16 novembre 2015

Abel Azcona/L’Intervista

 
METTO IL MIO CORPO A TUA DISPOSIZIONE
Performer estremo, Azcona è per la prima volta a Roma. E si racconta qui mettendo a nudo se stesso e lo spettatore

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Lunedì 16 Novembre inaugura a Roma alla Galleria Rossmut per la prima volta in Italia, la personale di uno degli artisti-performer più controversi e discussi degli ultimi anni: lo spagnolo Abel Azcona, classe 1988; catalogo e mostra sotto la cura audace ed attenta di Diego Sileo. La mostra è il risultato della performance che Azcona ha realizzato in un albergo di Madrid il 28 e 29 marzo 2015. Dietro pagamento di 100 euro, 24 partecipanti hanno avuto a disposizione un’ora di intimità da passare senza limiti con l’artista. Il ricavato è stato successivamente donato ad un progetto di reinserimento nell’ambito della prostituzione maschile a Madrid. Tutto si è svolto nel completo anonimato, ai partecipanti è stato richiesto solo uno scritto anonimo, sull’ora trascorsa. Le uniche testimonianze fotografiche, ritraggono l’artista subito prima e dopo ogni ora di “prostituzione”. Lo abbiamo intervistato.
In Las Horas ti offri a visitatori/clienti dietro un pagamento di 100 euro, e permetti loro di realizzare con te qualsiasi atto desiderato per un’ora. Quest’opera richiama alla mente la tua biografia: il fatto che sei stato concepito proprio da un rapporto tra una madre-prostituta e un padre-cliente. Al confine tra uno stato empatico-biografico ed uno artistico, quanto c’è di reale e quanto di “artificioso” nelle tue performance? Cos’è la realtà per te?
«Se i miei processi performativi non fossero al cento per cento reali non li farei. Questo è il motivo per cui sono compromessi con la mia vita reale, spesso essendo parte di essa, non distaccati. Las Horas è un momento totalmente libero, forse anche più libero di un processo di limitazione reale dove la prostituta solitamente dice di no, o mantiene sicurezza nel luogo dove opera. Nel mio caso, il no, non c’è. È un ritorno alle mie esperienze di abuso sessuale, è un ritorno alla vita di mia madre. Una ricerca di empatia con la mia notte di gestazione, ma più difficile, più sporca, più libera. Sottoponendo il mio corpo all’esaurimento dell’abuso consecutivo che implica la prostituzione. Non è più un abuso sessuale perché avviene con uno scambio monetario, piuttosto che con una pistola o con l’uso della forza. La realtà per me è una zona estrema. Ho vissuto in un ambiente estremo, pieno di povertà, maltrattamenti e abusi. Droga e sesso a pagamento. Questa è la realtà, ed è la realtà in cui mi sento a mio agio. E ho l’opportunità di portare questa realtà ad un pubblico di una galleria che può essere contaminata e trasformata con la mia reale prostituzione».
Abel Azcona, Las Horas 2015
Cosa rappresenta per te la pornografia? Può esistere una visione pornografica universale libera dai condizionamenti culturali e dalle giurisdizioni nazionali? Per un artista, cedere alle logiche di mercato può rappresentare un atto pornografico?
«La mia opera non è pornografica nell’approccio. Lo spettatore trasforma la pornografia in esibizione, eccitazione e molti altri termini che il “porno” implica. In questi processi sessualmente espliciti io cerco una responsabilizzazione personale nel dolore, non faccio uno spettacolo sessuale o erotico. Lavoro il sesso a partire dall’abuso, il dolore e il macabro. Non a partire dalla libertà o la rivendicazione, e ancor meno dal piacere. C’è più critica in un figlio di puttana che si lascia abusare come risposta e residuo di una società danneggiata. È la fine di un cerchio. Dove lo spettatore viene messo contro la spada e la parete. Per rendere questo qualcosa di critico costringendo il visitatore fino all’estremo. Niente di più meraviglioso di trasformare lo spettatore in mio padre, l’uomo che ha scopato mia madre e ha pagato per una notte».
Diego Sileo nel saggio pubblicato in catalogo parla anche di cinematografia, per evidenti rimandi nella tua performance all’impianto di matrice pornografica dei film di genere, e al concetto di “nuova carne” usato per la prima volta nel film Videodrome da David Cronenberg. Ti ritrovi nella visione post-umana fatta di un corpo cangiante e trasformato dal flusso mutante dei media?
«Io sono più semplice, mi affascina la visione esterna dei progetti con forza sessuale e con ricerca di empatia. Agisco esclusivamente a partire dal “carnale”, da ciò che è infantile, e lo spettatore converte ciò in una propria esperienza, pornografica, piacevole, critica, secondo la visione individuale. Credo nella cinematografia reale, non nella finzione, quindi, se si scopa, si scopa, se si trasgredisce, si trasgredisce realmente. Se vuoi che lo spettatore si senta sporco e capisca cosa vuol dire abusare, il mio culo deve essere disponibile».
Abel Azcona, Las Horas 2015
Attraverso la performance di Madrid dai voce ai desideri puri ed impuri, e ne permetti la loro realizzazione, abbattendo le barriere convenzionali tra artista e fruitore, così come restituendo l’originale impulso animalesco ai partecipanti. La tua arte è un atto estremamente altruista oppure esageratamente egocentrico? E se fosse catartica, lo fa svuotandoti o arricchendoti?
«La mia arte viene inizialmente da un processo totalmente egoista, forse altrettanto egocentrico. Ma per anni si è evoluta come catarsi da un processo individuale verso un processo collettivo, dove le persone coinvolte hanno anche mostrato e raccontato il loro abuso. Una catarsi collettiva. Io non faccio mai nulla di disinteressato, io ho pieno interesse nell’essere contaminato, usato e scopato. Il pubblico mi dà questa regressione all’infanzia, dove mi sento bene, alla mia paura, al mio abuso, quando a tre anni guardavo negli occhi del mio aggressore. Il visitatore è l’aggressore. A volte ha rapporti sessuali con me, altre volte no, ma egli sempre abusa di me, e spesso nemmeno lo sa. La mia catarsi consiste maggiormente nel riempire, piuttosto che nello svuotare, io funziono da saturazione, dolore, raggiungimento del limite, e desiderio di morte. Se non vivessi in bilico, forse non vivrei. In queste azioni metto in atto un processo di catarsi personale ai danni del visitatore che non sa cosa sta facendo, o spesso lo sa troppo bene. Ci scambiamo a vicenda il rispettivo orrore».
Abel Azcona, Las Horas 2015
La tua pagina fb è seguita da più di 40mila fan, e la tua pagina personale è in continua attività, sempre in contatto con migliaia di amici. Le tue performance stabiliscono un rapporto diretto con il pubblico: segui personalmente anche la comunicazione? Ha un ruolo importante questa per un artista oggi? Oppure l’euforia fa parte della tua ricerca direi quasi ossessiva di “esserci con l’altro”? 
«La galleria è un’entità dove lo spettatore ed io ci poniamo in collegamento, non solo in modo carnale, ma in molti modi. Ma oggi l’artista ha la possibilità di espandere la galleria alle sue reti sociali, al suo appartamento o al suo letto. Mi interessa il rapporto intimo con lo spettatore, non solo carnalmente, ma anche intellettualmente, ricevendo più di duecento messaggi al giorno sul sesso, da persone che vogliono essere aiutate, che intendono suicidarsi, che mi ammirano, che mi odiano. È un’orgia intellettuale, una orgia in rete. Mi affascina e mi dà tanto».
Cosa hai in comune e cosa differenzia il tuo lavoro da artiste performer che usano il loro corpo per denunciare alcuni fatti storici e sociali come per esempio Regina Galindo e Tania Bruguera?
«Rispetto molto entrambe, ma con Regina avverto maggior empatia. Noi tre trasformiamo o cerchiamo di trasformare una realtà di merda, ognuno con le proprie risorse e i propri mezzi. Siamo trasformatori, o cerchiamo di esserlo. Ma ognuno contaminato dal suo ambiente,  dal suo spazio, dal suo tempo e dal suo corpo». 
 Abel Azcona, Seropositive, 2013
Questa è la tua prima mostra a Roma, e anche la prima collaborazione con la Galleria Rossmut. Che rapporto instauri con un gallerista? Hai altre gallerie che ti rappresentano? In che modo ti relazioni con il mondo dell’arte partendo dalla considerazione che le tue performance sono estreme e spesso sessualmente così esplicite?
«Ho lavorato e lavoro con gallerie in Spagna, Bogota, Lione e New York. Ora in esclusiva con Rossmut in Italia. L’incontro con la titolare Gilda Lavia nasce da un interesse reciproco a Roma, sul politico, sul sociale, sul corpo politico. Rossmut possiede un progetto nuovo e di cambiamento, ed è una barca con la quale voglio navigare. L’artista contemporaneo che non è estremo o esplicito non ha il mio rispetto. Abbiamo una responsabilità sociale, anche se il nostro corpo o la nostra vita si perde in essa».
Come credi reagirà quella parte di pubblico romano clericale, “ben pensante”, riguardo al tuo lavoro? Sei credente? La chiesa riuscirà ad oltrepassare i limiti dogmatici ed avere una visione più progressista su famiglia, coppie gay, adozioni e sesso? O anche questa è solo un’ultima strategia comunicativa per non cadere nell’oblio del passato – o nel declino quasi inarrestabile dello strapotere globale?
«Che un bambino, come è stato nel mio caso, in una società eteronormativa e patriarcale e disgustosamente cattolica, venga obbligato a nascere, obbligando una prostituta a partorire, indica che il divino mi ha costretto a nascere. L’aborto è un diritto, non solo delle donne, ma anche del bambino. Dovrebbe esserci un diritto a non nascere. Se io non fossi nato, non avrei vissuto una vita segnata dall’abbandono, abusi e carenze psico-affettive. La chiesa mi sembra morta, è ancora una sorta di invenzione performativa obsoleta, non è più interessate. Colpevole di tante disgrazie. Io provengo da una città associata all’Opus Dei e che ha segnato il mio lavoro e la mia vita. La chiesa non fa violenza solo sui bambini, ma anche sulle menti. È come un genocidio intellettuale. Non mi interessa che la chiesa oltrepassi la limitazione, o sia  più progressista, voglio solo che sparisca».
Michela Casavola

4 Commenti

  1. Non ho capito che fa a Roma? espone le foto e i testi anomimi della performance di madrid o fa la medesima performance spagnola? per un artista che dice che gli interessa il reale, la trasgressione, ecc… esporre in una galleria delle foto non lo trovo granchè coerente. Se una azione la fai per te, come dice nell’intervista, perchè esporre? per i soldi? ma allora questa è vera prostituzione! la combatte da una parte e l’accetta dall’altra… mah

  2. Nella galleria sono esposte le opere che documentano la performance di Madrid, installazioni di fotografie e testi che raccontano esperienze reali. Nell’interazione tra l’artista e lo spettatore/partecipante avviene uno scambio di intimità, pensieri, spesso sesso, che non è unilaterale ma coinvolge entrambi. La presenza della documentazione in una galleria risponde direttamente alla funzione intrinseca di ogni opera d’arte, ovvero l’esigenza da parte dell’artista di comunicare un messaggio che, anche in questo caso, non si limita ad una situazione autoreferziale continuando il suo percorso di realtà fuori dalla stanza di un albergo. A rafforzare questa testi l’artista, durante l’opening della mostra in galleria, ha realizzato una performance ricreando la stanza di un albergo dove ha trascorso la sua ora con una prostituta, reale, scegliendo di mostrarla al pubblico che è divenuto così, inevitabilmente, parte di questa ora.

  3. La perversione sta in chi guarda! Lo ha dimostrato benissimo Azcona, e questa volta lo ha fatto in una galleria di Roma. La sua performance nel giorno di inaugurazione della mostra, consisteva nel poter fare tutto ciò che avrebbe desiderato, con una prostituta pagata dalla galleria stessa, per un’ora di prostituzione. Io c’ero quella sera e penso che abbia avuto senso farla li per dimostrare anche quanta perversione ci sia nel mondo dell’arte e nei posti “istituzionali” piuttosto che sui marciapiedi della città…soprattutto quando si parla di Roma.

  4. Attenzione a non confondere il lavoro di un artista con quello di un giornalista/documentarista. Il racconto che un artista fa della realtà spesso è molto più efficace di qualsiasi altro mezzo di comunicazione proprio perché si svolge in luoghi convenzionalmente non deputati a questo, galleria o museo che sia. E l’arte contemporanea per essere tale deve poter raccontare liberamente la nostra realtà, quella nella quale viviamo, altrimenti è solo finzione autoreferenziale…e di ciò non ne abbiamo più bisogno!

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