata una sorpresa gradita e inaspettata.
P.C. Nel preparare l’opera ho volutamente puntato sulla provocazione, attraverso la sua simbologia e con la citazione indiretta di una nota iconografia religiosa. Il mio intento originario era provocare in modo costruttivo, per sensibilizzare il pubblico sul tema dell’omosessualità, e non certo una forma di promozione personale.
Paolo Cassarà al lavoro
Come avete vissuto il rapporto con l’ideatore dell’iniziativa Vittorio Sgarbi e il curatore Eugenio Viola?

P.C. Sgarbi ha fatto quello che ha potuto nel prendere le difese della mostra con grande entusiasmo, ma alla fine la situazione è sfuggita di mano. L’Assessore ha per certi versi preso il sopravvento sul curatore, prendendosi carico dell’iniziativa e di tutte le sue conseguenze. Ha coperto il ruolo del curatore, mettendolo un po’ da parte e quindi, globalmente, c’è stato poco dialogo con loro. La spettacolarizzazione mediatica ha poi cancellato tutti i ruoli in un gran polverone polemico.
P.S. In primis il gesto di Sgarbi, che ha sostenuto e ha voluto esporre la mia opera, mi è sembrato coerente e coraggioso, considerando anche il rischio di una simile scelta e le critiche che poteva attirarsi. Poi, nella seconda fase, mi è sembrato adottare un atteggiamento forse anche troppo diplomatico nel tentativo di salvare la situazione con le istituzioni. Devo comunque riconoscere che l’Assessore mi ha sempre difeso come autore e scultore, anche quando ha cominciato a prendere cautamente le distanze dall’opera incriminata. La situazione era talmente delicata che capisco l’esigenza di dover mediare. Eugenio Viola è una persona di grande capacità, intelligenza e coerenza, che però si è trovato un po’ schiacciato dalla rissa mediatica che si è scatenata. Ha avuto non poche difficoltà nel portare avanti il suo progetto originario, che era davvero eccellente. Sappiamo anche che ha dovuto accettare parecchi compromessi sulla scelta delle opere esposte.

Che ne pensate del titolo della mostra, Vade Retro. Arte e Omosessualità?

P.C. Il titolo Vade Retro ha senza dubbio un tono istrionico, è uno slogan provocatorio. E come tale dev’essere inteso.
P.S. Il primo titolo Ecce [H]omo era sicuramente più raffinato ed evocativo. Soprattutto più in sintonia con il messaggio originario della mostra. Trovo Vade Retro un titolo ambiguo e un po’ di cattivo gusto, che forse ha danneggiato l’immagine della mostra. Mostra che poteva comunque osare di più. A mio avviso, le opere erano molto edulcorate e le scelte direi come minimo poco coraggiose, vedi ad esempio le immagini castigatissime di Mapplethorpe, del quale conosciamo tutti foto di ben altro impatto. Paolo Cassarà - PietàLa mostra presentata era, secondo me, davvero incensurabile: una mostra da educande. Abbiamo visto in tempi recenti, proprio in spazi pubblici milanesi, lavori ben più forti e senz’altro più vicini al concetto di “blasfemo” della povera Miss Kitty. Pensa alla mostra di Serrano al Pac, con foto di grandissimo formato in cui il crocefisso e altre immagini sacre erano immerse nell’urina dell’artista. Mi chiedo come mai, in quel caso, nessuno abbia battuto ciglio. Dov’erano in quel momento i crociati della morale cattolica?

Come doveva essere interpretata originariamente la vostra opera e com’è nata l’idea?
P.C. L’idea è nata dal voler giocare su una simbologia nota a tutti. Per questo l’ho intitolata Pietà, e non come riferimento alla celebre opera di Michelangelo. La mia opera rappresenta una donna che stringe tra le braccia una bambola gonfiabile, dove è forte l’ambiguità e lo scambio dei ruoli in queste figure androgine. Il lavoro si può interpretare secondo livelli diversi e non solo in senso lesbo o religioso. Nelle mie intenzioni vuol essere una denuncia dei disagi della società attuale: un’allegoria della mercificazione della donna, considerata alla stregua di una bambola gonfiabile, della decadenza dei rapporti e del sesso, della solitudine che pervade le persone. Tutte tematiche che noi viviamo e su cui mi piaceva far riflettere.
P.S. Nel mio lavoro parto sempre da soggetti che m’intrigano e non è mia intenzione lanciare messaggi. Mi piace che lo spettatore sia libero di leggere l’opera in modi diversi, come diverse sono le sensibilità di ciascuno. Della mia scultura, a cui ho dato il titolo Miss Kitty -volutamente neutro e privo di riferimenti-, è stata data una lettura univoca. La mia ricerca è però da sempre improntata sull’ambiguità delle somiglianze, sulla confusione delle identità (anche sessuali). Tutti elementi con i quali mi piace giocare in modo ogni volta diverso. Spesso nelle mie opere mi diverto a rielaborare immagini di volti noti, collocandoli in situazioni anomale e a volte spiazzanti. È solo un gioco, prendiamolo con un po’ d’ironia! Alla base di tutto c’è sempre l’idea di far riflettere sui lati oscuri e un po’ scabrosi dell’animo umano e della sessualità. Miss Kitty è stata subito bollata come scultura blasfema, ma in realtà la mia creatura era solo il ritratto ironico di un vecchio travestito ammiccante e un po’ maligno.

Qual è l’aspetto della mostra che non vi è piaciuto e quale invece l’opera che vi ha fatto riflettere?
P.S. La mostra è stata forse mortificata da un allestimento frettoloso e da alcune opere certamente non troppo pertinenti. Paolo Schmidlin - Miss KittyHo trovato molto affine alla mia ricerca l’opera fotografica di Basilè, dove ritrovo molti degli elementi che mi affascinano, dall’ambiguità sessuale al glamour hollywoodiano. Direi che le opere fotografiche erano la parte più interessante, con nomi d’importanza mondiale e foto “storiche”. Un percorso di grande spessore e interesse.
P.C. Molti i lavori validi e ricchi di spunti; l’aspetto penalizzante è stato l’allestimento. La fotografia era forse la parte del progetto che restituiva un’idea di vera e propria estetica contemporanea. Tra le foto mi viene in mente quella di Paul Smith per il grande impatto emotivo e l’effetto spiazzante.

In futuro dove vi augurate di esporre le vostre opere censurate?
P.S. La collocazione ideale per Miss Kitty sarebbero i Musei Vaticani! È un vero peccato che la Chiesa sia così totalmente priva di ironia. Comunque, viste le difficoltà incontrate da quest’opera in Italia, sto volgendo il pensiero all’estero e ho già avuto una serie richieste dalla Spagna. Con tutto il clamore generato, l’intera mostra avrebbe comunque avuto grandi possibilità di essere esportata con successo. È stata davvero un’occasione perduta.
P.C. La mostra meritava di essere esportata all’estero. Avrebbe potuto essere un progetto internazionale e di grande risonanza se il caos mediatico fosse stato gestito meglio. È stata un’occasione mancata. Vedremo ora cosa accadrà a Firenze. La città, da sempre culla per l’arte, è senza dubbio all’altezza e si è dimostrata molto più aperta e accogliente di Milano.

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Intervista con Eugenio Viola

a cura di federico poletti


dal 26 ottobre 2007 al 6 gennaio 2008
Arte e Omosessualità. Da von Gloeden a Pierre et Gilles
a cura di Eugenio Viola
Palazzina Reale
Piazza Adua, 50 (zona stazione) – 50123 Firenze
Orario: da martedì a giovedì ore 14-22; venerdì ore 14-24; sabato e domenica ore 11-22
Ingresso: intero € 7; ridotto € 5
Catalogo Electa
Info: tel. +39 0422410886; www.artematica.tv

[exibart]

25 Commenti

  1. Penso anch’io che il nostro paese viva in uno stato di arretratezza. Soprattutto uno stato incapace di essere laico e democratico. Mi auguro che una mostra come questa riesca ad aprirsi un varco proprio in questo paese dalle molteplici contraddittorietà, magari divenendo un evento itinerante nelle altre grandi città, e che queste possano ospitarne la mostra senza censure. Mi auguro di vederla anche a Torino.

  2. Il problema di questa mostra, al dì là della evidente ignoranza di Moratti & Co, è che in generale è una mostraccia: L’opera di Cassarà è orrenda, fatta male, senza peso. Quella di Schmidlin invece ha un suo certo corpo. Quindi, se Schmidlin è una eccezione, in generale questa mostra è da buttare. Un’ultima cosa: quando si tira in ballo la Chiesa bisognerebbe che ci ricordassimo che l’Italia è così ricca di grande arte (e non la robaccia che Sgarbi ci propina) proprio grazie a lei. Quindi almeno abbiate rispetto. Di Michelangelo ce n’è stato uno fin ora e non mi sembra che nessun lavoro in questa esposizione è al livello di un centimetro quadro della peggior scultura di, appunto, Michelangelo.

  3. Non ho visitato la mostra, ma visti gli artisti e alcune immagini non mi sembra un gran chè. non è questione di chiesa ma di qualità delle opere:le provocazioni gratuite sono roba sorpassata e nemmeno molto interessante.Rappresentare il papa-gay mi sembra troppo facile, banale e molto ruffiano.

  4. Io non penso che siamo in uno stato di arretratezza, a prescindere dal “problema chiesa” questa mostra non è il top dell’arte, ci sono delle opere pessime, e io vi parlo da omosessuale e per certi aspetti mi sento offesa veramente. Poi non sta a me giudicare le opere, il bello dell’arte è anche l’individualità e la libera espressione, ma creare una mostra di arte omosessuale è già un modo per ghettizzare noi diversi, poi dicono che sono gli altri che ci escludono, non è sempre così. Mi pare che in nessuna mostra ti chiedono di che sesso sei o tendenza sessuale, perciò una mostra inutile e per certi aspetti con opere pessime, poi io non sono critica d’arte non posso giudicare ma mi piaceva dirvi la mia.

  5. Una vera noi questa storia della censura su di una mostra di scarsa qualità.Costruita apposta per fare scandalo.Dopo i furbetti della finanza(quartierino),i furbatti degli eventi scandalo.Ma basta per favore!

  6. La mostra, come si sa, era stata promossa dalla giunta comunale Milanese. Successivamente il sindaco Letizia Moratti, avendo ritenuto che alcune delle opere esposte offendessero sia il tema che il buon gusto (suggerendo, sottilmente e velenosamente, un forte nesso fra omosessualità e pedofilia, nonché peccando di gratuita blasfemia), ne ha chiesto la rimozione. Atto giusto e dovuto, a mio avviso (non discriminare per non essere discriminati), che ha subito scatenato le solite ire del solito Sgarbi che con solita arroganza ha deciso di non inaugurare la mostra “monca”, a suo dire, di opere capitali (e questa la dice lunga sull’omofobia del solito Sgarbi, che non perde occasione per utilizzare i termini “culattone” e “lesbica” come offese – andate a vedervi i video su Youtube – ma che poi, con opportunismo tanto sfacciato quanto ridicolo, si erge a paladino dei gay pur di avere un’altra ribalta dalla quale alimentare il proprio culto). Chi scrive ha avuto modo di vedere la mostra sia a Milano che a Firenze, visionandone. Una mostra che nel suo complesso lascia trasparire mancanza di passione, fretta e superficialità, con un intento più provocatorio, sottilmente e pericolosamente omofobo, che altro. Alcuni esempi. I curatori hanno mai saputo che l’ottimo Aron Demetz ha scolpito una scultura molto legata al tema gay, “Mio padre voleva un figlio”, che sarebbe stata perfetta per l’occasione, invece della generica, ancorché bellissima, scultura in mostra, sottilmente filo-pedofila, quasi a significare un legame fra omosessualità e pedofilia (pensate poi al buon gusto di Sgarbi che insinua un simile argomento col suo ex braccio destro, e ideatore della mostra, Alessandro Riva agli arresti domiciliari con l’infamante e pesantissima accusa di pedofilia…)? E che Agostino Arrivabene, del quale dono in mostra due bei dipinti genericamente attinenti al tema, ha dipinto tele molto più esplicitamente legate all’omosessualità: i “Giove e Ganimede”, alcuni ritratti, i cicli degli amanti sofferenti, dei “Cercatori di desideri infranti”? E Brancaleone da Romana, Frongia, Rao, per citarne solo alcuni? Straordinari pittori, ma che c’entrano con l’omosessualità? Basta un corpo dipinto per essere opera d’arte gay o lesbica? Ok De Pisis e tutte le solite e straviste icone gay (Mapplethorpe, Tom of Finland, von Gloeden, Weber, Pierre et Gilles, ecc ecc ecc, sai che novità!), ma il resto? E gli altri artisti, quello davvero gay nel senso più contemporaneo, intimo e profondo del termine, dov’erano? Dimenticati per far spazio allo scandalo ed alla provocazione? Roba da anni ’70!
    Chi scrive è, insieme, storico dell’arte, critico militante (nel solco tracciato dallo Sgarbi degli anni ’80) e gay. Lo storico dell’arte preferisce voltarsi altrove e pensare alle belle e capitali pubblicazioni in materia di Dominique Fernandez (da Il ratto di Ganimede a A hidden love), trovando la mostra senza particolare interesse, se si esclude qualche raro esempio. Il critico militante rileva come la lezione di Vittorio Sgarbi verso la riscoperta di un concetto d’arte “altro”, fatto di bellezza e qualità, in continuità con la nostra storia e le nostre tradizioni, lontano dalla facile provocazione e dalle leggi del mercato, sia stato tradito per sposare in pieno quei modi e quelle scelte tipiche delle sedicenti avanguardie alla moda e da Biennale di Venezia, Basel o Kassel. Ma più ancora stupisce la superficialità delle scelte, con la presenza in mostra di opere scadenti, brutte, poco o nulla attinenti all’intimità del tema prima ancora che provocatorie. Non basta esporre un torso o un nudo, maschile o femminile poco importa, per evocare l’anima di un “sentire” omosessuale. Così come non possono essere le scelte sessuali degli autori a rappresentare criterio scientifico su cui fondare un progetto. Sgarbi ha affermato che l’interpretazione del tema è espressione della sensibilità e del gusto del curatore: che mostra poteva immagine uno che è chiaramente e manifestamente omofobo? Col “cavallo di troia” del povero Viola, trattato come un pivellino e solo e sempre definito come “un giovane critico gay”, come se fosse solo quello il motivo per cui è stato chiamato.
    Miss Kitty? Il solito Catellan aveva “travolto” Giovanni Paolo II da un meteorite nell’”Ora nona”. Anche allora, era il 2000 a Londra, il mio interrogativo fu il medesimo: facile prendersela con il Papa; ma perché in vece del capo della chiesa cattolica non si è presi di mira i ben più pericolosi ayatollah Khomeini o Khamenei, correndo il rischio, quella sì provocazione coraggiosa e ben più giustificata, di prendersi una condanna a morte in stile Salman Rushdie? Soprattutto oggi, dopo l’epocale 11 settembre, con l’urgente e drammatica attualità del tema religione-sessualità/omosessualità nella cultura islamica… Il papa lancia qualche inutile anatema, nell’Islam si lapidano centinaia di persone omosessuali ogni anno…
    No, invece si è preferito percorrere ancora e sempre la strada più semplice e dannosa, quella che dipinge l’omosessualità in stile Gay Pride, anacronistica (non siamo più negli anni ’70!), sterilmente provocatoria, stupidamente dissacratoria. Una brutta mostra, di (troppe) brutte opere e (troppo spesso) legate al tema da un debole, debolissimo filo. Una mostra senza passione e senz’altro senso se non quello di far scandalo e dissacrare. Che noia!
    Da gay dichiarato (nel senso che dall’età di quattordici anni non ho mai fatto segreto delle mie inclinazioni sessuali, considerando la mia sessualità una questione normale ma privata, quindi da non nascondere ma nemmeno da ostentare) mi sono sentito profondamente offeso e irritato. Per me essere gay ha sempre significato un essere maschio due volte: primo per la mia natura oggettiva, fisica e secondo per il fatto di amare altri uomini. (Il che non m’ha impedito di allacciare relazioni intense, ma non sessuali, con donne, anzi: posso assicurare che la mia situazione ha favorito i rapporti con l’altro sesso, regalandomi sempre amicizie certamente più durature e profonde di quelle maschili.) Credo che i gay nelle mie condizioni siano molti, sempre più e sempre più stanchi che essere dipinti come delle macchiette da Vizietto (senza il genio comico ma umano di Tognazzi e Serrault), sessuomani, morbosi, magari perversi e pervertiti con l’ossessione della dissacrazione a tutti i costi. L’omosessualità è altro, molto altro. E’, per usare un’espressione abusata, “tormento ed estasi”: non solo estasi orgiastica ed amore per l’eccesso, ma anche inquietudine, senso di colpa, solitudine interiore. Quello della provocazione è uno stereotipo vecchio, buono per ottenere visibilità in tempi ancora bui e agli albori del riconoscimento dell’omosessualità come “diversa normalità”. Oggi tali atteggiamenti non fanno altro che mortificare e offendere l’essere gay. E’ il momento di far vedere l’aspetto “normale” della vita quotidiana di tanti single e coppie omosessuali. Lasciando trasparire tutti quei valori veri e duraturi dell’amore gay; aspetti certamente non funzionali a fini mediatici o di comunicazione scandalistica, ma certamente più profondi e autentici.
    Un approccio nuovo al tema, che racconti anche e non solo il sesso e l’eccesso, ma l’amore, l’amicizia, la complicità, la gioia e il dolore, la solitudine e l’emarginazione al pari del glamour o del patinato. Che racconti la realtà, non quello che, per propaganda o amor-di-scoop, si vuol far passare. Il Papa, ad esempio, non fa altro che praticare il suo mestiere. Che è anche quello, finalmente, di porre dei paletti, al pari di qualunque altro leader religioso. Benedetto XVI è un Papa certamente non dotato delle capacità comunicative del suo predecessore, ma uomo di “verbo”, teologo raffinatissimo nei cui scritti le parole, leggere come piume, pesano come macigni. Un Papa che nella sua prima enciclica esalta il piacere sessuale (orgasmo) come completamento dell’amore, e che scende dalla cattedra per firmare il suo libro sulla vita di Cristo, rinunciando all’infallibilità, anzi sollecitando le critiche e le osservazioni. E che ammette per la prima volta l’uso del profilattico, ancorché all’interno di coppie sposate nelle quali vi possa essere pericolo per la salute del partner. Questo non è poco. Benedetto, poi, parla solo e sempre di “matrimonio” (“dono della maternità”) e si proclama fermamente contrario ad ogni forma di unione alternativa ad esso. Posizione comprensibile dal capo della Chiesa Cattolica e che noi (politici e società civile) non siamo tenuti a condividere ad ogni costo. Il libero arbitrio ci consente di scegliere: io ho capito di non essere cattolico perché in quei recinti non ci posso stare, ma questo non m’impedisce di apprezzare ed ammirare il pensiero e l’opera di questo grande Papa. Un Papa, si badi bene, che non è stato eletto casualmente. L’11 settembre ha segnato un punto di rottura nella storia e la Chiesa ha immediatamente capito questa situazione, scegliendo un Papa “restauratore” dopo il grande comunicatore e “politico” degli anni ’80 e ’90. Concludo tornando al tema arte e omosessualità, citando un grande poeta gay, Sandro Penna: “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”. Nella mostra di Sgarbi e Viola di diversità “diversa” ce n’era ben poca. Ed i guai sono fatalmente arrivati, come auspicato dal poeta

  7. Hai ragione, nessuno conosce il nostro stato d’animo interiore, il senso di colpa e quella maledetta solitudine….

  8. ma una riflessione cogente e raffinata, di grande interesse e di respiro internazionale, di artisti come: Just, Arienti, Mogutin, Lovett & Codagnone, Elmgreen & Dragset, Gonzales-Torres, Bas, Wilcox, Vezzoli, Trealeven… dove era?
    anche i pochi autori che si salvavano (LaBruce, Codagnone, Larsson, Sameshima, Pierson) non avevano opere adeguate

  9. non sono omosessuale, o forse è meglio dire che non lo sono del tutto, come tanti. Credo che l’omosessualità sia un valore aggiunto per la società e per la cultura. Nell’arte lo è nella misura in cui artisti omosessuali producono opere belle. Tutto qui. Non ho visto ancora la mostra ma in linea di principio mi sembra riduttivo etichettare l’arte omosessuale o l’arte delle donne. Chissenefrega di chi ha fatto i lavori e quanti anni di psicoanalisi hanno alle spalle gli autori. L’arte rende liberi.

  10. Insomma, alla fine questa mostra ha deluso tutti:

    1) chi come me si interessa alla questione di genere, perché tratta la cosa in modo becero;
    2) i gay, che si sentono considerati alla stregua di macchiette;
    3) i critici d’arte, perché sono stati messe opere accettabili accanto a vere e proprie schifezze;
    4) l’utente comune, perché al di là delle opere da quanto ho capito nell’insieme ‘sta mostra era alquanto raffazzonata.

    A questo punto mi chiedo: ma Sgarbi ci capirà davvero qualcosa di arte? Oltra ad una vasta cultura puramente nozionistica, intendo. Perché, diciamolo chiaro, sono du cose ben diverse…

  11. A forza di dar contro a tutto e a tutti, urlando ai quattro venti che il “re è nudo” dell’arte contemporanea “d’avanguardia” (vedi le polemiche con Politi, Bonami, Bonito Oliva, ecc), Sgarbi stesso si è trasformato in un epigono: il pifferaio magico! Con una bella pletora di topi-artisti che ancora ascoltano incantati il suo flauto e non si rendono conto che sono solo un pretesto, un mezzo per alimentare il suo Ego. Come i gay con Vade Retro: pendono dalle labbra di Sgarbi, che se potesse li manderebbe tutti ai lavori forzati! Bell’Italia! Di arte a Sgarbi non ne importa più davvero nulla. E’ un mezzo per avere visibilità e guadagnare soldi, null’altro. Guardate che sta combinando a Milano. Capitale italiana dell’arte? Ed intanto, però, Rothko è a Roma! Però lui come assessore (che ricordiamoci bene non ha preso un voto uno!!!) si autonomina curatore ed addirittura espone i quadri della sua collezione (che non sono nemmeno un gran chè): assessore-curatote-prestatore. Più chiaro di così! Alla faccia del conflitto d’interessi! E con buona pace del Centro-Sinistra meneghino. Povera Italia!

  12. In risposta ad Alberto Agazzani

    Gentile collega,

    in genere mi premuro di non rispondere ai commenti che affollano i forum di exibart ma nel tuo caso farò un’eccezione alla regola, e non perchè diffusamente pontifichi sulla mostra, non sei il solo! Ma è qui necessario, in quanto ti dichiari “storico dell’arte, critico militante (nel solco tracciato dallo Sgarbi degli anni ’80) e gay”.
    Posto che da Baudelaire in poi la critica è politica e di parte, e come tale bisogna intenderla, la tua faziosità, nei confronti principalmente di Sgarbi (dalla cui costola vanti di discendere) ma anche nei miei, mi impone comunque, dato che mi chiami in causa, di chiarire alcune cose.

    Una premessa metodologica: posso parlare unicamente per quelle che sono state le mie scelte curatoriali, che si limitano alla totalità della selezione fotografica e a una ampia parte degli artisti giovani (Demetz e Arrivabene ad esempio sono opere scelte direttamente da Vittorio Sgarbi, entrambi sono artisti che io non seguo)

    1) La selezione non è stata né frettolosa né faziosa, meno che mai sottilmente omofoba. Non devo ricordare io allo storico dell’arte la lunga tradizione iconografica (e non solo ) del senex e del puer, canonizzato nel ratto di Ganimede che tu citi a proposito di un’opera di Arrivabene, nonché mito tanto caro anche a Fernandez che pure ti premuri di citare, nè devo scomodare il Simposio platonico per ricordarti il rapporto erotico-iniziatico che legava l’ἐρόμενος (eròmenos) adolescente all’adulto ἐράστης (erastes); non si vuole suggerire nessun legame tra omosessualità e pedofilia, è semplicemente il testimoniare un perdurare di uno schema iconografico, niente altro. “Omnia munda mundis”….

    2) la tua posizione sulla censura non la commento, è assolutamente grottesco, anacronistico e ridicolo parlare oggi di censura nell’arte, ma come amo ripetere: all’artista libertà di espressione, al critico di opinione, al pubblico di selezione, a ciascuno la responsabilità morale delle proprie scelte, se le tue in un citazionismo postmoderno rinverdiscono i ne-fasti di borromeana memoria fai pure.

    3) Per quanto concerne le icone gay “straviste” nessuno ha mai parlato di novità, bastava leggere il comunicato stampa in maniera un po’ più attenta per capire che la mostra è semplicemente un percorso tematico attraverso l’opera di alcuni artisti esemplari di una tendenza, ed è per questo motivo che trovi Tom of Finland (molto raro da vedere tra l’altro), giustapposto al bravo Silombria, Bruce Weber, ma anche Herb Ritts, Pierre et Gilles, accompagnati da un altro cult, James Bidgood. Nessuno voleva vendere nessuna novità, non a caso li chiami anche tu “icone gay”, ed è questa stessa affermazione che ne giustifica la prevedibile selezione per una mostra a tema. La prima mostra a tema sul genere in un paese che tu mi confermi ancora tanto bigotto, questa la novità di una mostra che comunque risponde a criteri soggettivi, come sempre d’altronde, e che non ha alcuna pretesa di esaustività… E quali sarebbero di grazia gli artisti “davvero gay nel senso più contemporaneo, intimo e profondo del termine? Dimenticati per far spazio allo scandalo ed alla provocazione?” Ma quale provocazione e quale scandalo, esimio collega, l’unico scandalo è stata la miopia e l’ottusità con la quale è stata affrontata tutta questa vicenda…

    4) Esimio collega, dato che ti dichiari “storico dell’arte, critico militante (nel solco tracciato dallo Sgarbi degli anni ’80) e gay”, ti rispondo ora differentemente per ognuno di questi aspetti.
    – Rispondo quindi allo storico dell’arte.
    Per quanto riguarda Fernandez, ti ricordo che anche lui tratta nei due libri che ha dedicato al tema sia opere dal contenuto apertamente omoerotico sia quelle in cui questo è invece solo latente e sottocutaneo, leggibile ad un livello ulteriore attraverso simboli, allusioni, metafore, allegorie o codici particolari. E’ lo stesso principio che ho cercato di applicare anche io…Né ho mai forzato alcun rapporto tra biografia (dell’artista) e interpretazione (dell’opera), come mi sono affannato a spiegare nel mio testo in catalogo nonché nel comunicato stampa. Ma lo hai letto?
    Oltre i meriti indiscutibili, dovresti sicuramente notare come lo sguardo di Fernandez sia essenzialmente letterario, ricco soprattutto di una cultura eminentemente umanistica e non specificatamente storico artistica. Lo sguardo attento di uno storico dell’arte se ne avvede, esimio collega
    – Rispondendo al “critico militante” Generalizzare su istituzioni come la Biennale, Documenta, Art Basel, esprimendo un giudizio così draconianamente inappellabile, è ancora una volta, esimio collega, metodologicamente scorretto, spingendosi ben oltre la soggettività di gusti e giudizi e la giusta pluralità delle opinioni.
    -il tono finale della filippica che investe il sottoscritto mi porterebbe a dire che adesso rispondo al gay, o alla parte più beceramente stereotipata di esso, ma mi astengo dal farlo. Ti basti soltanto sapere che fui chiamato a collaborare dall’allora consulente dell’assessore alla cultura del comune di Milano, il mio amico Alessando Riva. Come ho illo tempore dichiarato, avevo già riflettuto autonomamente su un progetto analogo, e in tempi stretti presentai un progetto e una lista di artisti. A questa lista fu aggiunta una selezione degli artisti coi quali da sempre lavora Alessandro Riva. Con l’ausilio di alcuni collezionisti, soprattutto napoletani, ho recuperato molte opere di artisti internazionali di grande qualità, i nomi sono noti, inutile ribadirli. Le vicende sono note, ed è per questo motivo che non sono mai stato definito, prima di leggerti, esimio collega, “un giovane critico gay”, non è l’identificazione di un’identità di genere che ti porta a fare delle cose o meno, anche i più miopi pennivendoli (e ce ne sono in giro tanti) hanno mai avanzato tanto, fortunatamente. Né mi sono mai sentito trattato come un pivellino, nonostante le molteplici difficoltà tecniche e relazionali e le pasture mediatiche. Sia sotto l’aspetto della verbalizzazione che della visualizzazione, per richiamare due termini cari ad Ammann, o se preferisci nel mio percorso critico e curatoriale, il progetto originario della mostra si colloca in maniera assolutamente coerente, ma non devo venire a snocciolare a te il mio curriculum, esimio collega…Se poi riunire in un’unica mostra le foto arcadiche del barone von Gloeden, ripercorrere i territori della fotografia omoerotica attraverso le opere di Bruce of Los Angeles, Herb Ritts, Bruce Weber, Mapplethorpe, Jack Pierson, Tom of Finland, David Hockey, e ancora Nan Goldin, Larry Clark, Keith Haring, David Lachapelle, Pierre et Gilles, Ugo Rondinone, Yasumasa Moritura, Jota Castro, Maurizio Cateelan ecc significa per te costruire una mostra da gay pride dove fiorisce l’inutile scandalo dissacratorio questo è ben diverso, non devo dare conto a te delle mie scelte estetiche e non è per l’attacco a quelle stesse che ti rispondo, non conosco il tuo pensiero ma da come scrivi frequentiamo ambiti e territori abbastanza distanti, e meno male…
    Personalmente ritengo che il vero scandalo è tutto questo inutile parlare, ma anche di questo ho parlato diffusamente nella prefazione alla seconda edizione del catalogo alla quale ti rimando. Se è vero che non è possibile prescindere da alcuni punti essenziali di riferimento, da quei minima moralia che senza ambire a farsi regola indicano delle regolarità, dando direzione e verso ai nostri comportamenti, è pur vero come tu giustamente ricordi che “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”, e soprattutto mai appiattirsi sul senso comune. L’arte esiste per ricordarcelo. Vade retro.
    Gentile collega,

    in genere mi premuro di non rispondere ai commenti che affollano i forum di exibart ma nel tuo caso farò un’eccezione alla regola, e non perchè diffusamente pontifichi sulla mostra, non sei il solo! Ma è qui necessario, in quanto ti dichiari “storico dell’arte, critico militante (nel solco tracciato dallo Sgarbi degli anni ’80) e gay”.
    Posto che da Baudelaire in poi la critica è politica e di parte, e come tale bisogna intenderla, la tua faziosità, nei confronti principalmente di Sgarbi (dalla cui costola vanti di discendere) ma anche nei miei, mi impone comunque, dato che mi chiami in causa, di chiarire alcune cose.

    Una premessa metodologica: posso parlare unicamente per quelle che sono state le mie scelte curatoriali, che si limitano alla totalità della selezione fotografica e a una ampia parte degli artisti giovani (Demetz e Arrivabene ad esempio sono opere scelte direttamente da Vittorio Sgarbi, entrambi sono artisti che io non seguo)

    1) La selezione non è stata né frettolosa né faziosa, meno che mai sottilmente omofoba. Non devo ricordare io allo storico dell’arte la lunga tradizione iconografica (e non solo ) del senex e del puer, canonizzato nel ratto di Ganimede che tu citi a proposito di un’opera di Arrivabene, nonché mito tanto caro anche a Fernandez che pure ti premuri di citare, nè devo scomodare il Simposio platonico per ricordarti il rapporto erotico-iniziatico che legava l’ἐρόμενος (eròmenos) adolescente all’adulto ἐράστης (erastes); non si vuole suggerire nessun legame tra omosessualità e pedofilia, è semplicemente il testimoniare un perdurare di uno schema iconografico, niente altro. “Omnia munda mundis”….

    2) la tua posizione sulla censura non la commento, è assolutamente grottesco, anacronistico e ridicolo parlare oggi di censura nell’arte, ma come amo ripetere: all’artista libertà di espressione, al critico di opinione, al pubblico di selezione, a ciascuno la responsabilità morale delle proprie scelte, se le tue in un citazionismo postmoderno rinverdiscono i ne-fasti di borromeana memoria fai pure.

    3) Per quanto concerne le icone gay “straviste” nessuno ha mai parlato di novità, bastava leggere il comunicato stampa in maniera un po’ più attenta per capire che la mostra è semplicemente un percorso tematico attraverso l’opera di alcuni artisti esemplari di una tendenza, ed è per questo motivo che trovi Tom of Finland (molto raro da vedere tra l’altro), giustapposto al bravo Silombria, Bruce Weber, ma anche Herb Ritts, Pierre et Gilles, accompagnati da un altro cult, James Bidgood. Nessuno voleva vendere nessuna novità, non a caso li chiami anche tu “icone gay”, ed è questa stessa affermazione che ne giustifica la prevedibile selezione per una mostra a tema. La prima mostra a tema sul genere in un paese che tu mi confermi ancora tanto bigotto, questa la novità di una mostra che comunque risponde a criteri soggettivi, come sempre d’altronde, e che non ha alcuna pretesa di esaustività… E quali sarebbero di grazia gli artisti “davvero gay nel senso più contemporaneo, intimo e profondo del termine? Dimenticati per far spazio allo scandalo ed alla provocazione?” Ma quale provocazione e quale scandalo, esimio collega, l’unico scandalo è stata la miopia e l’ottusità con la quale è stata affrontata tutta questa vicenda…

    4) Esimio collega, dato che ti dichiari “storico dell’arte, critico militante (nel solco tracciato dallo Sgarbi degli anni ’80) e gay”, ti rispondo ora differentemente per ognuno di questi aspetti.
    – Rispondo quindi allo storico dell’arte.
    Per quanto riguarda Fernandez, ti ricordo che anche lui tratta nei due libri che ha dedicato al tema sia opere dal contenuto apertamente omoerotico sia quelle in cui questo è invece solo latente e sottocutaneo, leggibile ad un livello ulteriore attraverso simboli, allusioni, metafore, allegorie o codici particolari. E’ lo stesso principio che ho cercato di applicare anche io…Né ho mai forzato alcun rapporto tra biografia (dell’artista) e interpretazione (dell’opera), come mi sono affannato a spiegare nel mio testo in catalogo nonché nel comunicato stampa. Ma lo hai letto?
    Oltre i meriti indiscutibili, dovresti sicuramente notare come lo sguardo di Fernandez sia essenzialmente letterario, ricco soprattutto di una cultura eminentemente umanistica e non specificatamente storico artistica. Lo sguardo attento di uno storico dell’arte se ne avvede, esimio collega
    – Rispondendo al “critico militante” Generalizzare su istituzioni come la Biennale, Documenta, Art Basel, esprimendo un giudizio così draconianamente inappellabile, è ancora una volta, esimio collega, metodologicamente scorretto, spingendosi ben oltre la soggettività di gusti e giudizi e la giusta pluralità delle opinioni.
    -il tono finale della filippica che investe il sottoscritto mi porterebbe a dire che adesso rispondo al gay, o alla parte più beceramente stereotipata di esso, ma mi astengo dal farlo. Ti basti soltanto sapere che fui chiamato a collaborare dall’allora consulente dell’assessore alla cultura del comune di Milano, il mio amico Alessando Riva. Come ho illo tempore dichiarato, avevo già riflettuto autonomamente su un progetto analogo, e in tempi stretti presentai un progetto e una lista di artisti. A questa lista fu aggiunta una selezione degli artisti coi quali da sempre lavora Alessandro Riva. Con l’ausilio di alcuni collezionisti, soprattutto napoletani, ho recuperato molte opere di artisti internazionali di grande qualità, i nomi sono noti, inutile ribadirli. Le vicende sono note, ed è per questo motivo che non sono mai stato definito, prima di leggerti, esimio collega, “un giovane critico gay”, non è l’identificazione di un’identità di genere che ti porta a fare delle cose o meno, anche i più miopi pennivendoli (e ce ne sono in giro tanti) hanno mai avanzato tanto, fortunatamente. Né mi sono mai sentito trattato come un pivellino, nonostante le molteplici difficoltà tecniche e relazionali e le pasture mediatiche. Sia sotto l’aspetto della verbalizzazione che della visualizzazione, per richiamare due termini cari ad Ammann, o se preferisci nel mio percorso critico e curatoriale, il progetto originario della mostra si colloca in maniera assolutamente coerente, ma non devo venire a snocciolare a te il mio curriculum, esimio collega…Se poi riunire in un’unica mostra le foto arcadiche del barone von Gloeden, ripercorrere i territori della fotografia omoerotica attraverso le opere di Bruce of Los Angeles, Herb Ritts, Bruce Weber, Mapplethorpe, Jack Pierson, Tom of Finland, David Hockey, e ancora Nan Goldin, Larry Clark, Keith Haring, David Lachapelle, Pierre et Gilles, Ugo Rondinone, Yasumasa Moritura, Jota Castro, Maurizio Cateelan ecc significa per te costruire una mostra da gay pride dove fiorisce l’inutile scandalo dissacratorio questo è ben diverso, non devo dare conto a te delle mie scelte estetiche e non è per l’attacco a quelle stesse che ti rispondo, non conosco il tuo pensiero ma da come scrivi frequentiamo ambiti e territori abbastanza distanti, e meno male…
    Personalmente ritengo che il vero scandalo è tutto questo inutile parlare, ma anche di questo ho parlato diffusamente nella prefazione alla seconda edizione del catalogo alla quale ti rimando. Se è vero che non è possibile prescindere da alcuni punti essenziali di riferimento, da quei minima moralia che senza ambire a farsi regola indicano delle regolarità, dando direzione e verso ai nostri comportamenti, è pur vero come tu giustamente ricordi che “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”, e soprattutto mai appiattirsi sul senso comune. L’arte esiste per ricordarcelo. Vade retro.

    Eugenio Viola

  13. cosa me ne frega dell’arte dei froci? o dei negri? o delle donne? o degli obesi? o dei cinesi? o degli italiani? o degl’interisti? datemi dell’arte che parla a tutti questi o state zitti!!!

    forse non agl’interisti tutto sommato…

  14. Be’, insomma, abbiamo capito che il signor Viola la mostra se l’è fatta per quelli come lui, che la pensano come lui, hanno i suoi gusti e frequentano i suoi bar preferiti (al massimo li esime dall’obbligo di essere gay!). Alla faccia dell’universalità dell’arte…

  15. A volte si parla di sproposito. È normale. Forse naturale. E la naturalezza quando diventa normalità è una forma di insufficienza critica. Orientamento che genera, tra l’altro, un giudizio sempre più ottuso, devitalizzato e, cosa pericolosa, conformistico.
    È semplice puntare il dito (quell’indice che indica bisognerebbe tagliarlo a volte). Concede quasi sicurezza – particolarmente a chi ha una struttura mentale abbastanza “cavallina”.
    Accusare è quasi un godere; forse è un orgasmo, una perversa soddisfazione direbbe una psicanalista francese. (Il “noi”, quel noi conformistico di cui sopra, quell’abito blu, è cosa assai comoda al tempo d’oggi).
    Ora, sono davvero risibili le accuse mosse alla mostra di Eugenio Viola. Strambe poi, se le accuse vengono mosse da chi non ha orientamenti specifici nel campo dell’arte e che un po’ per logorrea (un po’ per diarrea vocativa, diciamolo pure) parla tanto per stare al centro dell’attenzione.
    Ma la nostra è una democrazia, naturalmente – e per fortuna –, accettare le fatue critiche di qualcuno non può che far piacere: “parlarne, bene o male, l’importante è parlarne”.

    Bisogna però sottolineare:
    1) Eugenio Viola – a me pare, e ne sono convinto – è un critico d’arte intelligente, ed è capace di affrontare, appunto con intelligenza, ogni situazione. E non dimentichiamo che non parliamo di un novellino: Viola è uno studioso.
    2) La mostra Arte e omosessualità che per me resta Ecce [H]omo ha un’organizzazione impeccabile: e muove le proprie mosse da una visione artistica e da un principio estetico che apre uno scenario pulito (almeno quello offerto da Viola) che segue una linearità tecnica e nel contempo si ramifica nei luoghi della corporalità. È un vero e proprio elogio dell’uomo. Dell’umano. Di quell’Umano, troppo umano da diventare necessariamente oltre-umano (tanto che, volendo seguire una traccia foucaultiana, definirei eteroumano), e anche super-umano; nel senso più strettamente nietzscheiano: ovvero di oltreumano che va al di là del bene e del male e al di là della stessa condition humaine.
    3) L’allestimento è rigoroso, toccante, acutamente organizzato, attento ad ogni citazionismo (che va, ad esempio, da Gustave Courbet a Marcel Duchamp).

    Poi, voglio dire…, e basta con queste emerite “str*****e” che l’omosessualità è autre, e che l’omosessualità è, come dice Alberto Agazzani che si sente «profondamente offeso», «tormento ed estasi» e bla bla bla… non se ne può più!
    Ma non sono moralismi retrò? E che diamine! È una vergogna!

    In ogni modo: cum sid est causa que mi associo sensibilmente alla linea di Viola, non posso non dire con lui che ognuno, all’interno della società, deve avere – e mantenere – il proprio ruolo attivo: «all’artista libertà di espressione, al critico di opinione, al pubblico di selezione»…

  16. Caro Tolve, l’amicizia è un gran valore e apprezzo davvero molto il tuo vano sforzo in difesa del tuo caro amico e compagno di scuola Viola. Questo ti fa molto onore e denota un coraggio davvero ammirevole. Il resto un po’ meno, soprattutto quando ti rivolgi a persone che non conosci e che, permettimelo, sono “sul marciapiede” (accademico, storico, critico, umano e personale) da un po’ più anni di te. Di più non aggiungo perchè non mi pare che il tono, il linguaggio e i contenuti decisamente scarsini del tuo appassionato intervento non meritino altro e si commentino da soli. Amen e cordialità.

    albertoagazzani

  17. Gentile Agazzani,
    visto che vengo tirato in causa inutilmente, non posso non rispondere alla sua. E mi pesa molto perché ho tante, troppe cose da fare.
    L’amicizia è un gran valore, ma questi vani scarsi sforzi di cui lei dice fanno parte soltanto d’un pettegolezzo lascivo e isterico.
    In ogni modo rivolgo la mia critica ad una ottusità dilagante (e spero che lei non sia tra queste dilacerazioni pseudointellettuali).
    Per ciò che concerne il mio giudizio, e i miei strumenti d’analisi, le permetto tutto quel che vuole; non mi interessano certo le critiche (anche se le “critiche delle critiche” per dirla con Filiberto Menna, sono molto interessanti).
    Il mio certo “non” appassionato intervento è semplice: come saprà, la semplicità (è Nietzsche ad insegnarcelo) contiene in sé ogni tipo di complessità.
    Su quello “scarsino” di cui dice, preferisco sorvolare poiché mi pare cosa assai improbabile e “genuina” come la sua analisi. E naturalmente, visto che le cose si commentano da sole, come dice, lasciamo che tutto si naturalizzi da sé.
    Non se la prenda e non si senta attaccato, accusato o messo in questione quando parlo di retroattività critica e di moralismi. È lo stato delle cose, ne prenda coscienza.
    E spero che lei non me ne voglia se le consiglio di dare una rinfrescata alle sue nozioni di Storia della Critica d’Arte, poiché il complesso dei suoi interventi denota una pericolosa amnesia di questa disciplina fondamentale per il nostro non facile lavoro.
    Gentilmente suo, Antonello Tolve.

  18. Caro Tolve, colpito nel vivo reagisci con le offese, il che denota, soprattutto per un giovane ventenne come te, una rigidezza ed una mancanza d’ironia davvero notevoli. Per non parlare dell’educazione. Ma quella è un’altra storia. Ti auguro che il tempo sappia donarti quella profondità e quella saggezza senza le quali la carriera che ti accingi a intraprendere, al pari di tante altre, non può avere senso. Ci risentiamo tra vent’anni (e tra più di 200 mostre realizzate, 85 pubblicazioni, 25 anni di giornalismo, e troppo altro), augurandoti la fortuna che ho avuto io. E molta, molta di più ancora. Ad majora! E ancora amen.

  19. PS Caro Tolve, scusa il poscritto: nel 2008 terrò un nuovo, corposo ciclo di lezioni, invitato dall’Università degli Studi di Bologna. Tu e il tuo amico Viola sarete graditi ospiti se vorreste e se vi degnereste di onorare la più antica università del mondo (ed il sottoscritto) di avere cotanta vostra sapienza e cultura tra i suoi miseri banchi tarlati dai secoli. a..

  20. Intanto si dice “parlare a sproposito” e non “di sproposito”. L’italiano, per favore. E mi fa specie che sia un critico d’arte a non conoscerlo. Secondo, in base alla teoria per la quale “la naturalezza quando diventa normalità è una forma di insufficienza critica”, allora uno che fa con la massima naturalezza e spontaneità la radice quadrata di 2953946424879574674 in tempo reale, e per lui è normale, automaticamente è un povero idiota. Ah, va be’, se lo dice Antonello Tolve… Terzo, lasci Nietzsche a noi filosofi e non s’inerpichi in astruse elucubrazioni pseudo-teoriche. Quarto, ho paura che sia proprio chi taccia il prossimo di ‘struttura mentale abbastanza “cavallina”’ a doversi dare all’ippica…

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