14 marzo 2022

ArtBox di La7 e altre storie tra tv e cinema: intervista a Didi Gnocchi

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Raccontiamo le mostre, senza dare per scontata la conoscenza: Didi Gnocchi, fondatrice e titolare di 3d Produzioni, ci parla di ArtBox e del rapporto tra arte e divulgazione

Giornalista professionista a 23 anni, curiosa di storie e di vite che stimolassero la sua, le piace la ricerca, è anche un po’ ossessiva nella caccia di fonti e documenti. Alla trentina di ragazze e ragazzi che lavorano con lei dice sempre: “Tutto è interessante se approfondisci l’argomento. La superficie è noia”. Intervista a tutto tondo a Didi Gnocchi, fondatrice e titolare di 3D Produzioni, società di produzioni multimediali, fondata nel 1999, specializzata nella realizzazione di contenuti di carattere culturale tra piccolo e grande schermo.

Didi Gnocchi

Come ti definiresti?

«Una giraffa che ha allungato il collo nella foresta dell’arte e l’ha trovata buona. Buona perché le giraffe sono erbivore. E l’arte nutre».

Dove sei nata e dove vivi?

«Sono nata a Pavia, ma a 20 anni sono venuta a vivere a Milano. La provincia è un luogo meraviglioso da cui fuggire. Perlomeno da ragazza».

Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte?

«Tardi, dopo i 20 anni. Prima a Pavia con padre avvocato molto impegnato a sinistra, a difesa e a protezione dei più deboli, la mia educazione è stata più orientata verso politica, storia, letteratura e cinema. Poi, a Milano ho diviso la mia prima casa con un’architetta belga, un artista che insegnava a Brera e un designer giapponese e, ogni sera (erano gli anni ottanta), mi trascinavano da un’inaugurazione all’altra e poi al Giamaica, al Banco o al caffè Milano, dove trovavi o gli artisti di allora o quelli che parlavano d’arte. Inevitabile cercai di capirne qualcosa in più. Un giorno un amico portò a casa mia un quadro dicendo che sarebbe tornato a prenderlo il giorno dopo. Era uno degli specchi con un uccellino di Pistoletto. Rimase appoggiato al muro per mesi. Non sapevo chi fosse Pistoletto, ignoranza totale. Mi piaceva però. Finché qualcuno mi chiese come mai avessi un quadro di quel valore sul pavimento. Lo restituii e imparai chi era Pistoletto. Oggi con 3D Produzioni, la mia società con cui produco documentari, l’abbiamo intervistato tante volte e abbiamo già realizzato 2 documentari su di lui».

Quando e come è entrata la televisione nel tuo percorso professionale?

«La tv entra dal campo di basket. Avevo giocato nove anni, anche in serie A e una convocazione nella nazionale giovanile, e lì avevo conosciuto Bruno Bogarelli che era direttore dei Giganti del Basket. E che poi divenne il primo direttore dello sport e delle news di Mediaset. Passato l’esame da giornalista, ero alla “Provincia Pavese”, lo chiamai. E andai a lavorare in quella che allora era Videonews. Il mio primo direttore fu Guglielmo Zucconi che faceva “Dovere di Cronaca”. Primo servizio “la canzone politica degli anni 60/70”. Facile per me che avevo ereditato tutti i Dischi del Sole di mio padre. Poi quando partirono i telegiornali divenni inviata di esteri e lavorai soprattutto sull’est Europa, il neonazismo dopo la caduta del muro, la Russia di Gorbaciov. La tv negli anni 80/90 a Mediaset era un’avanguardia di tecnologia e di opportunità. Se volevi, imparavi in fretta».

A quale modello televisivo, di divulgazione culturale ti ispiri?

«Diciamo che mi sono abituata presto a mescolare l’alto e il basso proprio dalla televisione. Ho ricordi stranianti da bambina dell’Approdo con Ungaretti vecchissimo e Carlo Bo. Ma anche di mille festival e Canzonissime. Mio padre ci teneva moltissimo che vedessimo insieme TV7 e le tribune politiche, ma solo quando parlavano la Rossanda e la Castellina. Diciamo che mi ha regalato due bei riferimenti di donne. Poi ci sono stati i programmi di Zavoli, i reportage e le interviste di Enzo Biagi. E, finalmente, un po’ di venti nuovi con Odeon, Variety, L’altra domenica. E si pranzava con Alto Gradimento. La tv non è un libro, ma le parole contano. Ciò che rimane è ciò che è ben scritto. Puoi anche occupare ore con immagini e tv spazzatura, ma svaniscono in fretta. Se costruisci un racconto, sei leggero ma dai informazioni, fai la differenza».

Oggi in quale programma tv sei impegnata?

«Tanti: con 3D Produzioni realizziamo circa 30 documentari all’anno dedicati all’arte e alla cultura in onda su Rai, Sky, Mediaset o altre piattaforme. E anche documentari per il cinema. L’ultimo è stato “Napoleone. Nel nome dell’arte”. E poi c’è ARTBOX, un magazine d’arte settimanale prodotto da 3D Produzioni che, dopo alcune stagioni su Sky Arte, ora è in onda su LA7. Ritengo un ottimo risultato aver portato l’arte su LA7 che ha un pubblico già molto educato all’attualità e alla cultura».

Ci descrivi il format di ARTBOX?

«Raccontiamo due o tre mostre a puntata, non diamo mai per scontata la conoscenza, cerchiamo sempre di entrare nella vita e nella storia dell’artista; oltre alle immagini della mostra contestualizziamo con repertorio e con interviste. Ogni mostra deve diventare un piccolo racconto. Poi invitiamo ogni puntata un critico, un gallerista, un personaggio del mondo dell’arte a recensire una mostra che ha visto di recente, un commento d’autore insomma. E quest’anno abbiamo introdotto anche una rubrica che si chiama “Arte in sé” dove l’artista, come in un breve TED, spiega il suo primo contatto con l’arte, come l’arte è diventata la sua vita e come questo corpo a corpo si rapporta al sistema arte».

Qual è la tua giornata tipo?

«Sveglia 7,30 , 30 minuti di ellittica con iPad e serie tv possibilmente crime (altrimenti mi annoio e smetto prima), colazione, un’occhiata ai giornali, ufficio, lunedì riunione per la settimana, discuto con gli autori i progetti, vedo i premontati, incontro clienti, collaboratori, direttori di canali, valuto le proposte che arrivano, quando posso scrivo nuovi soggetti e cerco di incoraggiare chi lavora con me a dare sempre di più e a fare meglio. Così incoraggio anche me stessa. Difficile che torni a casa prima delle 20».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Quello dei libri: se non ho tutto ciò che è stato scritto su quell’argomento intorno a me, non riesco a cominciare a scrivere. Maremagnum, Ebay, Amazon… credo di essere un po’ compulsiva nell’acquisto di libri. E poi le penne stilografiche per scrivere la scansione delle cose da fare. La scrittura a mano mi dà pace».

Qual è l’ospite o l’incontro nel tuo programma che più ti ha colpito? Perché?

«Lea Vergine, per la sua libertà intellettuale».

Qual è l’ospite che ancora non hai avuto che vorresti?

«Anselm Kiefer. Le sue rovine sono sempre qualcosa da cui ricominciare. Mi piacerebbe un “Arte in sé” con lui per ARTBOX».

Quale protagonista dell’arte del passato avresti voluto intervistare e perché?

«Picasso. Amerei chiedergli se la sua stronzaggine con le donne era essenziale al suo lavoro».

Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema della cultura e dell’arte di oggi?

«Sono un’osservatrice esterna, e tale voglio rimanere, per giudicare. Penso che per raccontare l’arte come facciamo con ARTBOX sia meglio conoscere qualcosa in meno del ‘sistema’ e qualcosa in più degli artisti e del loro lavoro».

Individuo e società: cosa ti affascina di questi due mondi? In che rapporto sono tra di loro e con il tuo lavoro?

«Il primo documentario che ho realizzato su un’artista è stato “Betty Bee, vivere d’arte”, fine anni ’90, premiato al Festival del Cinema di Torino. C’era stata una serie di episodi di cronaca nera con protagonisti ragazzi di provincia: lanci di sassi in autostrada e omicidi di genitori. Ricordo le banalità degli articoli e delle analisi dei sociologi alla ricerca di spiegazioni. Chiesi a un’amica critica d’arte chi erano i giovani artisti che lavoravano sul disagio sociale. Mi indicò Betty Bee e Botto e Bruno. L’idea era che senza le lenti delle ideologie novecentesche, la realtà era difficile ormai da decifrare e che gli artisti, viaggiatori senza bagagli, fossero i migliori inviati speciali nella realtà. Ma non è l’artivismo di cui scrive Trione nel suo libro. Era un atto creativo e intuitivo non impegnato, almeno non consapevolmente».

Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?

«Tutto ciò che ha consapevolezza di ciò che ha alle spalle. Altrimenti è cipria del tempo».

L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del Covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro, sul senso dell’arte e della vita più in generale?

«Ho avuto poco tempo per riflettere: ho fatto due volte il Covid e tre vaccini. Ho preso molto cortisone cosa che mi ha portato in un delirio di onnipotenza a immaginare e realizzare un documentario su Napoleone. E a trascinare tutta la 3D Produzioni in questa avventura. Forse senza cortisone non avrei osato. Diciamo che avere un’azienda da mandare avanti ti costringe a fare».

Il tuo sogno nel cassetto?

«Sono stata fortunata, ho fatto tutto quello che volevo con passione e anche con molta fatica. Il sogno realizzato a cui tenevo è stato un documentario con Peter Handke, dopo che per anni ho tenuto sul comodino il suo “Canto alla Durata”, rileggendo come un mantra l’incipit nei momenti più difficili: “Restando fedele/ a ciò che mi è caro …, sentirò poi forse/ del tutto inatteso/ il brivido della durata/ e ogni volta per gesti di poco conto/ nel chiudere con cautela la porta,/ nello sbucciare con cura una mela,/ nel varcare con attenzione la soglia,/ nel chinarmi a raccogliere un filo”.

Ora vorrei un po’ più di leggerezza e che l’arte tornasse a farci amare un po’ di più la bellezza del mondo».

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