29 ottobre 2017

Roma quanta fuit, ipsa ruina docet*/2

 
Cultura e politica nella Capitale d'Italia, ecco la seconda parte. Con uno sguardo sul possibile (?) futuro del Macro, e su quello che potrebbe (?) essere. Se vi fosse un'altra visione

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Sin qui ho dunque parlato dei fatti, ma com’è noto c’è anche un’ipotesi, che per la verità, da quanto mi dicono, è sul punto di concretizzarsi. Mi riferisco ovviamente all’incarico(?), alla nomina(?), che è in procinto di ricevere Giorgio De Finis per la realizzazione di un progetto annuale(?), biennale(?), triennale(?), per il Macro di via Nizza(?), per la sede del Testaccio(?) o per entrambi(?). Immagino che presto ai punti interrogativi corrisponderanno adeguate risposte. Nel frattempo procedo con una considerazione conseguente all’ultima parte del mio quesito, come dicevo inevaso in sede di conferenza stampa dall’Assessore. Evidentemente la risposta sarebbe stata un no. Semplice: non faremo una call pubblica per la nomina del direttore, o curatore, del Macro. Premetto che per come sono organizzati i concorsi per la nomina dei direttori nei musei italiani, questa scelta di per sé non è da disprezzare. Come me molti “addetti ai lavori”, infatti, nel novanta percento dei casi conoscono il nome del vincitore già all’inizio della valutazione dei candidati, e quindi a questo punto è senz’altro da preferire una nomina diretta, della quale il nominante si prende tutte le responsabilità. I “criteri magmatici nella valutazione dei candidati”, così come ha scritto il vituperato Tar del Lazio, sono una triste realtà non solo per la selezione dei direttori dei musei nazionali, ma in modo ancora peggiore per quelli locali del contemporaneo. 
In ogni caso c’era un’altra soluzione possibile, tra l’altro quella in fondo più attesa da un Movimento che della trasparenza e della meritocrazia si è fatto strenuo paladino, cambiando non tanto le regole, quanto il modo di applicarle. E cioè, in breve, sarebbe stato possibile lanciare una call pubblica per la direzione, o la curatela, del Macro, che oltre ai titoli del curriculum, prevedesse la stesura di un progetto artistico e gestionale del museo. E fin qui nulla di nuovo. La novità sarebbe stata quella di pubblicare i progetti sottoponendoli quindi al giudizio di tutti gli interessati, dagli “addetti ai lavori” ai semplici appassionati. Tecnicamente sarebbe stato possibile creare un doppio step di giudizio tra una commissione di esperti e il pubblico, oppure studiare una modalità di giudizio in sinergia. La pubblicazione dei progetti sarebbe stata possibile tanto sul sito web del Comune come su quello delle riviste specializzate. 
Così strutturato sarebbe stato un concorso interessante, anche per Giorgio De Finis, ne sono certo. 
Quanto all’incarico, o nomina che sarà, del citato e unico, a questo punto, candidato, forse è il caso di dire qualcosa di meno banale e sciatto di quanto sin qui si è letto su quotidiani e riviste, per non parlare dei commenti su FB. 
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Big Rocket – il razzo per andare sulla luna Foto Luca Ventura
Non conosco benissimo De Finis, ci saremmo incontrati un paio di volte, sempre in occasione delle mie diverse visite al MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia) sulla via Prenestina. Ho anche letto poco dei suoi scritti, ma questa è evidentemente una mia mancanza. 
In ogni caso, ho sempre tenuto in grande considerazione il MAAM per l’impegno e il coraggio evidentemente necessari alla sua messa in opera, per la capacità di stare in equilibrio sul filo sottile che si stende tra legalità e illegalità, tra reale partecipazione delle persone che vivono nella ex fabbrica e il rischio di un loro utilizzo strumentale. Senza però che tutto ciò m’impedisse di riflettere sui fili non così sottili che dividono l’arte che si pone questioni politiche da quella che le adopera perché di moda o utili all’occasione, ma direi soprattutto tra ciò che è arte e ciò che non lo è, o forse dovrei meglio dire tra artisti e opere interessanti, a prescindere dal luogo e dalla situazione in cui sono collocati, e quelli che comunque sono dei mediocri, degli artisti minori si sarebbe detto secoli fa. Mi pare che una delle criticità del MAAM, che se ho ben capito dovrebbe essere modello almeno in una certa misura del futuro corso del Macro, sia proprio qui, in quest’idea d’indifferenziazione qualitativa tra ciò che a vario titolo e su basi altrettanto indifferenziate viene chiamato arte. L’arte è per tutti, ma non tutti sono in grado di farla, e a confortare la nostra piccola esperienza in tal senso c’è nientepopodimeno che la storia. Tra l’altro, e nello specifico, l’argomento che l’arte di oggi non sia giudicabile in base a dei criteri più o meno condivisi da quello che è un ambito di ricerca professionale accreditato, che nelle sue storture purtroppo diventa sistema unicamente di mercato, appare in questo caso solo una foglia di fico, anche piuttosto puerile se poi si pensa che l’approdo debba comunque essere un museo con il suo inevitabile crisma di ufficialità. Quello che dunque contesto, in termini di coerenza e propriamente di consistenza artistica e intellettuale, è questa necessità di cercare legittimità nel cosiddetto mondo dell’arte per un progetto che ha avuto un senso che intendeva prescindere da esso e che di fatto si poneva fuori di esso. 
Il Teatro Valle Occupato, per citare un’altra emblematica situazione di occupazione romana, scelse invece di stare da subito dentro una certa ufficialità teatrale e performativa, facendo barriera protettiva alla propria contestazione con quanto di meglio artisticamente, ma anche politicamente, era presente sulla scena e ottenendo infatti degli importanti riconoscimenti internazionali proprio per le sue produzioni.
Tanto per citare invece un caso non italiano, nel maggio del 2012 a Cuba, ho assistito alla nascita del progetto Mac San nella periferia de L’Avana, nel quartiere popolare di San Agustin, oggi diventato Laboratorio Artìstico de San Agustin (http://lasa-cuba.blogspot.it/). Un progetto fondato dall’artista Candelario e dalla curatrice Aurélie Sampeur, che lavora tra e con gli abitanti di un quartiere non proprio semplice, chiamando a collaborare artisti, critici, curatori, architetti, pensatori, scienziati da varie parti del mondo con falegnami, meccanici, fabbri, muratori, contadini e studenti del luogo. L’arte, la cultura, la ricerca sono riconosciute come strumenti per migliorare la società, così come la collettività del luogo è riconosciuta come portatrice di un’esperienza propria altrettanto fondamentale. Un legittimarsi reciproco che è prima di tutto politico, nel senso più ampio e migliore della parola e che non ha bisogno di trovare a sua volta consenso ufficiale nel sistema museale de Bellas Artes de L’Avana, perché semplicemente la cosa non avrebbe senso.
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Macro, Via Nizza
Come immaginate bene, quella della call pubblica era solo una delle cose di cui avrei voluto parlare con l’Assessore. Le altre avrebbero riguardato una diversa organizzazione del neonato Polo del Contemporaneo.
Tenendo ferma la necessità di ottimizzare servizi e risorse, che giustamente non potevano passare che per un ridimensionamento in tutti i sensi di Zètema, mantenendone però un suo impiego, ricondizionato, nelle diverse sedi di tutti i musei comunali, la mia idea nel complesso era un tantinèllo (sic!) diversa.
Iniziamo dal Palaexpo. Concordo nella decisione di dissociare da esso la Casa del Jazz, che più coerentemente diventerà parte della Fondazione Musica per Roma. Ma quello che senz’altro manca al Palazzo delle Esposizioni è una sua propria missione e un conseguente gruppo dirigente e organizzativo in grado di realizzarla. L’idea di renderlo un luogo espositivo dedicato alla scienza può anche funzionare. Ma perché non pensare in questa fase di limbo ad un concorso di idee e relativo sviluppo? Anche qui sarebbe stato interessante e forse non privo di piacevoli sorprese coinvolgere competenze presenti sul territorio locale e non solo. 
Per il Macro la soluzione avrebbe potuto essere facilmente quella di renderlo di fatto un museo più presente e diffuso sul territorio, agendo prima attraverso poche e semplici decisioni politico amministrative, per poi passare ad un più specifico indirizzo della sua missione. La fase preliminare sarebbe stata ovviamente quella di dargli autonomia, se non con la creazione di una fondazione, forse troppo complicata e soprattutto onerosa oggi, di sicuro staccandolo dalla Sovrintendenza e dandogli nuovamente la posizione di ufficio e di centro spesa autonomo sotto il diretto controllo dell’assessorato. Questo passo sarebbe stato solo il prologo ad una riorganizzazione dello stesso nelle due parti di via Nizza e del Testaccio, che evidentemente per collocazione urbana e per tipologia spaziale hanno vocazioni e possibilità espositive molto differenti. Il primo, quello di via Nizza, più adatto all’esposizione della collezione e alla realizzazione di mostre personali di artisti e di progetti collettivi, come si dice già storicizzabili e musealizzabili; mentre al Testaccio si sarebbe potuto aprire un vero e proprio laboratorio dedicato ad artisti e a linguaggi emergenti. Ma non solo. La Pelanda, praticamente uno spazio senza identità e missione definita, sarebbe potuto facilmente diventare uno spazio di coworking, affittato ad artisti, architetti, designer e grafici, unendo così le diverse realtà presenti nell’ex mattatoio e non secondariamente fornendo una rendita (risorse economiche) direttamente utilizzabili dal Macro. 
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Casa del Jazz, Roma
Ma non solo. Un’altra azione possibile, direi anzi necessaria, avrebbe potuto essere quella di portare l’Aranciera di Villa Borghese, il Museo Bilotti, sotto la diretta gestione dello stesso Macro, anche qui differenziandone la missione verso uno specifico espositivo come ad esempio quello dell’arte ambientale, vista la sua collocazione. Un museo questo che, come si ricorderà, doveva all’inizio ospitare la collezione dell’imprenditore Carlo Bilotti, ma con una consistenza ben più ampia delle 23 opere oggi esposte, che tra l’altro non sono tutte di quella qualità da giustificare la titolazione di un museo. Sul serio non si capisce bene a questo punto che ruolo abbia questo luogo, per le modalità in cui opera, nel già caotico panorama espositivo romano. L’idea di portarlo sotto la gestione del Macro mi sembrerebbe la migliore, ma in ogni caso sarebbe a questo punto opportuno che l’attuale amministrazione ne ripensasse gestione e funzione.
Non da ultimo il Macro, grazie anche a questa nuova autonomia e razionalizzazione delle sue attività, avrebbe potuto porsi a capo e a coordinamento di un progetto didattico esteso a tutte le scuole della città, dalle periferie verso il centro, chiamando alla collaborazione tutti gli artisti, i critici e i curatori romani. E non c’è né uno, al quale ho accennato quest’idea, che non mi abbia dato la sua disponibilità.
Si sarebbe così messo in campo un poderoso e rivoluzionario progetto di educazione all’arte contemporanea attraverso laboratori, incontri e lezioni, concordato con i plessi scolastici delle scuole medie inferiori e superiori, con lo scopo di portare l’arte nelle scuole ma non di meno con la possibilità concreta di creare le premesse per un interesse diffuso davvero in tutto il territorio, al cui centro ci sarebbe stato appunto il museo come punto di partenza e di ritorno. Sarebbe stata un’azione intensamente politica da parte dell’arte e della sua istituzione di riferimento, al di là dei linguaggi, delle iconografie e dei luoghi nei quali ci si mostra, proprio perché destinata allo sviluppo della conoscenza e del pensiero. 
Raffaele Gavarro
*Quanto fu grande Roma, lo testimonia la sua stessa rovina. 
La frase è comunemente attribuita a Ildeberto di Lavardin (1056–1133) Vescovo di Le Mans e Arcivescovo di Tours.

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