14 marzo 2007

NUOVO FETICCIO

 
di nicola davide angerame

Da Adorno, a Marx, a Lyotard, a Hegel, a Baudrillard, a Nancy, a McLuhan, a Barthes. L’arte al tempo dell’homo turboeconomicus in che rapporti si pone con il suo essere (ed il suo non essere) feticcio? Proviamo a capirlo con questo saggio...

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La questione del rapporto tra l’opera d’arte e il feticcio potrebbe aprirsi con la nascita stessa dell’arte, sorgendo nelle primitive grotte, come quelle di Lescaux, in cui i nostri progenitori avrebbero disegnato gli animali che cacciavano e mangiavano. E per questo probabilmente adoravano, come faceva acutamente notare Achille Bonito Oliva in occasione di una mostra dedicata al cibo. Ricreare le forme amate dell’animale, oggetto di sopravvivenza, poteva essere un modo della mente primitiva di comunicare con esso, di disporne invocandolo come noi oggi facciamo con il meteo prima di spostarci in vacanza.
Il feticcio è un elemento particolare del rapporto tra umano e divino, un oggetto che non rappresenta solo una data realtà soprannaturale ma ne raccoglie tutti i poteri e le caratteristiche fino a “sostituire” la divinità, come fa notare Ugo Volli in un suo saggio decisivo del 1997 dedicato alla questione e dal titolo Fascino. Feticismi e altre idolatrie. La parola “fetisso” è una derivazione portoghese del termine pidgin e risale al contatto con gli abitanti della Guinea durante le colonizzazioni del XV secolo che portano l’Occidente davanti all’Africa primitiva e superstiziosa, adoratrice statuette di legno, ciuffi di peli, denti animali o pezzi di fango trasformati in oggetti rituali rispettati come veri dei. In realtà, non sono molto lontani dalle reliquie dei santi e dei martiri cristiani adorate da millenni. L’idea è che il corpo fisico di un oggetto, come ad esempio un’ostia della messa cattolica, possa trasformarsi concretamente nel corpo di un dio.
La questione del feticcio sembra appartenere alla Storia o alla Natura, i due estremi del tempo e dello spazio entro i quali la Cultura gioca il proprio ruolo di emancipatrice dell’Uomo moderno dai suoi retaggi ancestrali. Ma davvero questa emancipazione si realizza in una modernità che si apre con la laicizzazione della bellezza nella classicità rinascimentale e si chiude nelle pratiche delle avanguardie novecentesche volte a costruire nuovi idealismi mentre l’arte è soggetta alla Joseph Beuys - La Rivoluzione siamo Noi, 1972 dematerializzazione ed alla concettualizzazione impostele dalla nascita dei mass media?
Con l’avvento definitivo del cinema, della fotografia, della radio, della televisione e di internet, il rapporto tra arte e feticcio torna a tormentare l’era postmoderna, quella della saturazione dell’immaginario ad opera della proliferazione di immagini (e del Senso da parte dei significati), mettendone in discussione la possibile tenuta. Il nostro tempo, segnato dalla fine dei “grands recits” descritti da Francois Lyotard e delle ideologie che dividevano il mondo, si trova di fronte alla propria natura incognita: potrebbe trattarsi di un relativismo descritto da Hegel come quella “notte in cui tutte le vacche sono nere”. In questo caso avrebbe ragione Jean Baudrillard che accusa nel 1988, un anno prima dalla caduta dal muro, l’estetizzazione del mondo e la dissoluzione della politica, del sociale e della storia in una economia impazzita del segno reso sovrabbondante, evidente, ridondante, mistificatorio. La “sparizione dell’arte”, come titola il suo saggio, rappresenta l’epifenomeno di questa nuova logica dell’eccesso che i semiologi indicano come liberazione del significante dai rigori del significato, per tutta la modernità gestito dai poteri forti. Per gli ottimisti post-moderni questa condizione apre ad una nuova vita del Senso, aprendo lande infinite ad una nuova possibile partecipazione degli individui e delle civiltà al destino del mondo. Per i pessimisti, invece, una tale emancipazione porta allo sbando più completo il mondo cui eravamo abituati e prepara il terreno all’affermazione dell’unica ideologia vincente su tutto il globo: un turbocapitaliasmo che ha abolito quei valori trascendenti superiori capaci di arginarlo per attribuirgli un Senso escatologico, salvifico, oltremondano.
La velocità impressa alle economie del mondo da parte dell’entrata in vigore di una globalizzazione impensabile senza l’esistenza di internet (a dimostrazione che McLuhan ha ragione nel sostenere che la tecnologia della comunicazione trasforma il mondo a sua immagine e somiglianza), trova nell’arte il proprio epifenomeno capace di porre diverse domande e alcune contrastanti risposte.
Se analizzata adottando un linguaggio economico, l’arte di oggi vanta una crescita impressionante alimentando il sospetto che qualcosa stia radicalmente cambiando nel nostro modo d’intenderla. L’apparizione di fenomeni ambigui come l’art promoter e l’art consultant (figure di una economia estetica della cultura in pieno sviluppo), le mostre “monstre” del talento italiano Marco Goldin, le prodezze di pubblicitari alla Charles Saatchi, o l’espansione di catene museali come Guggenheim sottendono all’entrata definitiva del capitale nel regno di un pensiero definalizzato come quello artistico, il rapporto tra l’opera e il feticcio torna prepotentemente a porsi davanti a chi deve decidere se il capitale sta invadendo o sta supportando quello spazio d’incontro tra i sensi corporei e lo spirito umano che è l’arte.
Okwui EnwezorGià Theodor Adorno condannava nel 1938, nel suo saggio “Sul carattere di feticcio della musica e la regressione dell’ascolto”, il feticismo di noi moderni educati dal consumo a nuove idolatrie fin dalla fine del XIX secolo, quando i boulevard di Parigi si aprono ai grandi magazzini e alle merci prodotte dall’industria nascente. L’avvento della comunicazione pubblicitaria nei primi del Novecento tende ad alimentare un fenomeno che, parafrasando un noto adagio estetico, si può definire “un consumo per il consumo”, innescando un volano che smuoverà la Storia oltre ogni nostra previsione. Questa ideologia vincente, che è soprattutto una pratica produttiva ed una logica seduttiva, trasforma ogni merce in feticcio, come ha fatto notare Karl Marx in una della pagine più commentate de Il capitale. Circa un secolo dopo Deleuze e Guattari offrono in Millepiani un ritratto di quella identità frattale che sorge dall’evoluzione della specie giunta al suo prossimo passo storico: l’era del consumo, del super capitale e del feticcio diffuso decostruisce l’Uomo posto al centro del mondo dell’umanesimo rinascimentale e lo cybernizza. L’innesto corporeo della protesi tecnologica (fatto notare da McLuhan così come da Orlan) accompagna una profonda trasformazione spirituale dell’uomo gettato nell’immanenza e nella contingenza di un mondo fenomenico che non conosce più progetti superiori, piani divini, emancipazioni globali dal lavoro ma soprattutto dall’ideologia della libertà. Ideologia che, come racconta nel 1998 il filosofo francese Jean-Luc Nancy nel suo L’esperienza della libertà, si appiattisce e identifica con la libertà di (agire, possedere, conquistare ad acquistare), dimentica della libertà ontologica che ci fa essere ciò che siamo, esistenze in cammino; dimentica quel “abbandono” nel quale condividiamo la nostra natura di “progetti gettati”, secondo la definizione di Martin Heidegger.
A questa perdita di libertà ontologica, che nella Storia si ripete sotto forma di sistemi filosofici che impongono la propria verità assoluta, subentra nella nostra epoca una sostituzione oggettuale. Il “risarcimento” non avviene più tramite la consolazione della fede o la felicità promessa dall’arte, ma secondo i riti del consumo, la logica del comfort, la libertà di spostamento. Gli oggetti che desideriamo e che compriamo acquisiscono, tramite una magia promozionale, una serie di caratteri personali, sensibili, emotivi; raggiungono il fascino di una bella e distaccata apparenza. Diventano lo specchio della nostra identità frattale impegnata in nuove strategie di composizione del Senso. La creolizzazione antropologica ed estetica delle metropoli mondiali, teorizzata da alcuni pensatori non occidentali e sostenuta da curatori internazionali come Okwui Enwezor nella sua Documenta 11 a Kassel nel 2002, lascia pensare ad un incontro di culture lontane sulla base condivisa di “istinti” culturali rivolti alla antropomorfizzazione delle forze disordinate del cosmo e dell’esistenza. Sotto l’influsso di questi istinti, l’oggetto diventa umano troppo umano e supera la sua distinzione dalla persona. Al pari di ogni feticcio assorbe e riflette volontà, storia, temperamento.
Andy Warhol
Nel cuore dell’uomo tecnologico, moderno, colto e informato un nuovo feticismo risorge dalle proprie ceneri imponendogli di adulare immagini pop (come sa bene Andy Warhol), oggetti di moda, curve d’automobili e personalità fittizie mediatiche dentro un gioco mistificatorio che non ha più regole, barriere e inonda il globo così come la nostra più profonda individualità. Siamo nel nucleo problematico della “società dello spettacolo” indicato da Guy Debord, ma anche dentro la possibilità di risposte artistiche come la violenta ricostruzione di riti dell’Hermann Nitsch del “teatro delle orge e dei misteri” o come il tentativo di rigenerazione dello spirito di un Joseph Beuys, produttore eccelso di feticci vecchia maniera fatti di feltro e grasso animale.
Al pari di ogni merce, l’arte è divenuta un feticcio commerciabile che può accogliere significati eterogenei dentro i propri segni costitutivi. Il simbolismo che la proteggeva nei secoli passati da ogni interpretazione troppo terrena è decaduto con la scomparsa del mondo che questi simboli aveva creato e alimentato. Una nuova mitologia si è affermata, come insegna nel 1957 Roland Barthes nel suo libro Miti d’oggi. La presenza dell’arte al di fuori dei suoi luoghi preposti, la sua comparsa in televisione e in collezioni appartenenti a finanzieri di grido, stanno trasformando questo ultimo baluardo del Senso, dove la critica fa sempre più fatica a mettere ordine, in un ulteriore terreno di conquiste. La colonizzazione dal mondo dell’arte ad opera del capitale ne sta riducendo la forza estetica, fondata sul suo valore trascendentale, e la sta riducendo a rito mondano, a status symbol al pari di altre merci di lusso. Il feticcio postmoderno vince ed imprime il suo status su ogni forma della cultura. A questo destino pare difficile opporre un improbabile ritiro dal mondo. Più efficace sembra la strategia naturale di assecondare la secolarizzazione dell’arte tramite la sua trasformazione in super merce, in merce assoluta come dice Baudelaire. Una merce il cui valore ha dissolto in sé ogni pur minimo valore d’uso, secondo la distinzione marxiana e simmeliana, lasciando brillare nella sua assoluta ingiustificabilità il solo valore di scambio. “Compro arte perché non serve a nulla ma tutti la vogliono”, potrebbe essere lo slogan del nuovo collezionista adoratore disposto a dilapidare il suo impero economico per inseguire un segno sulla tela, una idea di resina, un’immagine elettronica. Ripartire da questa confessione, potrebbe significare (ri)portare l’arte a diventare un super feticcio, oggetto di una rinnovata adulazione che è passata indenne attraverso le maglie della secolarizzazione per tornare ad essere fede, credo, religione. (continua)

nicola davide angerame

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 37. Te l’eri perso? Abbonati!

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