30 ottobre 2012

Prendi i soldi e dona

 
Lo Stato è a secco? E non tutela le sue creature: musei e siti archeologici, come dovrebbe fare un buon padre di famiglia, visto che in Italia questi beni appartengono allo Stato? Forse anche da noi è arrivato il momento delle donazioni private per sostenere la cultura. Le norme ci sono. Confuse, a volte paradossali, fatte quasi per dissuadere. Ma ci sono. Ecco un breve vademecum su come scovarle. E utilizzarle

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Slogan, parola d’ordine indigesta specie al quarto anno di crisi? Ma, a parte la fastidiosa allitterazione, “Promuovere la cultura della donazione per una economia della cultura”, delle possibilità veritiere le apre. Vediamo quali. Se il sostegno diretto arranca, il supporto statale potrebbe almeno farsi valere in maniera indiretta, mettendo nero su bianco le condizioni favorevoli tra gli interessi di terzi e le ragioni del pubblico. Attenzione, però, ad intendere il privato come brand aziendale stampato sul retro di un catalogo: è un concetto stantio di filantropia, sebbene lungi a morire.

Da molto tempo si parla di cooperazione tra pubblico-privato come la strada maestra per il futuro, ma spesso questa idea (un altro slogan?) apre a un vicolo cieco. Il punto è che gli strumenti per innescare un percorso virtuoso, favorendo libere elargizioni, esistono già, ma sono poco conosciuti o poco applicabili, a causa di una vera e propria via crucis burocratica. Ne è un esempio l’articolo 100 del TUIR (Testo Unico Imposta sui Redditi) che consente di detrarre dal reddito d’impresa le erogazioni liberali a favore dello Stato, di pubbliche istituzioni, di fondazioni e associazioni per la realizzazione di programmi culturali. Fin qui tutto bene. Sennonché a scoraggiare i buoni propositi della legge, è un pedante (e fatale, a volte) controllo del Ministero dei Beni Culturali che, da terzo, si trasforma in un jolly ingombrante: stila un elenco periodico dei soggetti beneficiari, definisce le quote da destinare a ciascun ente e l’obbligo di informazione per le parti. Ma non basta: se una struttura riceve una somma superiore a quella prevista dal Ministero, questa sarà tassata del 37 per cento una tantum, ma ciò viene comunicato solo l’anno successivo. Chi è l’autolesionista che decide di erogare “liberalmente” a queste condizioni?

Come spiega l’avvocato Massimo Sterpi, Presidente del Comitato di Diritto dell’Arte dell’International Bar Association, che la scorsa estate ha tenuto al MAXXI un seminario sul tema, questo prelievo statale non è mai stato applicato, perché non a caso non mai è stato raggiunto il tetto massimo delle elargizioni, fissato a 139 milioni di euro, tanto che «le donazioni si fermano sulla soglia dei 30 milioni annui al massimo, quindi togliete quel vincolo e monitorate quanto basta», taglia secco Sterpi. L’appello sembra averlo recepito Antonia Pasqua Recchia, commissario del MAXXI, che recentemente ha aperto un tavolo di lavoro con l’Agenzia delle Entrate per eliminare questo limite alle donazioni per almeno un anno, un periodo di prova che potrebbe attenuare l’incertezza che aleggia tra chi devolve e chi riceve.

Anche la legge 80/2005, cosiddetta “più dai meno versi”, che prevede per imprese e persone fisiche la possibilità di detrarre fino al 10 per cento del proprio reddito – con un limite massimo di 70.000 euro – per donazioni in favore di fondazioni e ONLUS, è decisamente poco trasparente, oltre ad avere un risvolto grottesco: «L’assurdità applicativa in questo caso è che se il ricevente non presenta un bilancio adeguato e compie degli illeciti, ne risponde il donante!», sottolinea Sterpi. Diavoleria evitabile se si stilasse un elenco delle associazioni che presentano i criteri di “virtuosità” richiesti, una sorta di bollino blu. E per questi e altri motivi, «l’accesso al mecenatismo in Italia è paradossalmente più complicato delle sponsorizzazioni, per la paura di abusi fiscali: se oggi i dati sulle libere elargizioni sono di qualche decina di milioni di euro, le spese per le sponsorizzazioni li superano almeno di cinque o dieci volte», aggiunge Sterpi. Un meccanismo quest’ultimo, garantito nello Stivale da una filiera particolarmente corta: l’impresa costituisce la sua fondazione, e la stessa la finanzia per le sue attività culturali. Il risultato è che si tratta nella maggior parte dei casi di realtà sottocapitalizzate, nota ancora Sterpi, la cui sopravvivenza sarebbe stata impossibile senza i finanziamenti pubblici che l’ultima revisione di spesa, con un codicillo piccolo piccolo, il comma 6 dell’articolo 4, rischiava di cancellare se non fosse stato rapidamente cancellato a sua volta.

Qualche tiepido segnale di miglioramento però c’è. Lo dimostra l’articolo 40 del decreto “Salva Italia”, che prevede per privati e imprese la possibilità di sostituire con un’autocertificazione la documentazione da presentare al Ministero, oppure la possibilità, per la corrente dichiarazione dei redditi, di destinare il 5 per mille in attività a beneficio del patrimonio, secondo quanto contenuto nel d.l. 98/2011. Bene, ma quanto ci vuole per semplificare? Risponde ancora Sterpi: «Se si parla di leggi effettivamente l’iter burocratico è lungo, ma in molti casi stiamo parlando di decreti, semplici regolamenti applicativi cui si potrebbe provvedere a livello ministeriale». È di questi giorni l’annuncio di un impegno del Governo, sebbene ancora molto generico, sulla possibilità di snellire alcuni procedimenti.

Dunque, il problema non è tanto nella mancanza di norme, quanto nella loro ipertrofia, in un sovrapporsi di clausole, commi e cavilli tutti simili, eppure nessuno uguale. E non è un fatto solo italiano: un questionario proposto a 27 Ministri della Cultura, promosso nel 2011 dalla Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo, ha svelato un imbarazzo generale nel monitorare l’effettiva entità degli investimenti privati, stante una costante confusione di oneri con i Ministeri delle Finanze. Questo vuol dire che la poca chiarezza normativa ha radici più profonde che, almeno in Italia, affondano anche nella cronica mancanza di analisi statistiche sulla spesa culturale: è del 2000 l’ultimo screening sul tema, il Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, mentre in Germania, Spagna e Svezia queste indagini sono meno estemporanee e, soprattutto, sono di competenza statale, come fa notare uno studio del Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe.

Riguardo questi problemi strutturali, alcune migliorie potrebbero venire dal basso, a partire dalla promozione della fiscalità di vantaggio, argomento sconosciuto ai più: «Sono gli enti i responsabili di un gap tra il cittadino e le istituzioni che va colmato», nota Antonia Pasqua Recchia. Per questo motivo il MAXXI sta elaborando un vademecum sulle agevolazioni previste per donazioni e sponsorizzazioni, fermo restando che «la comunicazione dovrà essere costante e capillare, affrontando l’argomento tutte le volte che avremo l’opportunità di confrontarci con sponsor e soggetti terzi».

È finalmente l’occasione buona per ridisegnare relazioni troppo spesso unidirezionali (e forse anche per questo episodiche) tra chi dà e chi riceve, impostandole invece sulla possibilità di vantaggi certi per entrambi? Nulla di verticistico, osserva ancora il commissario Recchia, e infatti l’iniziativa lanciata in questi mesi dal Sole 24Ore dimostra che è possibile chiamare a raccolta enti ed istituzioni diverse, costruendo un mosaico proficuo.

Ma se si parla di pragmatismo, bisogna ripartire da ancora più in basso, rivalutando una figura che oggi è incollata come un’etichetta su ogni profilo lavorativo: dall’amministratore al direttore di museo (lo dimostrano i recenti bandi di concorso), chiunque deve vestire i panni del fund raiser, ruolo oggi imprescindibile ma poco proficuo, se condotto in modo occasionale e privo di una professionalità riconosciuta. Quindi, alla luce delle normative esistenti, la ricerca di finanziamenti potrebbe virare dalla questua attuale a strategie volte a creare punti di incontro tra interessi anche diversi. Secondo quanto riporta ancora l’indagine di Bruxelles questo è uno degli aspetti che traccia il solco tra la visione europea di “bene comune” e quella americana, dove la presenza di istituzioni storiche come la “Fundraising School” dell’Indiana University, non lascia dubbi sull’impraticabilità della politica della questua. E tutto ciò ha una sua coerenza: ammesso e non concesso che la cultura sia un bene di mercato, il concetto va applicato dal primo anello della catena: chi trova i soldi e per chi.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 80. Te lo sei perso? Abbonati!

1 commento

  1. Il problema esiste come è bene descritto nell’articolo,ma è anche vero che i direttori delle arti fiere,musei che vengono pagati molti bene spesso non hanno una preparazione adeguata per portare profitto alla collettività.
    Ritengo che bisogna anche puntare su le idee di sviluppo. Una gestione di marketing aziendale l’Italia non è in grado di gestirla e questo comporta anche un difetto a tali eventi.Siamo riusciti in una piccola realtà come Vergato ad attivare eventi culturali con la collaborazione di artisti contemporanei,proloco dei territori,comuni e idee dove le spese affrontate sono state riprese senza chiedere finanziamenti. Credo che in questo momento “particolare” bisognerebbe puntare anche più dalle buone idee di progetti che vengono affrontati per la cultura. Spesso le piccole realtà dei territori non vengono prese in considerazione neanche da parte di emittenti televisive come la RAI pur essendoci delle istituzioni ad attivarsi in modo positivo. Non solo ma le banche, e le grandi aziende puntano sempre nei territori di città più importanti come Milano,Venezia ecc lasciando da parte territori piccoli come paesi e dove esistono anche musei, o costruzioni architettoniche di artisti che hanno contribuito alla storia dell’arte contemporanea.Due realtà che andrebbero unite e che spesso vengono separate la storia con l’arte contemporanea. Poi un altro problema dell’arte contemporanea di artisti emergenti che non tutti si adoperano a valutare : la famosa vendita di opere sempre vendute a nero senza dare un valore effettivo commerciale alle opere d’arti e senza dare una garanzia ai collezionisti. Su questa situazione nessuno punta . Per questo motivo è stato pubblicato nel mese di ottobre nella rivista arte Mondadori l’esempio di un registro artisti che potrebbe diventare una forma di monitoraggio di reperibilità delle opere oltre ad introdurre all’interno delle riviste di settore a costi veramente irrisori artisti emergenti dove il collezionista può seguire il suo investimento. Il registro potrebbe essere preso in considerazione anche dalle case d’asta Italiane perchè l’artista dichiarerebbe le vendite delle opere già effettuate presentando una vendita certificata.
    Questo registro se venisse preso in considerazione dal ministero e se fosse fatto un accordo con le case d’asta italiane. le opere inserite in questo registro con allegato la vendita certificata le case d’asta
    potrebbero prenderle in considerazione .
    Questa soluzione ritengo per l’arte contemporanea porterebbe anche mercato dall’estero per gli artisti emergenti determinando le quotazioni reali di vendita delle opere d’arti.L’artista avrebbe l’interesse a dichiarare la propria opera perchè determina il valore del suo operato,il collezionista avrebbe una garanzia pagando anche l’IVA e le gallerie si sentirebbero costrette a fatturare tutto perchè l’artista esigerebbe una copia della vendita.
    Questa ritengo che sia una soluzione iniziale per gli artisti contemporanei ma che ovviamente non prendono merito perchè negli ultimi anni la speculazione dell’arte contemporanea si è basata solo esclusivamente su la promozione e difficilmente sono stati grantiti i collezionisti.Chiediamo sempre finanziamenti, ma ritengo che le buone idee possono partire veramente con poco ma nessuno punta su questo.Siamo stati abituati male posso comprendere il finanziamento per delle ristrutturazioni artistiche storiche per poi attivare contemporaneamente un progetto parallelo del marketing per portare turismo nel nostro paese con iniziative culturali ed eventi che possono coinvolgere la popolazione
    ma non credo ai finanziamenti dati ai musei, a fondazioni di cui tutti sappiamo bene come funziona il sistema. Giustamente le aziende possono essere di aiuto come bene sappiamo ma spesso investono con progetti culturali quando sono certi di chi sa veramente gestire bene l’immagine dell’azienda. Per fare questo bisogna avere il mestiere e la conoscenza di come lavorare per le aziende e spesso questa valutazione non viene mai presa in considerazione da parte di chi opera nel settore dell’arte.

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