26 maggio 2015

Una biennale da discutere/2

 
Questa volta a riflettere sulla mostra All the world’s futures di Okwui Enwezor sono Ludovico Pratesi, Paola Tognon e Raffaele Gavarro. Ecco le loro opinioni

di

Ludovico Pratesi. Guardare e conoscere l’altra metà del mondo 
Complessa. Questa è la parola giusta per definire la 56esima biennale arti visive, la prima diretta da un curatore africano, dopo una lunga serie di italiani (dal 1895 al 1993), un francese (Jean Clair, 1995), uno svizzero (Harald Szemann, 199-2001) due spagnole (Rosa Martinez – Maria de Corral, 2005), un americano (Robert Storr, 2007) e uno svedese (Daniel Birnbaum, 2009). Un dato non da poco, considerando il fatto che Okwui Enwezor è stato anche il primo curatore non europeo della Documenta nel 2002, oltre che fondatore della prima rivista d’arte contemporanea del continente africano nonché curatore della seconda biennale di Johannesburg, nel 1997. Dati da prendere attentamente in considerazione, per una biennale dove un’alta percentuale di artisti, di cui molti sconosciuti, sono africani o afro-americani, pronti a mettere sul piatto le problematiche derivanti da questa identità. 
Una Biennale che afferma la presenza di artisti neri che si confrontano con la scena dell’arte planetaria per la prima volta da protagonisti, accanto a star acclamate da critica e mercato, in una cornice costruita per rendere le loro istanze più forti ed efficaci possibili, arrivando fino a stravolgere la struttura della manifestazione con l’inserimento dell’Arena, uno spazio performativo e dinamico in grado di rendere la mostra dinamica e attuale. Una rassegna che vede il Padiglione Centrale dei Giardini come uno spazio più meditativo programmatico e atto all’ascolto (non per nulla l’Arena ne occupa lo spazio centrale), con una forte presenza di opere emblematiche di artisti storici (Mauri, Boltanski, Smithson, Evans, Piper) quasi a voler sottolineare il frame culturale dell’intera mostra, ancorandola alla storia dell’arte nei suoi risvolti sociopolitici più marcati ma lasciando spazio ad opere di incredibile intensità come The Vertigo Sea, il video del ghanese John Akomfrah: un’immersione nelle acque dei mari del mondo, minacciati da ogni sorta di problematiche, rese con un linguaggio chiaro e diretto e di notevole poesia. 
John Akomfrah, The Vertigo Sea
L’Arsenale è invece un luogo più affollato, quasi claustrofobico, dove prendono corpo le istanze dell’oggi in maniera forte e spesso drammatica: un labirinto dove si accumulano i futuri del mondo, simili a celle buie di un carcere, dove occorre muoversi con estrema attenzione per evitare di cadere vittima di mille pericoli. Un incubo annunciato già dall’esterno dall’installazione di Ibrahim Mahama, che ricopre di sacchi il corridoio esterno delle Corderie, e ribadito dall’installazione di Adel Abdessemed, con i coltelli piantati sul pavimento a comporre fiori taglienti, illuminati dalla gelida luce dei neon di Bruce Nauman. In un percorso espositivo dominato dall’ombra, spiccano gli accumuli di seghe elettriche nere di Monica Bonvicini accanto alle sculture di Terry Atkins, artista afroamericano scomparso di recente, ignorato in vita e celebrato post mortem. Memorabile il doppio video di Steve McQueen Ashes, giocato sull’equilibrio tra vita e morte, bellezza e oblio, che potremmo assurgere a simbolo di una mostra che si sottrae a sguardi e giudizi superficiali e chiede di essere vista e rivista più volte per coglierne l’essenza, anche perché All the world’s futures non sembra rivolgersi a noi, ma si configura come un progetto articolato e ideologicamente sostenuto da un statement determinato dalla volontà di esprimersi di un’intera razza, per troppo tempo tenuta ai margini del mondo culturale e non solo. 
Armati di molta umiltà, prima di giudicarla, ascoltiamone le istanze, senza sgomentarci di non essere più il centro di un mondo non certo rassicurante, dove la complessità sembra diventare l’anima di un tempo dove è più facile perdersi che ritrovarsi. E l’arte rimane una delle poche bussole ancora funzionanti, anche quando punta l’ago verso l’inferno.
 Arsenale, Armando Lulaj, foto altrospazio
Paola Tognon. Ho sfogliato un ampio volume
Lenta la ripresa dalla maratona dell’opening di questa 56° Biennale Arte di Venezia: non ho ancora terminato  quel processo di digestione ed elaborazione che, mettendo il fuoco della riflessione ad una certa distanza dalla visione, permette di tornare sulle cose e, con il dovuto distacco, tirare qualche somma. Ma questo è già un sottile ma persistente campanello di allarme intorno a All the world’s Futures, la mostra di Okwui Enwezor, curatore di questa Biennale che meglio ricordo come curatore di Kassel. 
Cosa mi rimane ad oggi di questa mostra?
Una sensazione di confusione sui suoi obiettivi, sulle tesi portate avanti e dispiegate attraverso tre capitoli di riflessione e relative opere, sulla scelta specifica delle opere e prima ancora degli artisti, sul modo di proporle. Ho poca chiarezza al merito di tutto ciò, in un fluire di visioni e riflessioni che non trova parametri per l’obiettivo dichiarato: dimostrare una diversità di pratiche. E certamente l’allestimento stesso delle due mostre, nella sede delle Corderie come nel Padiglione Centrale dei Giardini non mi ha aiutato: la suddivisione rigorosa degli spazi, a volte anche vincolante e un po’ punitiva come nelle Corderie, non ha certo facilitato quei processi di relazione o di contrapposizione fra le pratiche dell’arte. Poche relazioni, pochi scontri, poche osmosi. 
 Christian Boltanski, Animitas, 2014. Photo Amparo Irarrazaval
Posso sintetizzare descrivendo la sentita mancanza di un lavoro curatoriale capace di coinvolgere opere e visitatori in un fluire anche contraddittorio di tesi ed esperienze. 
Aggiungo però, senza voler qui entrare nel merito di singole opere o artisti, alcune considerazioni certamente positive. Per la prima volta ho sentito l’Africa più vicina, meno post e neo coloniale, meno esotica e cool e perciò in qualche modo felicemente ordinaria nella sua vasta e sconosciuta complessità. Ho registrato l’efficacia del dispositivo della Platea situata al centro del Padiglione Centrale dei Giardini, ho accolto la sollecitazione intelligente e puntuale della ri-lettura di Karl Marx.  Ho raccolto molte informazioni, conosciuto molto artisti, registrato opere, istituzioni e gallerie finalmente diverse da quelle di rito incontrate nelle ultime edizioni della Biennale Arte.  Ho visto dei bellissimi lavori, ho incontrato presenze inter-generazionali svelate con arguta libertà critica, ho goduto della sobrietà della messe in scena, ho speso volentieri il mio tempo-opening seduta davanti a lunghi video e cortometraggi.
Ad oggi posso dire di aver letto un ampio volume, interessante dal punto di vista della eterogeneità e della novità di molte proposte, interessante per i molti spunti critici e di osservazione, ma mi manca la sensazione di aver partecipato allo svelamento di una mostra in grado di diffondere energie, idee e proposte.
Adel Abdessemed e Bruce Nauman, Arsenale, Biennale di Venezia 2015, foto di altrospazio
Raffaele Gavarro. Faticosa e dialettica
Un’espressione che ho usato spesso nei giorni successivi all’opening della Biennale, quando mi si chiedeva un’opinione sulla mostra del curatore, è stata: faticosa. Non è un giudizio negativo, ma solo la constatazione di una fruizione volutamente meno fluida, scorrevole, di questa mostra rispetto alle precedenti, e questo soprattutto all’Arsenale. 
La Biennale è una mostra difficile, forse la più difficile di tutte. Non saprei dire se la più importante, ma di sicuro è quella che presenta le maggiori insidie, divisa com’è tra la mostra principale, i padiglioni nazionali e le collaterali, il tutto a formare in qualche modo un’unità nell’immaginario del pubblico, che rende il giudizio quasi mai univoco. 
A questo proposito un altro aggettivo che ho usato è stato: dialettica. E non solo motivato, anche se invogliato, dalla centralità della riflessione proposta sul pensiero di Karl Marx, o per dirla meglio sul precedente metodo hegeliano divenuto poi materialista, quanto proprio per l’intenzionalità del curatore di costruire spazi espositivi e mentali di confronto, senza voler offrire soluzioni, ma cercando di dare un senso alle domande che assillano i nostri tempi attuali. 
 Irina Nakhova, Padiglione della Russia, Biennale di Venezia 2015
Faticosa e dialettica, dunque, e con molte contraddizioni.
Okwui Enwezor afferma, tra le altre cose, nel testo introduttivo, che l’arte non ha obblighi e che può scegliere di non impegnarsi nel sociale, e nel politico naturalmente. Giusto. Ma dice anche che una mostra invece non può esimersi dal considerare il proprio contesto culturale, restituendo una visione. Io non sono sicuro che le due cose siano separabili, almeno non ne riesco a vedere il modo, a meno che non si pensi che il curatore debba, o possa, piegare il senso delle opere ad una propria idea precostituita. Per la verità sono poche le opere esposte che non esprimono una qualche idea sulle problematiche del contesto attuale, ivi comprese quelle scelte di artisti non più vivi. Le contraddizioni emergono più da una discontinuità qualitativa delle opere selezionate, ma nondimeno, e forse soprattutto, dall’immancabile resa a ciò che in questo momento storico è più in antitesi con un ruolo critico dell’arte nei confronti dei poteri, e cioè a quel sistema dell’arte internazionale che è parente stretto del sistema finanziario globale in cui si è trasformato il capitalismo. Non sono causate da quest’ultimo le rovine che l’angelo della storia oggi sta guardando mentre continua a volare verso un futuro sconosciuto?
Per la prima parte della nostra inchiesta:

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