29 agosto 2010

ALLÔ ITALIA

 
Lo dicevamo, noi, che piangersi addosso non aveva senso. E nemmeno fingere che tutto andasse - e vada - a gonfie vele. Perché qui da noi, in Italia, i cervelli ci sono eccome. E non sempre fuggono. O meglio, sono cervelli nomadi, in giro per il mondo ma col pensiero ogni tanto al borgo natio. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Fusi e Massimiliano Gioni, curatori rispettivamente della Biennale di Liverpool e di quella di Gwangju...

di

Appena il tempo di vedere
la Biennale di Architettura a Venezia e poi si dovrà partire per l’Asia e
tornare in Italia passando dalla Gran Bretagna. Ma non sono troppe ‘ste
biennali?

Lorenzo Fusi:
Immagino possa dirsi lo stesso per tutte le mostre e non limitare il discorso
alle biennali. Anzi, potremmo estendere la riflessione all’intero mondo della
comunicazione e a quello dell’informazione. Troppe notizie non documentate, se
non faziose e manipolate, con una preferenza per lo scandalo e la pornografia
(mi riferisco principalmente alla spettacolarizzazione del dolore e alla
mancanza di rispetto per la dignità umana). Per quanto riguarda l’offerta
culturale, preferisco vivere nell’abbondanza. Non simpatizzo con nessuna forma
di censura o selezione preventiva. Uno può sempre decidere di restare a casa.
Dal punto di vista della sostenibilità, il discorso è più complesso. Credo che
sia necessaria una maggiore coordinazione fra eventi e manifestazioni culturali
che sono geograficamente e temporalmente molto vicini. L’attuale ristrettezza
di fondi sembrerebbe consigliare un approccio sinergico e non antagonista: una
collaborazione. Ma non conosco nessuna amministrazione locale disposta a
rinunciare al proprio “momento di gloria” a favore della cittadina vicina.
Colpa di politiche culturali non integrate e miopi. E di un ecosistema affetto
da molto protagonismo e incline alla vanità.

Massimiliano Gioni:
Non sputo mai nel piatto in cui mangio :)! No, davvero, io
sono un grande fan delle biennali, sia da spettatore sia da curatore. Sono
strumenti che concedono una grande libertà agli artisti, ai curatori, al
pubblico. E l’impatto che puoi avere con una biennale è raro raggiungerlo con
una mostra museale. Certo, poi ci sono molte eccezioni e bisognerebbe sapere
lavorare al meglio in ogni contesto.

Che differenza c’è, nel
2010, fra una biennale e una grande collettiva?

Lorenzo Fusi:
Nessuna: una biennale è una grande collettiva. Esistono tipologie distinte
(biennali che adottano filosofie, strategie e forme di presentazione diverse)
ma ai miei occhi sono tutte più vicine a una mostra tematica o collettiva che a
un’Esposizione Universale. Con l’eccezione di Venezia, con i suoi padiglioni
nazionali. La maggior differenza sta nel fatto che spesso si svolgono in luoghi
fisici dove di solito non esiste una programmazione continuativa fra biennale e
biennale e che spesso uniscono più istituzioni che (una volta ogni due anni) si
trovano a operare sotto uno stesso tetto.

Massimiliano Gioni:
Al momento a me in realtà interessa precisamente tornare all’idea che, prima di
tutto, una biennale deve essere una grande mostra. Non solo necessariamente
“grande” per dimensioni, ma grande per ambizione, complessità, impegno e
rilevanza. Non so se Gwangju riuscirà in questo obiettivo, ma ho cercato di
costruire la biennale proprio come una mostra, con un tema che credo ci
riguardi tutti: il rapporto tra persone e immagini, la proliferazione delle
immagini e il nostro bisogno di creare immagini di noi stessi e dei nostri
amati. Ho anche cercato di dare quell’approfondimento tematico e di ricerca che
ti aspetti da una mostra. E poi ho pensato di trasformare la biennale in una
sorta di museo temporaneo: ci sono molte opere storiche, alcune dimenticate,
altre celebri. Mi interessava l’idea di biennale come enciclopedia, anche se
suona un po’ troppo didattico.

L’Italia vista da fuori?

Lorenzo Fusi: Sarebbe
forse ora di capire come la vedono e la vorrebbero gli italiani che ci vivono,
più che domandarlo a chi lavora altrove.

Massimiliano Gioni:
La Corea del Sud ha battuto l’Italia ai mondiali del 2002. E nel 1966 anche la
Corea del Nord ce le ha suonate. Come dire: c’è sempre qualcosa da imparare. E
poi il mondo oggi – che ci piaccia o no – appartiene all’Oriente.

Capitolo organizzazione:
pregi e difetti dei luoghi dove state operando.

Lorenzo Fusi: Pregi:
trasparenza e correttezza nelle procedure, sistematica autovalutazione, fondi
per la ricerca e crescita professionale. Difetti: la struttura è soggetta a
grandi momenti di stress. Cercare i luoghi, definire le condizioni e stipulare
i contratti per il loro utilizzo temporaneo, la messa a norma delle sedi
(soprattutto in un paese, come il Regno Unito, spesso regolamentato in maniera
eccessiva se non contraddittoria), la difficoltà per ottenere i visti di
soggiorno e lavoro temporaneo per i cittadini extra-comunitari ivi inclusi gli
artisti, la produzione della quasi totalità delle opere in mostra e la
responsabilità nei confronti dei lavori commissionati a chiusura della
biennale… Sono tutti aspetti che mettono regolarmente a dura prova
fisicamente ed emotivamente tutti i nostri collaboratori.

Massimiliano Gioni:
Posso rispondere alla domanda quando vedo la mostra finita? Scherzi a parte,
devo dire che la Fondazione della Biennale di Gwangju è stata generosissima. A
New York ho una specie di shadow office, che lavora con me ogni giorno: non
molte altre biennali concedono questo livello di organizzazione. E poi l’ufficio
di Gwangju è molto attento alle esigenze degli artisti. Certo, il problema
della lingua e della comunicazione rende tutto molto ma molto più complicato e
il fuso orario rallenta tutto. Ma in fondo non credo fosse molto diverso,
chessò, dalla Biennale di Venezia nel 1985 per un curatore straniero e digiuno
di italiano. Quando ho fatto la Biennale di Berlino pensavo che i tedeschi
fossero giapponesi travestiti, ora che i coreani siano italiani in incognito.

Per questi eventi vi
trovate non esattamente nelle capitali consuete dell’arte contemporanea. Che
effetto fa?

Lorenzo Fusi: Venendo
da Siena, nonostante abbia vissuto anche in grandi città e viaggi molto, direi
nessuno in particolare. Colonia, per fare un esempio, era una delle capitali
mondiali dell’arte negli anni ‘90, al pari di New York, mentre oggi è
considerata un centro periferico. Lo scenario cambia rapidamente.

Massimiliano Gioni:
Gwangju è la Kassel d’Oriente. Una città francamente bruttina ma che ha deciso
prima di tutte le altre città asiatiche di puntare sull’arte contemporanea. Ed
è pur sempre una cittadina da un milione e mezzo di abitanti, quindi non un
paesino sperduto. Quello che forse non abbiamo capito ancora dalle nostre parti
è che capitali si diventa, non si nasce. Da Gwangju sono passati tutti: per
citare a caso dalle prime edizioni, Louise Bourgeois, Maurizio Cattelan,
Rirkrit Tiravanija, Gabriel Orozco, Jason Rhoades, Pipilotti Rist. E tra i
curatori delle varie edizioni ci sono Harald Szeemann, Okwui Enwezor, Hou
Hanru, Charles Esche, Kathy Halbreich. Il vantaggio di lavorare lontani da casa
è anche che si può sperimentare, senza temere la pressione di vicini, amici e
nemici. A Gwangju ho cercato di fare una mostra impossibile, gigantesca,
complicata: potrebbe essere un disastro totale ma almeno la vedranno in pochi
europei. Invece i coreani la vedranno tutti: ciò che rende unica questa
biennale è anche il pubblico. Più di mezzo milione di visitatori e tantissimi
studenti. Anche per questo ho deciso di venire fin qua: per fare una mostra
rivolta a tutti, non solo ai professionisti.

Un artista che vi siete
“portati dietro” e uno che avete scoperto in loco.

Lorenzo Fusi: Due quelli che seguo da tempo e ai quali sono
particolarmente legato: Alfredo Jaar e Do-Ho Suh. Ho conosciuto diversi artisti
in loco. Alcuni dei quali veramente bravi, come Imogen Stidworthy, il cui Barrabackslarrabang – presentato recentemente ad Art Sheffield – è una
vera perla. Ma, occupandomi di quella parte della biennale che (per statuto)
aspira a portare in Inghilterra artisti stranieri e non presentare l’opera di
coloro che già qui risiedono, non sono stati inseriti nella lista dei
partecipanti. Credo sia una formula passata e da rivedere.

Massimiliano Gioni:
Proprio di ieri [il 6 giugno, N.d.R.] è
un incontro bellissimo con Byungsoo Choi, artista fondamentale non solo per la
storia dell’arte ma anche per la storia della democrazia in Corea del Sud,
presente in tutti i manuali coreani ma che ormai vive isolato e dimenticato.
Nel 1987 realizza una serie di poster e immagini che guidano la rivolta
studentesca che porterà alla caduta della dittatura. Il suo ritratto di Hanyeol
Lee, studente ucciso dalla polizia, viene portato in parata e seguito da 2,5
milioni di persone. In mostra avremo questo ritratto che la polizia ha
confiscato, bruciato, tagliato a pezzi e che Choi ora conserva in un sacchetto
di plastica nella sua baracca sulla quale vive sulla spiaggia. Non credo ci
siano molte immagini che sono state viste e venerate da milioni di persone. Tra
quelli che mi sono “portato dietro” forse la sfida più ambiziosa è quella di
trasportare l’intero Teddy Bear Project
di Ydessa Hendeles: una collezione di oltre tremila fotografie che datano dal
1905 agli anni ‘40 e ritraggono bambini, adulti, persino Walter Benjamin, tutti
rigorosamente con un orsacchiotto. Collezionista ossessiva, studiosa, a suo
modo artista, Ydessa Hendeles ha costruito questo archivio – che contiene anche
orsacchiotti originali, come quello creato per commemorare l’affondamento del
Titanic – per raccontare l’esplosione di un’epidemia culturale, la diffusione
di un’icona, di un idolo nel quale il Novecento ha cercato conforto. Stiamo
spedendo 4 container di materiali, foto, oggetti: sarà un museo dentro al
museo, e spero – se mai riusciremo a completarlo in tempo – una delle opere
centrali della biennale.

Curare è un verbo
inflazionato?

Lorenzo Fusi: Se per
curare intendiamo prendersi cura di un progetto e assumersene la
responsabilità, direi di no. Anzi, dovrebbe essere una prassi da estendere a
qualsiasi altro settore. Per assurdo, mi piacerebbe pensare ai nostri politici
come a dei curatori: persone che mettono al servizio della comunità gli
strumenti che hanno a disposizione, il loro sapere o esperienza, know-how e
dedizione per raggiungere una diffusa consapevolezza e sviluppare un maggior
senso critico individuale e collettivo. Ma come possiamo fare benissimo a meno
di buona parte della nostra classe politica, immagino lo stesso possa dirsi per
molti di noi curatori. D’altro canto, sebbene alcune opere d’arte abbiano
davvero la capacità di “guarire”, non conosco curatore che sia riuscito a
guarire altri se non se stesso, attraverso il proprio lavoro. Gli artisti sono
i veri sciamani, gli alchimisti e i terapeuti. In ogni caso, il verbo ‘curare’
per sé non fa male.

Massimiliano Gioni:
Forse, non saprei. Io curo, curo, ma non guarisco mai :)…

Avete ancora tempo di
studiare, scrivere, visitare gli studi degli artisti?

Lorenzo Fusi: Amo
leggere e mi piace scrivere. Visitare gli studi degli artisti, guardare i loro
dossier e parlare con loro è un piacere, oltre che un arricchimento. Ma la vera
sfida non è tanto il lavoro, quanto riuscire a ritagliarsi il tempo per vivere
al di fuori di esso.

Massimiliano Gioni:
Sì, e in realtà la ragione per cui ho accettato di curare la Biennale di
Gwangju era che rappresentava un’occasione unica per passare un anno ad
avvicinarmi alla cultura e all’arte asiatica. Il contratto della Biennale di
Gwangju richiede che si vada in Corea almeno una volta ogni due mesi, ma dal
marzo del 2008 sono stato in Asia in media una volta al mese, con soggiorni di
ricerca in Cina, in Giappone, in Corea ovviamente. E poi ho messo insieme un
team di ricerca che mi ha accompagnato in questa avventura. Con l’aiuto di
Defne Ayas e Davide Quadrio di Art Hub Asia abbiamo appena pubblicato un libro
che raccoglie circa 190 artisti asiatici raccomandati da 50 curatori,
dall’Afghanistan al Giappone: è un libro che è una sorta di indice o motore di
ricerca e grazie al quale sono venuto a conoscere molti artisti che ho poi
incluso nella mostra. A New York poi ho lavorato con un team di ricercatori,
assistenti e compagni di merende: questa mostra è uno sforzo importante anche
per me, per capire come lavorare creando un gruppo di lavoro che possa affiancarmi
nella ricerca, nella scrittura e nella lettura. Alla fine credo che le mostre
migliori siano quelle in cui lo spettatore e il curatore condividono
l’impressione di una scoperta, di un processo se vuoi di apprendimento o di
sorpresa.

Quale biennale andrete a
vedere dopo aver organizzato la vostra? E non dite quella curata dall’altro
intervistato, che non vale!

Lorenzo Fusi: A
chiusura della nostra biennale mi prenderò una vacanza di un paio di mesi.
Detto questo, sono ora in partenza per quella di Berlino.

Massimiliano Gioni:
In effetti abbiamo qualche artista in comune, credo, a Liverpool e Gwangju. In
realtà sono curioso di vedere la Biennale di Berlino, che apre prima di
Gwangju, e la Biennale di Carrara mi sembra che quest’anno ne abbia già combinate
di tutti i colori ancora prima di aprire: è un’ottima premessa e mi sembra che
il lavoro fatto da Cavallucci sia davvero notevole. In Corea poi quest’anno si
aprono la Biennale di Busan e Media City Seoul, più o meno negli stessi giorni
di Gwangju. Vorrei tornare a Sidney, ma è sempre così lontana. E non vedo l’ora
della Biennale di Venezia di Bice Curiger, che è una bravissima curatrice e
dalla quale ho sempre cercato di imparare molto. La sua Expanded Eye ha ispirato un’intera sezione della Biennale di
Gwangju.

articoli correlati

L’edizione
2008 della Biennale di Liverpool

La
Biennale coreana e la curatrice falsaria

a cura di marco enrico
giacomelli

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
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dal 17 settembre al 28 novembre

Liverpool Biennial 2010

a cura di Lorenzo Fusi

Liverpool, Gran Bretagna

www.biennial.com

dal 2 settembre al 7 novembre

The Eighth Gwangju Biennale

a cura di Massimiliano Gioni

Gwangju, Corea del Sud

www.gb.or.kr

[exibart]

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