09 aprile 2019

Apre il primo “Design museum” italiano

 
Alla Triennale di Milano duecento oggetti-icone di quasi mezzo secolo di creatività tricolore. Suggellando il rapporto tra la città e i suoi bellissimi “software”

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Si apre il primo “episodio” del Museo del design italiano in Triennale, sognato da anni, con una mostra di oltre duecento oggetti-icona dal 1946 all’81: dalla ricostruzione al boom economico, fino al collettivo Memphis che rivoluzionerà i codici funzionalisti e modernisti del passato. 
Ospitato nella curva al piano terra del Palazzo di Giovanni Muzio, del 1933, affacciato su Parco Sempione, cuore pulsante di Milano che costeggia il Teatro dell’Arte, il nuovo museo, dinamico per attitudine, pensa già al futuro, prevedendo nuove acquisizioni di oggetti e il suo ampliamento ipogeo di 6mila metriquadrati da destinare al percorso espositivo e ai servizi per il pubblico (bar e ristorante), oltre a un riallestimento dell’archivio già programmato attraverso un bando di concorso internazionale di progettazione promosso da maggio secondo un piano concordato con il ministero dei Beni Culturali Alberto Bonisoli.
L’operazione prevede anche la costituzione di un’associazione in cui sono coinvolti Triennale e Aidi, l’Associazione per il Disegno Industriale, che nell’aprile del 2020 aprirà un’altro museo del design progettato per ospitare gli oggetti vincitori del prestigioso “Compasso d’oro”, l’oscar del design. E condividiamo l’idea che il nuovo progetto sia frutto del lavoro dello staff interno al museo.
La mostra, a cura di Joseph Grima, ripercorre in senso cronologico la storia della progettualità italiana con oggetti di culto che appartengono alla memoria e cultura collettiva, firmati dai più importanti designer italiani che hanno inventato oggetti d’arredo, caffettiere, macchine per scrivere, poltrone, vasi, lampade e oggetti diversi carichi di contenuti simbolici sedimentati nel nostro inconscio collettivo, che hanno reso la nostra casa e vita più allegra, più bella.
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Giò Ponti Superleggera 1955 Cassina, © Triennale Milano – foto Gianluca Di Ioia
C’è per esempio Lettera 22, di Nizzoli e Beccio del 1950, la macchina per scrivere più amata da Montanelli e da un’intera generazione non soltanto di giornalisti; Superleggera di Gio Ponti, del 1955, risolta in un 1,7 kg di innovazione ed eleganza formale, ispirata al modello di sedia impagliata fabbricata fin dall’Ottocento nella campagna ligure tanto per citarne alcuni e altri pezzi copiati da designer contemporanei. 
Il punto di forza di questo nuovo museo seppur didascalico, è quello di suggellare il rapporto tra Milano e il design, con oggetti che “parlano” nella loro qualità formale, senza supporti scenografici, effetti speciali, esposti su grandi piedistalli bianchi che nel tempo hanno prodotto un valore simbolico, oltre ad essere stati creati per rispondere a un bisogno, con una funzione specifica. 
Le interferenze tra design e arte sono evidenti nel Mezzadro dei fratelli Castiglioni, del 1957, un sedile di trattore su una balestra, quale efficace dimostrazione di assemblaggio ironico e funzionale insieme di pezzi industriali; et voilà una nuova seduta, ispirata alla pratica duchampiana del ready -made. Questo oggetto ha faticato 14 anni prima di essere compreso e messo in produzione, oggi è cult. 
Negli anni ’60, la società dei consumi porta una ventata di modernità e colore, e la musica della generazione “bandiera gialla” segna l’epoca dei giovani, in cui impazza la radio e, archiviate le grandi radio in radica, appare sul mercato Ts 502, di Marco Zanuso, del 1962, un cubo simmetrico che si apre e si chiude: una piccola “scultura”, in cui stile e funzione convivono allegramente in perfetto stile pop. 
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Allestimento visione d’insieme © Triennale Milano – foto Gianluca Di Ioia
Una seduta spiazzante è Pantone, del 1966, ideata da Ceretti, Derossi e Rosso, che ha aperto nuovi scenari per il design, fatta con fili d’erba verde volutamente artificiale, in poliuretano, in cui si possono trovare posizioni soggettive, sprofondare in un oggetto non convenzionale, lasciandosi avvolgere dalla morbidezza dei materiali. 
Passando agli anni ’70, spiccano i Moon Boot, di Giancarlo Zanatta, ispirati a quelli della Nasa indossati da Amstrong, leggeri e colorati. Non poteva mancare la star: Poltrona Proust di Mendini, del 1978, mago della creatività scomparso di recente, icona postmodern per il suo mix di citazioni colte rivisitate in chiave ironica, ispirata allo scrittore francese, decorata con stampe ispirate ai dipinti di Signac, “puntinissiomo” di colori che invadono tutte le sue parti, incluso quelle in legno. Stupisce il prototipo della Logos 68, calcolatrice elettronica da tavolo realizzata dall’Olivetti, nel 1973, con design di Mario Bellini.
Il percorso tra gli altri oggetti di Enzo Mari, Joe Colombo, Roberto Sanbonnet, Gae Aulenti, Anna Castelli Ferrari, eccetera, si chiude con Casablanca, di Ettore Sottsass, del 1981, più che un mobile una scultura coloratissime antropomorfa, d’impatto decorativo, in laminato plastico, allora considerato “volgare”, dalla forma totemica che mette in discussione i parametri della funzionalità, che rivoluzionò la produzione del design industriale successivo. 
Questa mostra è un viaggio nel tempo, grazie a un allestimento minimale, semplice ma non banale, in cui gli oggetti ordinati in senso cronologico sono i protagonisti di ciò che è stato: “testimoni” della cultura progettuale industriale Made in Italy, che incarnano nuove idee, concepiti da persone e prodotte da aziende che includono riferimenti immateriali, simboli universali, fruibili in maniera semplice attraverso “timeline” disegnate sulle pareti che indicano i fatti di cronaca, attualità, cultura del secondo Novecento in maniera divulgativa, ma efficace. 
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Alessandro Mendini Poltrona di Proust 1978 Atelier Mendini © Triennale Milano – foto Gianluca Di Ioia
È una mostra da guardare e da “ascoltare” senza apparati multimediali, ma grazie ai telefoni: Grillo, di Marco Zanuso e Richard Sapper, e i fissi, prodotti da Simens nel 1966, che il Museo ha trasformato in divertenti audioguide. I curiosi di tutte le età possono alzare la cornetta, aspettare il suono “vintage”, poi subito attacca la voce, quella di 25 designer che si sono presi la responsabilità di raccontare la genesi e il fascino dell’oggetto. Come diceva Vico Magistretti, «a me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo». 
Affiancano alcuni oggetti listino prezzi, campagne pubblicitarie, bolle di consegna, schizzi preparatori; tutti preziosi documenti dell’Archivio della Triennale: fonte inesauribile di imperiture riletture del passato con la sensibilità del presente.
Intanto il comitato di nuove acquisizioni composto da Paola Antonelli, Andrea Branzi, Mario Bellini, Antonio Citterio, Michele De Lucchi, Piero Lissoni, Cladio Luti, Fabio Novembre e Patricia Urquiola, selezioneranno nuovi prodotti per arricchire la collezione permanente. E noi già aspettiamo di vederli. 
Jacqueline Ceresoli 

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